Narrativa straniera e Frontiere

Ach Claudio

E—G
Enrico Ganni 21 Novembre 2019 6 min

Il 6 novembre è mancato Claudio Groff, uno dei maggiori traduttori dal tedesco: sue sono le versioni, per limitarsi alla lunga collaborazione con Einaudi, di alcuni dei libri di Grass, Brecht, Jelinek, Enzensberger e molti altri. Lo ricorda qui l'editor e amico Enrico Ganni.

Ho conosciuto Claudio quando, parecchi anni fa, era lettore presso un’università austriaca. Avevo pensato di seguire le sue tracce e gli avevo scritto per avere informazioni su come procedere.

Dopo quel primo contatto epistolare ci siamo incontrati varie volte a Milano e già allora mi aveva impressionato la straordinaria abilità che mostrava nel passare da una tipologia di testo all’altra: dal saggio al romanzo, dalla poesia all’epistolario, da C. Ransmayr, a H.M. Enzensberger, da P. Handke a W.A. Mozart, e poi F. Kafka, H. Hesse, A. Schnitzler, R.M. Rilke, T. Bernhard per citare solo qualche nome.

E fu questo il motivo per cui quando, a metà degli anni Novanta, iniziai a lavorare alla Einaudi, mi rivolsi subito a lui per la traduzione dei testi più «rognosi»: i primi lo erano anche politicamente, trattandosi dei famosi brevi saggi sulla Serbia di Peter Handke (Un viaggio d’inverno ai fiumi Danubio, Sava, Morava e Drina e Appendice estiva a un viaggio d’inverno), mentre il successivo, E’ una lunga storia di Günter Grass, lo era linguisticamente e culturalmente.

Negli anni seguenti Claudio ha poi tradotto tutti i libri del futuro Premio Nobel, partecipando anche ai seminari che questi organizzava in Germania con suoi traduttori. E quando al suo rientro ci sentivamo, per prima cosa gli chiedevo una sintesi di quelle giornate, sapendo che, sul fronte della «descrizione d’ambiente», il suo resoconto non mi avrebbe deluso. Senza scomporsi e in contrasto con la sua indole – e anche con il suo tono di voce – pacata e lontana da ogni intento ingiurioso, era ad esempio capace di esprimere all’improvviso laconici ed esilaranti giudizi sui partecipanti e sulla loro reale capacità di comprensione del romanzo in questione.

Accanto a Grass, per la Casa editrice, Claudio ha però tradotto anche B. Brecht, E. Jelinek, H.M. Enzensberger e infine W. Benjamin; di quest’ultimo, fra l’altro le Poesie, testi molto criptici, in parte incomprensibili, di fronte ai quali più di una volta dovette arrendersi: in queste occasioni mi chiamava e cercavamo di capire insieme cosa diavolo volesse dire un determinato verso. E quando anche le nostre forze congiunte non erano sufficienti a risolvere l’enigma, ricorrevo a Rolf Tiedemann, il massimo esperto di cose benjaminiane; il quale ascoltava pazientemente la domanda, lasciava trascorrere una decina di secondi senza dire niente, poi sentenziava «Herr Ganni, ich weiß es nicht!» e faceva una breve risatina. Altrettanto stringato il commento di Claudio quando gli riferivo il verdetto: «Ah, ecco!».

Un capitolo a sé, al quale voglio brevemente accennare, era il suo rapporto con la tecnica: mi sento di poter dire che non fosse sua amica, dava l’impressione di saperne quel tanto – ma forse un po’ meno – che gli bastava per non soccombere. Aveva l’automobile, ma, almeno nei miei ricordi, sembrava quella del tenente Colombo. I computer gli davano molto spesso del filo da torcere: se non sbaglio, proprio all’inizio della nostra collaborazione gliene feci avere uno dismesso della Einaudi (non saprei dire perché: forse per le altre case editrici usava ancora la macchina per scrivere). Ma appunto, non fu suo amico, mentre immagino lo fosse poi diventato il tecnico che, a intervalli più o meno ravvicinati, doveva chiamare per rimettere in sesto le cose. Va però detto a suo onore che non usò mai la banale e ormai consunta scusa della tecnologia avversa per ritardare una consegna: era sempre puntuale, e siccome le sue traduzioni non avevano bisogno di molti interventi il lavoro di revisione di solito non richiedeva né troppo tempo né troppa fatica. La «macrostruttura» del testo era lì bella e pronta, io potevo concentrarmi sui dettagli minimi, che era poi un piacere discutere con lui.

Ad un certo punto, mi comunicò che non avrebbe più tradotto: mi disse che era stanco, ma non nascose anche un forte senso di delusione per come, in molte case editrici, veniva ormai considerato (o non considerato), anche in senso economico, il suo lavoro. Continuammo però a sentirci e anche a vederci, al Salone del Libro ad esempio, dove in occasione della sua ultima visita finimmo allo stand del Libraccio. Gli feci vedere alcune prime edizioni di Thomas Mann, lui mi guardò e con un sorriso commentò: «Quello lì, con tutta la sua erudizione! Meglio Musil.» Lo fissai allibito: «Beh, certo, L’uomo senza qualità è notoriamente un romanzo d’appendice» gli risposi. Ahimé: Claudio era rimasto fedele a Cacania.

Due anni fa, infine, per la prima volta ci scambiammo i ruoli: gli chiesi se aveva voglia di rivedere una mia traduzione e lui, con mia gioia e sollievo, sebbene già ammalato, accettò. Fu la nostra ultima collaborazione.

Te ne sei andato il 6 novembre. Fra i numerosi, talvolta minimi episodi che da quel giorno mi frullano per la testa ricordo, pensa un po’, un nostro breve scambio di vedute sul titolo italiano di un libro di Enzensberger – Ah, Europa! – che avevi appena tradotto. Mi sembrava, e tu eri d’accordo, che l’interiezione “Ach” dell’originale, esprimesse un senso di rammarico, forse di mestizia assente invece in italiano.

Ach Claudio, mi viene allora da ripetere anche in questi giorni, in tedesco, la lingua in cui ti sentivi a casa, mi mancherai molto, oltre che per la tua bravura come traduttore, per il tuo senso della vita, per il tuo umorismo, per la tua amicizia.