Narrativa straniera e Frontiere

Gianni o del camminare

M—B
Marco Belpoliti 3 Gennaio 2022 13 min

Vogliamo ricordare Gianni Celati (1937–2022) con le parole che gli ha dedicato Marco Belpoliti nel suo libro Pianura.

Questa è una storia che probabilmente non conosci. Il mese dovrebbe essere aprile. L’anno, di questo sono sicuro, è il 1978. L’aula è in via Guerrazzi. Frequento il Dams dove seguo le lezioni di vari professori, tra cui Piero Camporesi e Umberto Eco. Sono iscritto a Filosofia, ma qui c’è un’aria piú allegra e divertente. Le ragazze sono piú carine che nelle stanze di via Zamboni. Non si sa perché. Però non è per questo che sono salito al primo piano. Oggi presentano un libro scritto da un collettivo, il Gruppo A/Dams.

Nell’anno precedente l’università è stata in gran subbuglio, a gennaio, e poi soprattutto a febbraio quando è stata occupata. L’11 marzo poi le forze dell’ordine hanno sparato; è morto uno studente di Bologna, Francesco Lorusso, nel corso d’una azione di protesta; ci sono state manifestazioni, cortei e anche vari episodi di guerriglia urbana. I blindati sono entrati nella cittadella universitaria a presidiarne le vie. È seguito un grande convegno contro la repressione con intellettuali italiani e stranieri; ci sono andato, ma senza molta soddisfazione. Si capiva che qualcosa dell’allegria dei mesi precedenti si andava disfacendo. Dopo sai cosa è accaduto.

Tutto era cominciato due anni prima, nel 1976. Mi riferisco al collettivo. Ha preso a circolare la voce di un seminario interessante, molto interessante, che si tiene al Dams. Me ne parlano alcuni amici; poi succede che il seminario s’interrompe durante l’occupazione e la chiusura dell’università. Però il gruppo, autodefinitosi A/Dams, ha continuato a riunirsi imperterrito in uno scantinato. Qualcosa è trapelato da quelle discussioni. Si sa che stanno leggendo Alice di Lewis Carroll e la commentano in gruppo; parlano anche di vari film: Paper Moon e Il fantasma della libertà. Quindi per un po’ non si è saputo piú nulla.

Un giorno arriva la notizia che il collettivo ha pubblicato un libro intitolato Alice disambientata. Chiedo in giro, nessuno lo possiede. Forse non è ancora uscito in libreria. Ho cercato alla Feltrinelli di piazza Ravegnana, ma non c’è. Si mormora che sarà presentato al Dams. Ci vado. L’aula è affollatissima. Fatico a entrare. Non c’è posto. Allora mi siedo davanti per terra, vicino alla cattedra. Sono già in molti anche lí; almeno si vede il tutto da vicino. Dietro la cattedra c’è Gianni Celati. Ha davanti a sé una pila di libri. Sarà Alice disambientata? Si mette a parlare. Brusio nell’aula. Dietro di me sento che le persone si stanno muovendo, ondeggiano e la loro energia arriva sino a me. Devo spostarmi?

«Celati è in piedi e di colpo comincia a lanciare i libri. I volumi passano sulle nostre teste. Una mano appena dietro di me si protende per afferrarne uno al volo, lo tocca. Il libro rimbalza e quindi finisce sulla mia testa».

Celati è in piedi e di colpo comincia a lanciare i libri. I volumi passano sulle nostre teste. Una mano appena dietro di me si protende per afferrarne uno al volo, lo tocca. Il libro rimbalza e quindi finisce sulla mia testa. Lesto l’afferro. Capisco che non ci saranno altre parole. Alice è volata per aria e quindi il piú e il meglio è andato. Mi alzo a fatica ed esco. Ho paura che qui succeda come in un’altra aula del Dams. Settimane prima si dice che si era aperto un buco nel pavimento, forse per il troppo peso degli studenti o perché qualcuno aveva cominciato a saltellare sul vecchio impiantito del palazzo. Cosí si dice.

Scendo le scale e sono fuori. Cerco un posto lí vicino dove andare con il libro, che ho afferrato. Trovo un bar. Non c’è nessuno. Celati deve essere ancora su, al primo piano con quelli del collettivo. Ne conosco di vista alcuni: Roberto, Enrico, Luca, Paolo. Non so i loro cognomi, però li ho incontrati altre volte in questo palazzo dove si tengono le lezioni. Forse frequentano anche l’aula dove insegna Umberto Eco. O forse mi sbaglio.

Come sai non conservo molti ricordi di quel periodo, tuttavia il lancio dei libri del professor Celati, quello non l’ho proprio dimenticato. Nel mese di settembre dello stesso anno compero a Reggio, alla Cartolibreria Sironi & Davoli, Lunario del paradiso. E anche Boccalone di Enrico Palandri. Li leggo subito. Mi piacciono. Perché, mi chiedo, non ho frequentato anch’io il collettivo A/Dams? Mistero.

Sono trascorsi poi diversi anni prima che rivedessi Celati. Era l’inizio degli anni Novanta. C’eravamo scritti. L’occasione non la rammento. Forse lui aveva letto qualcosa che avevo pubblicato. Forse no. Fatto sta che a un certo punto Gianni ha cominciato a venire a casa mia, quella in collina dov’ero andato a vivere. L’avevo invitato a scuola, all’Istituto d’Arte di Monza. Tu abitavi già altrove e in quel periodo ci siamo visti ben poco. T’avevo scritto di quegli incontri; le mie lettere e le cartoline dovresti averle ancora, a meno che nei traslochi tu le abbia perse. Ma non credo proprio.

Gianni è sempre stato un ragazzo, anche quando l’ho rincontrato e non era piú il giovane professore del Dams. Aveva piú di cinquant’anni, eppure ne dimostrava trenta. Indossava jeans d’estate e pantaloni di velluto a coste d’inverno; i capelli lunghi e un ciuffo che ogni tanto spostava con le mani. Camminava con le sue scarpe da tennis oscillando leggermente la testa: dinoccolato, a tratti sembrava barcollare, ma non cadeva mai. Aveva sempre uno strano modo di parlare, molto manierato; era il suo modo emiliano di rivolgersi all’interlocutore in forma affettuosa; a volte non si capiva bene cosa stesse dicendo: faceva degli improvvisi salti logici e ti spiazzava. Era imprevedibile. Mentre ti parlava ti afferrava il braccio o metteva la mano sulla spalla: un modo per essere in contatto.

Piú d’una volta ho pensato che fosse una specie di nobile homeless, perché era trasandato, seppur in modo elegante: un’eleganza trascurata. Insomma, ha sempre posseduto un suo stile, che probabilmente è la cosa piú difficile da avere. Parla con tutti, anche con gli sconosciuti per la strada, con un modo di fare sempre partecipato, per quanto poi si capisce che è distaccato, una strana forma di distacco. Meglio: è preso da altro. A tratti infatti appare lontano, trasferito con la sua mente in qualche angolo remoto; la sua testa, lo si capisce quando parla, non è mai ferma: continuamente corre verso qualcosa che cerca, pur tornando sempre al punto di partenza. Un punto cieco, che non è facile da cogliere.

«Piú d’una volta ho pensato che fosse una specie di nobile homeless, perché era trasandato, seppur in modo elegante: un’eleganza trascurata. Insomma, ha sempre posseduto un suo stile, che probabilmente è la cosa piú difficile da avere».

Gianni è sempre stato un gran camminatore. L’hanno scritto in tanti e questa immagine di lui torna molte volte anche nei suoi discorsi, e nei libri che ha scritto. Cammina per passione, per vedere, per conoscere, e soprattutto per sedare l’ansia che non l’ha mai abbandonato, un aspetto della sua personalità che probabilmente ha radici molto profonde, cosí che nessuno riesce a vederle davvero, salvo alcune rare creature con lui simpatetiche. L’ansia di sapere, e anche di dire, di trovare una forma per quello che pensa e dice, poiché ha sempre pensato parlando; le sue storie sono nate cosí in questa forma, discorsi fatti a se stesso.

A proposito del camminare, ha detto piú volte che prima di scrivere lui cammina molto a piedi, sino a stancarsi, poi torna a casa e si mette a scrivere. La stanchezza di tutto quel vagabondare gli serve per tenere a bada la sua istanza di controllo, quella che gli dice cosa e come scrivere; una specie di Super-Io molto esigente. Silenziandolo con lo stato catatonico della stanchezza e della sonnolenza, dice che gli riesce di scrivere meglio, o almeno non come vorrebbe il suo padrone interiore. Sarebbe un po’ come stare nella nebbia, ha detto Anna in studio, quando le ho parlato di questa sua abitudine; scrivere senza sapere dove andare a finire, senza confini e destinazione assegnata.

Piú volte Gianni ha raccontato che gli capitava di andare a trovare Calvino a Parigi mentre era diretto a Londra dove studiava. Arrivava con la sua macchina senza l’ausilio di una cartina stradale. Italo gli chiedeva come avesse fatto. Lui lo guardava stranito, come a dire: Boh? Per questo Calvino lo rimproverava: non si può viaggiare senza una carta, gli diceva. Lui di mappe non ne aveva; cosí quando si smarriva, si fermava e chiedeva informazioni ai passanti. Qualche volta Calvino si arrabbiava pure, però gli voleva un gran bene, e chiudeva un occhio su questo modo di viaggiare alla cieca. Come si fa a non voler bene a Gianni?

«Lui è rimasto come Pinocchio: indisciplinato, bizzoso, imprevedibile. Un eterno ragazzo».

Lui è l’incarnazione visibile della nostra giovinezza, quella che abbiamo vissuto, e anche di quella che abbiamo immaginato di vivere. La giovinezza quale età ideale, che a un certo punto dell’esistenza fugge via, si perde, e non c’è piú. Ci si alza un mattino e, come il burattino di Collodi, ci si trova trasformati: da legnosi adolescenti, quali s’era il giorno prima, a adulti in carne e ossa. Per quanto poi la carne prema e le ossa dolgano. Gianni, invece no. Lui è rimasto come Pinocchio: indisciplinato, bizzoso, imprevedibile. Un eterno ragazzo.

Il dono dell’eterna giovinezza gli dèi non lo concedono con facilità. Quando lo fanno, può sembrare che lo diano cosí, senza guardare, bendati tanto quanto la fortuna. Poi però si capisce che c’era una ragione, perché è capitato proprio a lui o a lei. Gianni, come tutti i trickster, è un ragazzo pazzerello e insieme saggio. La saggezza è un altro dei doni che ha ricevuto, per quanto è stato solo molto avanti nella vita che s’è accorto di possederla. Si tratta della saggezza propria degli agitati. Il suo movimento si chiama scrittura.

Una volta Narciso Silvestrini ha detto che se si applicasse un pennino a chi cammina, e si potesse registrare su un grande foglio quel movimento, apparirebbe la figura di una sinusoide, forma geometrica che somiglia a un’onda con un suo massimo e un suo minimo. Se si potessero verificare – e io non so bene come si possa fare – i picchi verso l’alto e quelli verso il basso, si scoprirebbe che corrispondono quasi sempre ai moti dell’animo di Gianni. Sono gli alti e i bassi che lo rendono inafferrabile per sé e per gli altri.

Il suo continuo movimento che l’ha portato dai Fratelli Marx dei cinemini bolognesi alle coste della Normandia, e da lí alle isolette britanniche, e poi in Africa, e di nuovo a Bologna, e prima e dopo a Reggio, a Modena, da Luigi Ghirri, da Ermanno Cavazzoni, da Daniele Benati, e da tanti altri, in tanti posti dove è stato e dove ha vissuto poche ore o molti anni.

Il suo è il tentativo di combattere un impulso dell’animo che non gli dà tregua, e a volte lo trascina verso l’alto, mentre in altri momenti lo butta a terra. Scrivere è stata la terapia durata un’intera vita, il modo che aveva per contrastare la malinconia e la depressione. Come ha scritto una persona che lo conosce molto bene, ci sono certi tipi di depressione che intorbidiscono il pensiero e annebbiano i sensi. La sua non è cosí. In Gianni gli stati di depressione sono quasi sempre accompagnati da una specie di furia contro le costrizioni dell’esistenza, che lo fa combattere con gli altri e anche con se stesso, e lo obbliga a viaggiare e a camminare, ma che lo lascia sempre lucido. Questo è quello che lo ha reso amabile a noi tutti, a partire da quel lontano lancio di libri. Non ti pare?

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Marco Belpoliti

Pianura


Frontiere, Einaudi 2020, p. 296