Narrativa straniera e Frontiere

Una vita migliore

A—G
Atul Gawande 5 Marzo 2016 25 min

Cento parrocchetti, quattro cani, due gatti e il medico che riportò la vita nella casa di riposo. Un estratto da Essere mortale di Atul Gawande.

Nel 1991, a New Berlin, un paesotto nell’entroterra dello Stato di New York, un giovane medico di nome Bill Thomas realizzò un esperimento. Non sapeva con precisione che cosa stava facendo. Aveva trentun anni, da due si era specializzato in medicina di base ed era stato appena assunto come direttore sanitario della Chase Memorial Nursing Home, una casa di riposo con ottanta residenti anziani gravemente disabili: metà degli ospiti presentava disabilità fisiche; quattro su cinque soffrivano di Alzheimer o di altre forme di disabilità cognitiva.

Fino ad allora Thomas aveva lavorato come medico d’urgenza in un ospedale vicino, praticamente l’opposto di una casa di riposo. La gente arrivava al pronto soccorso con urgenze specifiche, risolvibili: una gamba rotta, mettiamo, o un mirtillo finito in una narice. Se un paziente presentava problemi soggiacenti più vasti, se ad esempio si era rotto la gamba a causa di una demenza, Thomas doveva ignorare questi problemi più vasti oppure inviare la persona presso un altro servizio, come una casa di riposo, dove altri specialisti se ne sarebbero occupati. Aveva accettato il nuovo impiego di direttore sanitario perché gli offriva l’occasione di cimentarsi in qualcosa di diverso.

L’idea che gli passò per la testa era tanto folle e ingenua quanto geniale. E il fatto che riuscì a convincere i residenti e il personale a metterla in pratica ha quasi del miracoloso

Gli operatori della Chase Memorial non notavano niente di particolarmente problematico nel loro luogo di lavoro, ma Thomas, con l’occhio del nuovo arrivato, riconobbe in tutte le camere lo stesso clima di disperazione. La Chase Memorial lo deprimeva. Si propose di aggiustare le cose. All’inizio provò ad aggiustarle nel modo che conosceva meglio, vale a dire da medico. Vedendo i residenti così giù di corda e privi di energia, immaginò che ad affliggerli fosse un disturbo non diagnosticato o un’erronea combinazione di farmaci. Si mise quindi all’opera effettuando nuovi esami obiettivi dei residenti, ordinando Tac e analisi e modificando i farmaci. Ma dopo diverse settimane di indagini e cambiamenti, l’unico risultato che ottenne fu di aver fatto lievitare le spese mediche e impazzire il personale.
La capoinfermiera andò a dirgli di piantarla.
«Stavo confondendo l’assistenza con la cura medica», mi spiegò Thomas.
Comunque non si arrese. Si era formato la convinzione che in quella casa di riposo l’ingrediente mancante fosse la vita stessa, e decise allora di tentare un esperimento per iniettargliene un po’. L’idea che gli passò per la testa era tanto folle e ingenua quanto geniale. E il fatto che riuscì a convincere i residenti e il personale a metterla in pratica ha quasi del miracoloso.

«Ero disposto a essere rifiutato. È questo che fa di te un buon venditore. Devi essere disposto a essere rifiutato»

Ma per capire l’idea – e anche come gli venne in mente e come riuscì a farla decollare – occorre conoscere almeno un paio di cose su Bill Thomas. La prima è che da bambino Thomas vinse tutte le gare di vendita organizzate dalla sua scuola. Tutti gli scolari andavano a vendere porta a porta candele, riviste o cioccolatini per aiutare i boy scout o una squadra sportiva, e lui tornava a casa invariabilmente con il premio per il maggior numero di vendite effettuate. Alle superiori vinse le elezioni per la carica di presidente degli studenti. Fu anche nominato capitano della squadra di atletica. Quando voleva, era capace di vendere alla gente praticamente qualsiasi cosa, se stesso compreso.
Contemporaneamente, fu uno studente disastroso. Faceva collezione di brutti voti e di continui battibecchi con gli insegnanti a proposito dei compiti non fatti. Non che fosse incapace di farli. Era un lettore e un autodidatta vorace, quel tipo di ragazzo che si mette a imparare da sé la trigonometria per costruirsi una barca (lui aveva fatto così). Semplicemente non gli interessava fare il lavoro richiesto dai docenti, e non si faceva problemi a esternare il suo parere. Oggi riceverebbe una diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio. Negli anni Settanta pensavano semplicemente che fosse un rompiscatole.
I due personaggi – il venditore e il rompiscatole provocatorio – erano figli evidentemente della stessa terra. Chiesi a Thomas quale fosse la sua tecnica segreta di vendita quando era bambino. Disse che non ne aveva nessuna. Semplicemente, «ero disposto a essere rifiutato. È questo che fa di te un buon venditore. Devi essere disposto a essere rifiutato». Era questo tratto che gli permetteva sia di insistere finché non otteneva quel che voleva, sia di evitare tutto quello che non voleva.
Per molto tempo, però, continuò a non sapere che cosa voleva. Era cresciuto in una contea vicina a New Berlin, in una valle nei pressi della città di Nichols. Il padre faceva l’operaio, la madre la centralinista. Nessuno dei due aveva frequentato l’università, e nessuno immaginava che Bill Thomas ci sarebbe andato. Finite le superiori, stava per iscriversi a un corso di formazione sindacale. Ma una conversazione fortuita con il fratello maggiore di un suo amico, che era tornato per qualche giorno a casa dall’università e gli parlò di birra, ragazze e spassi vari, gli fece cambiare idea.
Si iscrisse in un’università statale vicina, la suny Cortland. Lì qualcosa fece scoccare la scintilla. Magari fu il professore delle superiori che quando partì profetizzò che sarebbe tornato a casa prima di Natale per andare a lavorare in una pompa di benzina. Comunque sia, ebbe un successo al di là di ogni aspettativa, visto che si divorò l’intero piano di studi con una media eccellente e fu rieletto presidente degli studenti. Si era iscritto pensando di diventare insegnante di ginnastica, ma durante le lezioni di biologia cominciò a pensare che forse medicina faceva al caso suo. Finì diventando il primo studente di Cortland a essere ammesso alla facoltà di medicina di Harvard.
Harvard lo stregò. Avrebbe potuto arrivarci covando sordi risentimenti… il figlio della classe operaia deciso a dimostrare di essere di tutt’altra pasta rispetto a quegli snob, con la loro istruzione accademica d’élite e i loro libretti di risparmio bancari per pagarsi gli studi. Ma non andò così. Quell’università fu per lui una rivelazione. Gli piacque enormemente vivere insieme a persone animate dalla sua stessa grande passione per la scienza, per la medicina, per tutto.
«Alla scuola di medicina, uno dei miei momenti preferiti erano le riunioni che un gruppo di noi teneva ogni sera al bar del Beth Israel Hospital, – mi disse. – Passavamo due ore e mezzo a parlare di casi… era appassionante, davvero bellissimo».
Gli piaceva anche essere in un posto dove lo ritenevano capace di grandi cose. Venivano a far lezione dei premi Nobel, perfino il sabato mattina, perché a Harvard era normale pensare che lui e gli altri aspirassero alla grandezza.
Ciò nonostante, non sentì mai il bisogno di guadagnarsi l’approvazione altrui. La facoltà cercò di reclutarlo nei suoi corsi di specializzazione presso ospedali di gran fama o nei suoi laboratori di ricerca. Lui invece scelse di fare il tirocinio in medicina di base a Rochester, nello Stato di New York. Non era esattamente quello che a Harvard si intendeva per aspirazione alla grandezza.
La sua idea era sempre stata di tornare a casa, nel nord dello Stato di New York. «Sono un uomo di provincia», mi spiegò. In effetti i quattro anni trascorsi a Harvard furono l’unico periodo della sua vita che passò fuori dallo Stato di New York. Durante le vacanze prendeva la bicicletta e andava da Boston a Nichols e ritorno – 550 chilometri a andare e 550 a tornare. Gli piaceva l’autosufficienza, piantare la tenda in un campo o in un frutteto a caso lungo la strada e trovare da mangiare dove gli capitava. La medicina di base lo attirava per lo stesso motivo. Gli dava la possibilità di essere indipendente, di fare da sé.
A metà dell’internato, con qualche soldo che aveva messo da parte, si comprò un pezzo di terra vicino a New Berlin. C’era passato davanti tante volte nei suoi giri in bici, immaginando che un giorno se lo sarebbe comprato. Quando finì la specializzazione, la vera passione di Thomas era diventata lavorare la terra. Cominciò la sua attività di medico di famiglia nella zona, ma presto si concentrò sulla medicina d’urgenza perché offriva orari sicuri e turni precisi, che gli permettevano di dedicare il resto del suo tempo alla fattoria. Inseguiva l’ideale del colono, di una totale autosufficienza. Aiutato dagli amici tirò su i muri di casa sua. La maggior parte di ciò che mangiava proveniva dai suoi campi. Produceva elettricità con impianti eolici e solari. Non era collegato alla rete di distribuzione. Viveva al ritmo del tempo e delle stagioni. Alla fine, insieme a Jude, l’infermiera diventata sua moglie, allargò il podere a più di centosessanta ettari. Avevano capi di bestiame, cavalli da tiro, polli, una cantina seminterrata, una segheria e una raffineria di zucchero, per non parlare dei cinque figli.
«Mi sentivo certo di vivere la vita più autenticamente vera che fosse possibile vivere», mi raccontò Thomas.
A quel punto era più un agricoltore che un medico. Si era fatto crescere una barba da boscaiolo e sotto il camice gli sarebbe stata meglio una tuta di jeans che la cravatta. Ma le ore in pronto soccorso lo sfibravano. «Insomma, ne avevo piene le tasche di fare tutte quelle notti». Perciò accettò il posto nella casa di riposo. Lavoro diurno. Orari programmabili. Che cosa ci sarebbe voluto?

Per Thomas vivere bene significava vivere nel modo più indipendente possibile. Ma era proprio questo che agli ospiti della casa di riposo veniva negato

Fin dal primo giorno che trascorse alla Chase avvertì lo stridente contrasto tra la florida e vorticosa abbondanza di vita a cui era abituato alla fattoria e l’arida e istituzionalizzata assenza di vita che lo accoglieva ogni volta che entrava al lavoro. Quel che vedeva lo tormentava. Le infermiere gli dissero che ci avrebbe fatto il callo, ma lui non ci riusciva, e neppure ne aveva voglia. Sarebbero passati degli anni prima che arrivasse a capire fino in fondo il perché, ma in cuor suo già sentiva che le condizioni imperanti alla Chase Memorial Nursing Home contraddicevano alla radice il suo ideale di autosufficienza.
Per Thomas vivere bene significava vivere nel modo più indipendente possibile. Ma era proprio questo che agli ospiti della casa di riposo veniva negato. Fece conoscenza con i vari residenti. Erano ex insegnanti, ex negozianti, ex casalinghe, ex operai, lo stesso tipo di persone che frequentava quand’era ragazzo. Era certissimo che potessero aspirare a qualcosa di meglio. Così, ascoltando più che altro l’istinto, decise di provare a insufflare un po’ di vita nella casa di riposo ricorrendo allo stesso sistema che aveva usato per casa sua: pensò cioè di portarci la vita, letteralmente. Che cosa sarebbe successo a introdurre piante, animali e bambini nell’esistenza dei degenti, a riempirci la casa?
Andò a parlare con il direttivo della Chase. Propose al consiglio di trovare i finanziamenti per la sua idea facendo richiesta di una piccola sovvenzione che lo Stato di New York metteva a disposizione per i progetti innovativi. A Roger Halbert, l’amministratore che aveva assunto Thomas, la proposta piacque, almeno in linea di massima. Era felice di provare qualcosa di nuovo. Nei suoi vent’anni di lavoro alla Chase, aveva fatto acquisire alla struttura un’eccellente reputazione e aveva ampliato costantemente il ventaglio di attività a disposizione dei residenti. La nuova idea di Thomas sembrava in linea con questa politica di miglioramenti. I membri del direttivo, quindi, si riunirono per redigere insieme la richiesta di finanziamento. Thomas, però, sembrava avere in mente qualcosa di più vasto di quel che Halbert aveva effettivamente capito.

L’obiettivo era combattere quelle che chiamava le «tre piaghe» della vita in casa di riposo: la noia, la solitudine, l’impotenza

Thomas espose il pensiero che stava alla radice della sua proposta. L’obiettivo, spiegò, era combattere quelle che chiamava le «tre piaghe» della vita in casa di riposo: la noia, la solitudine, l’impotenza. Se volevano opporsi alle tre piaghe, dovevano introdurre una quota di vita. Avrebbero messo delle piante in ogni camera. Avrebbero sostituito il prato con un orto e un giardino fiorito. E avrebbero fatto arrivare degli animali. (…)

Inviarono la domanda di finanziamento. Non avevano uno straccio di possibilità, pensava Halbert. Ma Thomas si recò con un’intera squadra di collaboratori nella capitale dello Stato per fare pressioni sui funzionari in persona. E ottennero la sovvenzione, e anche tutte le deroghe ai regolamenti indispensabili per attuare il programma.
«Quando ci giunse la notizia, – ricordava Halbert, – mi dissi: “Oh, diamine. Ora ci tocca farlo davvero!”»
Il compito di mettere la grande macchina in moto fu affidato alla capoinfermiera. Lois Greising aveva superato la sessantina e lavorava da anni nelle case di riposo. L’idea di provare un modo nuovo per migliorare la vita degli anziani la attirava profondamente. Mi raccontò di aver vissuto il progetto come un «grande esperimento» e di aver deciso che il suo ruolo sarebbe stato di mediare tra l’ottimismo a tratti sconsiderato di Thomas e i timori e le inerzie del personale.

La cultura è una sommatoria di abitudini e aspettative condivise

Non fu un’impresa da poco. Ogni luogo ha una cultura profondamente radicata che regola il modo di fare le cose. «La cultura è una sommatoria di abitudini e aspettative condivise», mi spiegò Thomas. Secondo lui, erano state le abitudini e le aspettative a trasformare le procedure quotidiane e la sicurezza in priorità più urgenti del bisogno di vivere una buona vita, e il risultato era stato, ad esempio, che in una residenza geriatrica non era possibile tenere neanche un solo cane per fare compagnia agli ospiti ricoverati. Lui voleva fare entrare animali, piante e bambini in quantità sufficiente perché diventassero parte normale della vita di tutti i residenti della struttura. Che la novità scombussolasse le consolidate procedure quotidiane del personale era inevitabile, ma in fondo non era anche questo uno degli obiettivi del programma?
«La cultura ha una straordinaria forza d’inerzia, – osservò Thomas. – È questo che la rende tale. Funziona perché dura. La cultura strangola l’innovazione nella culla».
Per combattere l’inerzia, Thomas decise di affrontare le resistenze frontalmente, di «andarci giù duro», per dirla con le sue parole. Lo chiamò il Big Bang. Non avrebbero portato un cane, un gatto o un canarino per mettersi poi a osservare le singole reazioni. Avrebbero fatto entrare tutti gli animali più o meno insieme.
Così, nell’autunno di quell’anno vennero a vivere nella casa di riposo un levriero di nome Target, una cagnolina di nome Ginger, i quattro felini e lo stormo dei volatili. Tutte le piante artificiali finirono nella spazzatura, sostituite in ogni stanza da piante vere. I membri del personale portarono i loro bambini a passare qualche pomeriggio alla residenza dopo la scuola; e gli amici e i parenti dei residenti installarono un giardino con area-giochi dietro all’edificio. Fu una terapia d’urto.
Un esempio a caso della magnitudo dell’impatto. I responsabili della residenza chiesero che i cento parrocchetti ordinati fossero consegnati tutti nello stesso giorno. Avevano forse pensato a come fare per sistemare cento parrocchetti in una casa di riposo? No, non ci avevano pensato. Quando arrivò il camion con i pennuti, le gabbie non c’erano ancora. L’autista, perciò, scaricò gli uccelli nel salone di bellezza al pianterreno, chiuse la porta e se ne andò. Le gabbie arrivarono più tardi, sempre lo stesso giorno, ma dentro a scatoloni piatti, ancora da montare.
«Fu un caos totale», mi raccontò Thomas. Al ricordo, non riuscì a trattenere un sorriso. È uno fatto così.
Thomas, sua moglie Jude, la capoinfermiera Greising e qualche altro volenteroso passarono ore a montare le gabbie e a inseguire i parrocchetti su e giù per il salone tra nugoli di piume per poterli poi consegnare nelle camere di tutti i residenti. I vecchietti si raccolsero fuori dalla vetrina del salone a gustarsi lo spettacolo.
«Cadevano giù dalle risate», mi disse Thomas.
Oggi il ricordo dell’incompetenza dell’intero staff lo lascia meravigliato. «Non sapevamo che diavolo stavamo combinando. Non avevamo la minima idea di quel che facevamo». Stava lì il bello. L’incapacità dello staff era così palese che quasi tutti abbassarono la guardia e si rimboccarono le maniche, residenti compresi. Chiunque fosse in grado di attivarsi si mise a foderare le gabbie con carta di giornale, a tranquillizzare cani e gatti, a chiedere ai bambini di dare una mano. Ne nacque un incredibile pandemonio, o per dirla nei termini più diplomatici usati da Greising, una «situazione stimolante».
Furono molti i problemi da risolvere in corsa, ad esempio quello di come dare da mangiare agli animali. Decisero di stabilire dei «giri per la pappa» quotidiani. Da un ospedale psichiatrico smantellato Jude recuperò un carrello da medicazione, che trasformò in quella che fu chiamata la parrocchetto-mobile. L’addetto di turno caricava la parrocchetto-mobile di becchime, bocconcini per cani e croccantini per gatti, e spingendo il trabiccolo passava di stanza in stanza a cambiare le fodere di giornale e a dare da mangiare agli animali. C’era un che di deliziosamente sovversivo, osservò Thomas, nell’usare un carrello da medicazione che un tempo aveva dispensato tonnellate di Torazina per distribuire biscotti per cani.
Scoppiarono crisi di tutti i tipi, ognuna delle quali avrebbe potuto decretare la fine dell’esperimento. Una notte, alle tre in punto, Thomas ricevette la telefonata di un’infermiera. Non era una cosa strana. Era il direttore sanitario. Ma l’infermiera non voleva parlare con lui. Chiese invece di sua moglie. Lui gliela passò.
«Il cane ha fatto la cacca sul pavimento, – spiegò l’infermiera a Jude. – Viene lei a pulirla?» Per quanto riguardava l’infermiera, era un compito che esulava assolutamente dalle sue funzioni. Non aveva fatto la scuola infermieri per pulire cacche di cane.
Jude si rifiutò. «Seguirono delle complicazioni», riprese Thomas. L’indomani mattina, quando arrivò, vide che l’infermiera aveva piazzato una sedia sopra la cacca, in modo che nessuno la pestasse, e poi se n’era andata.
Secondo una parte del personale, occorreva assoldare qualche professionista esperto di animali; star dietro a cani, gatti e parrocchetti non rientrava nelle funzioni del personale infermieristico e non erano previsti straordinari per questa incombenza. In effetti, negli ultimi due o tre anni, per colpa dei tagli statali ai rimborsi delle case di riposo, gli infermieri avevano ricevuto soltanto un aumento di stipendio. E com’era allora che la stessa amministrazione statale andava a buttare il denaro nell’acquisto in una caterva di piante e animali? Altri ritenevano che, come capita in tutte le case, gli animali dovessero essere una responsabilità condivisa da tutti. Quando si tiene un animale, succedono sempre delle cose, e chiunque si trovi nei paraggi si occupa di fare quel che deve essere fatto, che sia il direttore della casa di riposo o un operatore sociosanitario. Era una battaglia tra due visioni del mondo radicalmente distinte. Stavano gestendo un istituto di cura od offrendo una casa ai residenti?
Greising si diede da fare per corroborare la seconda prospettiva. Aiutò lo staff a distribuire le responsabilità in modo equilibrato. Poco a poco tutti cominciarono ad accettare l’idea che riempire la Chase di vita era compito di ognuno. E cominciarono ad accettarla non grazie a una serie sensata di ragionamenti o compromessi, ma grazie al fatto che la reazione dei residenti divenne ben presto impossibile da ignorare: i residenti, infatti, iniziarono a svegliarsi e a tornare alla vita.
«Gente che credevamo incapace di dir parola cominciò a parlare, – mi raccontò Thomas. – Degenti fino ad allora completamente ritirati e impossibilitati a muoversi cominciarono a passare dall’ufficio delle infermiere per informarle che andavano a fare una passeggiata col cane». Ogni parrocchetto trovò un residente che lo adottò e gli diede un nome. Negli sguardi dei degenti tornò a brillare una luce. Nel libro in cui racconta questa esperienza, Thomas riporta vari stralci dei diari del personale che dimostrano quanto gli animali fossero diventati soggetti insostituibili nella vita quotidiana dei residenti, compresi quelli con demenze avanzate.

Gus è davvero felicissimo dei suoi uccellini. Li ascolta cinguettare e chiede se può dare loro un po’ del suo caffè.
I residenti mi stanno veramente facilitando il lavoro: sono in molti a farmi un resoconto quotidiano della condizione dei loro uccellini (ad esempio «canta tutto il giorno», «non mangia», «sembra più vispo»…)
Oggi M. C. ha fatto con me il giro dei parrocchetti. Di solito sta sempre seduta di fianco alla porta del magazzino a guardarmi andare e venire, e così stamattina le ho chiesto se voleva accompagnarmi. Ha accettato tutta contenta, e così ci siamo messe in marcia. Mentre versavo il becchime e cambiavo l’acqua mi aiutava tenendomi il contenitore. Le ho spiegato ogni operazione, e quando mi capitava di bagnare gli uccellini rideva fino alle lacrime.
Gli inquilini della Chase Memorial Nursing Home comprendevano ora cento parrocchetti, due cani, quattro gatti, oltre a una colonia di conigli e a una torma di galline ovaiole. C’erano anche centinaia di piante da appartamento, un orto rigoglioso e un bel giardino fiorito. La casa offriva inoltre un servizio di assistenza per i bambini del personale e un nuovo programma di doposcuola.
Alcuni ricercatori studiarono gli effetti del progetto per un periodo di due anni, confrontando una serie di misure raccolte tra i residenti della Chase con quelle dei degenti di una residenza geriatrica vicina. La ricerca mostrò che il numero di ricette per residente si era ridotto della metà rispetto all’istituto di controllo. In particolare erano diminuiti i farmaci psicotropi per l’agitazione psicomotoria, come l’Haldol. Le spese complessive per i farmaci erano scese ad appena il 38 per cento di quelle dell’altra struttura. I decessi erano il 15 per cento in meno.
La ricerca non sapeva dire perché. Ma Thomas un’idea l’aveva. «Credo che la differenza di tasso di mortalità possa essere ascritta al fondamentale bisogno umano di avere una ragione per vivere». E altri studi corroborano questa conclusione. Nei primi anni Settanta, le psicologhe Judith Rodin ed Ellen Langer realizzarono un esperimento in una nursing home del Connecticut, facendo distribuire a tutti i residenti una pianta da appartamento. Una metà dei residenti fu invitata ad annaffiare la propria pianta e partecipò a una conferenza sui benefici dell’assunzione di responsabilità nella propria vita. L’altra metà fu informata che le loro piante sarebbero state curate da altri addetti e assistette a una conferenza sulle responsabilità del personale per il benessere dei residenti. Dopo un anno e mezzo il gruppo incoraggiato ad assumersi maggiori responsabilità – sia pure per una cosa da poco come può essere una pianta – risultò più attivo, più attento e mediamente più longevo.

Gli eventi degli ultimi tre mesi avevano mandato il suo mondo in frantumi. Aveva perso la moglie, la casa, la libertà; aveva perso, e forse era la cosa peggiore di tutte, l’idea che continuare a esistere avesse un senso. Aveva esaurito la gioia di vivere

Thomas, nel suo libro, racconta la storia di un uomo che chiama signor L. Tre mesi prima di essere ammesso alla casa di riposo, aveva perso la moglie, con cui era sposato da più di sessant’anni. Non aveva più voglia di mangiare e per tutti i bisogni quotidiani era diventato sempre più dipendente dall’aiuto dei figli. Poi distrusse l’auto finendo in un fosso e la polizia sollevò il sospetto che si trattasse di un tentativo di suicidio. Dopo che il signor L. fu dimesso dall’ospedale, la famiglia lo portò alla Chase.
Thomas ricordava quando lo vide la prima volta. «Mi chiedevo come fosse riuscito a sopravvivere. Gli eventi degli ultimi tre mesi avevano mandato il suo mondo in frantumi. Aveva perso la moglie, la casa, la libertà; aveva perso, e forse era la cosa peggiore di tutte, l’idea che continuare a esistere avesse un senso. Aveva esaurito la gioia di vivere».
Nella casa di riposo, malgrado gli antidepressivi e i tentativi per rincuorarlo, si lasciò sprofondare ulteriormente. Smise di camminare. Si rifiutava di alzarsi dal letto. Rimandava indietro il cibo. Proprio in quei giorni, tuttavia, partì il nuovo programma, e gli fu chiesto se voleva tenere due parrocchetti.
«Disse di sì, con l’indifferenza di chi sa di avere i giorni contati», riferisce Thomas. Ma cominciò a cambiare. «All’inizio furono cambiamenti quasi impercettibili. Nel suo letto, il signor L. si metteva in una posizione che gli consentiva di seguire le attività dei nuovi arrivati». Al personale che veniva a badare agli uccellini cominciò a dire che gusti avevano e come se la passavano. I due parrocchetti lo stavano tirando fuori. Per Thomas, era la perfetta dimostrazione della sua teoria sull’apporto insostituibile fornito dalle creature viventi. Dove c’era solitudine, offrivano compagnia. Dove c’era impotenza, offrivano la possibilità di prendersi cura di un altro essere.
«Il signor L. ricominciò a mangiare, a vestirsi da sé e a uscire dalla camera», riferiva Thomas. I cani avevano bisogno di essere portati fuori tutti i pomeriggi, e il signor L. ci fece sapere che era il lavoro per lui. Tre mesi dopo si ritrasferì a casa sua. Thomas è convinto che fu il programma a salvargli la vita.
Che sia vero o meno, non è questo il punto. La conclusione più importante ricavabile dall’esperimento di Thomas non è stata che avere una ragione di vita riduce i tassi di mortalità degli anziani disabili. La conclusione più importante è stata che è possibile dare agli anziani disabili delle ragioni di vita, punto. Anche i residenti con demenze così gravi da non riuscire più a comprendere gran parte di ciò che succedeva intorno a loro furono in grado di sperimentare una vita più significativa, piacevole e gratificante. Misurare quanto sia aumentato il valore attribuito da una persona al proprio essere vivo è molto più difficile che contare di quanto si sia ridotto il numero di farmaci che deve assumere o quanto si sia allungata la sua vita. Ma può forse esistere qualcosa di più importante?

Traduzione di Duccio Sacchi.

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