Narrativa straniera e Frontiere

La sceneggiatura delle guerre zombi

A—H
Aleksandar Hemon 29 Marzo 2016 17 min

Una guerra zombi e altri incubi: tipo una scuola di scrittura.

Della vita di Joshua, porzioni considerevoli erano già state sprecate in precedenza, senza lasciare traccia di trauma o rimpianto. Ma il problema impellente, in quello specifico lunedì, era che doveva presentare qualche pagina al workshop(pe?) Scrivere per il cinema II, che quella sera per la prima volta si sarebbe tenuto a casa di Graham. Quei succhiacazzi in Birkenstock del Film Collective ti succhiavano pure il sangue (parole di Graham), prendendosi una vergognosa fetta della quota d’iscrizione senza degnarsi di fornire carta da cesso sufficiente. Lui l’aveva pagata di tasca propria, dopodiché era giunto alla conclusione che tanto valeva che i suoi devoti workshopper si pulissero il culo nella sua umile dimora, e lui si tenesse i soldi per sé.

Un Joshua senza pagine, dotato soltanto dei più vaghi ricordi di zombi, fu quindi fatto accomodare su una poltrona-sacco viola sul pavimento del salotto di Graham. Sul tavolino basso campeggiavano pretzel e una gran bottiglia di Diet Coke sgasata. Coi testicoli strizzati dalle mutande torte, Joshua evitò ogni contatto visivo col Dillon in flanella che, sprofondato fino ai fianchi nel futon scolorito e infossato, stava esponendo uno dei suoi spunti. C’era anche Bega, in maglietta dei Motörhead, curvo sulla scrivania a contemplare il Wrigley Field fulgidamente illuminato oltre la finestra di Graham. I tifosi produssero un boato da fuoricampo e Bega grugnì malinconico, con i suoi capelli grigi e folti, divisi da un’approssimativa scriminatura, spiccatamente intonati al cespuglio grigiastro che gli cresceva sul volto. Graham interruppe i vaneggiamenti di Dillon per fare una riflessione a partire da un frammento pertinente della sceneggiatura che aveva appena ultimato.
– «Benedetti siano i dilettanti! – Graham parlava con la voce tronfia di uno dei suoi personaggi. – I perseveranti, i falliti, i mangiatori di merda! Lasciateci lodare coloro che sognano in grande e non concludono niente, coloro che non si lasciano scoraggiare dall’impossibile, irretiti dal possibile! Sono gli stercorari del Sogno Americano, i piccoli fertilizzatori dimenticati della terra d’America».
Passandosi pensoso il pollice sulla fossetta del mento, Graham alzò lo sguardo sul suo pubblico per spiarne la reazione: ricurvo su un quaderno che teneva aperto in grembo, Dillon annotava qualcosa con furia; Bega annuiva, mangiucchiando la sua Bic; Joshua era concentrato su Graham, ma solo perché, strizzate com’erano, le palle gli si stavano gonfiando dolorosamente. Affrontare il problema significava alzarsi e infilarsi la mano nei pantaloni per liberare i testicoli dalla morsa delle mutande. Joshua non era pronto per un simile gesto, quindi sopportava. La mente non può immaginare nulla se non finché dura il corpo.
– Giusto perché non stiate lì a chiedervi cosa succede dopo, – proseguì Graham, – il mio ragazzino continua a mietere successi. Alla fine del secondo atto tocca il fondo, ma poi nel terzo torna in pista e vince un Golden Globe.
Joshua cercò di afferrare il proprio zaino, ma il dolore all’inguine lo fece rantolare e desistere. Il salotto di Graham era sommerso di tascabili – sui ripiani, sul pavimento, sui davanzali –, tutti coperti di polvere e dedicati alla magia del cinema e alla scienza della sceneggiatura. Sull’unica parete senza libri campeggiava un enorme poster del Padrino: Parte II, con Al Pacino che incombeva su di loro come Gesù da una pala d’altare.
– Tutto ciò è interamente basato su una storia vera, signori. I pezzi grossi di Hollywood si sciroppavano una fila fino in cima alle Hills per farsi una bibita dietetica con me, ma io non avevo nessuna intenzione di farmi fregare! Nossignore! – Graham mostrò il medio alla summenzionata fila di pezzi grossi. – Andate pure a farvi fottere, branco di Weinstein!

Sull’unica parete senza libri campeggiava un enorme poster del Padrino: Parte II, con Al Pacino che incombeva su di loro come Gesù da una pala d’altare

Graham si dondolava avanti e indietro alla cassidica, e intanto sproloquiava, con la pelata che si arrossava a chiazze come una lava lamp. Bega sembrava apprezzare lo sproloquio, giacché interruppe la masticazione della Bic per ridere di gusto. Nel frattempo, Joshua rotolò giù dalla poltrona-sacco e si alzò, producendosi in smorfie per un dolore che prevaleva sulle insinuazioni antisemite di Graham.
– Sta di fatto – continuò Graham – che avete voglia di imparare, e questo è indubbiamente fantastico. Quindi, Dillon, per essere completamente e costruttivamente onesto, il tuo non è certo lo spunto più brillante che mi sia capitato di sentire. Ma abbiamo tutta la giornata per lavorarci, e ne faremo qualcosa di buono.
Dillon prese un appunto, poi girò la pagina e continuò a scrivere. Finalmente Joshua si abbassò i pantaloni per liberare le palle, e nel movimento il suo ombelico ammiccò agli astanti dal folto di un ciuffo di peli.
– Cosa diavolo stai facendo? – chiese Graham.
– Sparticulo involontario, – spiegò Joshua.
Graham batté le mani facendo trasalire Dillon. – L’hai sentito, Dillon? Sparticulo involontario! Segnatelo! È roba così che devono dire i tuoi personaggi, non quelle cazzate soporifere sull’avidità aziendale.
Il piacere di districarsi le palle fu intensificato dall’elogio di Graham, sicché Joshua si sentì in diritto di chiedere a Dillon di farsi più in là per potersi sedere sul futon. Studiò la notte fuori dalla finestra: l’effervescenza della partita che aleggiava su Wrigleyville; le luci del treno della sopraelevata che arrancava lungo la curva della Sheridan; i grattacieli di Lake Shore all’orizzonte; e oltre ancora l’oscurità sconfinata. Bega agitò i capelli sopra la scrivania, come cercando di scrollarsi via qualcosa. Che fossero pidocchi?
Joshua e Bega avevano entrambi partecipato a Scrivere per il cinema I; non avevano mai parlato molto se non per commentare i rispettivi embrioni di sceneggiature. Bega trasmetteva sempre un gretto senso di superiorità prendendo in giro le sciocche trame degli altri partecipanti. Le sue non erano molto meglio, ma lui si proteggeva tacendone la risoluzione, con la scusa che voleva tenere avvinti i compagni.
– C’è chi si spartisce il culo volontariamente? – chiese Dillon.
– C’è di tutto. Che mille fiori fioriscano, – disse Graham. – E poi cosa succede?

Palesemente, ai soldi Dillon non ci aveva mai pensato. Scrisse soldi in uno spazio rimasto vuoto tra i ghirigori, e lo sottolineò due volte

Dillon consultò il quaderno. Sulle cui pagine non c’era scritto niente, notò Joshua, soltanto ghirigori scarabocchiati.
– Sono tipo nel deserto, – disse Dillon, – e ci sono tipo tutte queste cose. Lui si ferma tipo allo sportello della paura e questi tizi gli chiedono tipo quali sono le sue paure e lui dice tipo gli squali e le onde, e i tizi si presentano travestiti dalle sue peggiori paure e cominciano tipo a inseguirlo. Poi lui prende i funghetti con la ragazza goth, e si fanno tipo il trip più fantastico della loro vita, e lui decide di non andare a LA per quel lavoro e tipo rimanere a vivere con la ragazza goth nella comunità del deserto.
Graham lo osservava attento, visualizzando lo sportello della paura e i tizi travestiti da squali e onde. – Costerà un sacco di soldi, – disse.
Palesemente, ai soldi Dillon non ci aveva mai pensato. Scrisse soldi in uno spazio rimasto vuoto tra i ghirigori, e lo sottolineò due volte.
– Dato di fatto: non servono soldi per scrivere una sceneggiatura, ma ne servono a pacchi per fare un film. Dato di fatto: dovrete elemosinare i soldi, fa parte del lavoro –. Graham ricominciò a dondolarsi. – E i Weinstein sguinzaglieranno i loro ventiduenni sfigati mangiamerda per scremare in un pomeriggio di indolenza il tuo lavoro di una vita. Poi ti lanceranno quattro miseri spiccioli, quello che loro spendono ogni mese per depilarsi il petto, e si aspetteranno pure che te li faccia bastare. Tu per loro non sei nessuno, sappilo! Sei uno zero! Un assoluto cazzo di nessuno! Zero!
Bega rise di nuovo; l’odio di Graham per i Weinstein sembrava divertirlo da matti. Il petto di Joshua si contrasse producendo un rantolo colpevole – avrebbe dovuto restituire l’insulto, ma non ce la faceva. Dillon sbatté le palpebre, probabilmente colto dal panico di fronte alle chiazze che affioravano sull’estensione del cranio di Graham. Quindi tornò a rifugiarsi nei suoi ghirigori: adesso stava trasformando a una velocità fenomenale delle spirali in altrettanti tornado, che nella metà superiore della pagina andavano a congiungersi biblicamente con le tenebre. Sulla pagina opposta, tornado-free, c’era una scena che rappresentava dei personaggi-stecco con un fumetto sopra il tondo della testa, fra cui uno che reggeva una tavola da surf ovale con la sua mano-stecco. Guerre zombi, pensò Joshua. Dove si va partendo dal nulla?
– La buona notizia è che, se riesci ad agganciare una star con il fisico per la parte del surfista, magari un po’ di grana la rimedi, – disse Graham, che si era stabilizzato. – Magari quel… come si chiama, Hartnett?
– Penso che devi fare questo tizio più vero, – disse Bega. Fu sorprendente sentirlo parlare; era tutta la sera che se ne stava a ridere in disparte. – Deve essere normale, un poco leggermente filosofo, magari loser. Come Josh, per dire.
Durante Scrivere per il cinema I, Bega aveva argutamente e meritatamente, secondo Joshua, preso di mira un peruviano il cui soggetto prevedeva divinità inca che combattevano mostri marini. Stavolta Joshua disse: – Io? Cosa c’entro io?
Da una certa distanza lo stavano tutti studiando, quel sopravvissuto a uno sparticulo involontario: il corpo di un peso leggero che ha abbandonato il wrestling dopo le medie; gli occhi cascanti che, in una luce più lusinghiera, sarebbero potuti sembrare contemplativamente dolenti; il leggero morso in testa che spesso lo faceva apparire eccessivamente perplesso.
– Se proprio devo dirla tutta, trovare del fisico in Joshua è una bella sfida, – disse Graham. – Sto scherzando.
Dillon rise, sollevato che Graham avesse spostato la mira, e attaccò a disegnare edifici con camini fumanti. Forni crematori? Era forse un modo subliminale – o anche, fanculo, liminale – di allinearsi con il latente antisemitismo di Graham? Fin da prima della scena crematoria, Joshua era fermamente convinto che la pinguedine di Dillon derivasse da una devozione a oscure band anni Novanta, la quale esigeva un’uniforme: camicia di flanella, occhiali alla Costello, costoso berretto da camionista. E poi chi è che da LA viene a fare un workshop di scrittura per il cinema a Chicago? Probabilmente era arrivato lì per tipo vivere gratis con sua nonna. La signora Alzheimer, nata Sfondata.
– Adesso che quello là ti ha fatto alzare il culo, Josh, – disse Graham, – cosa ci proponi? Qualcosa di fresco e favoloso? Un ottovolante di sesso e violenza?
Bega si sporse in avanti per sentire Joshua, con le sopracciglia grigie che ora brillavano sotto la lampada da tavolo.
– Non credo di avere delle pagine pronte. Ma credo di avere una nuova idea, – disse Joshua. – Il titolo di lavorazione è Guerre zombi.
– Che fine ha fatto DJ Spinoza? – chiese Graham.
– Devo studiarci. Non riesco ancora a sentire la musica.
– E il tuo insegnante supereroe?
– Aspetterà il suo turno, – disse Joshua. – Il mondo è pieno di supereroi.
– Infatti, – disse Graham, – e invece sta per rimanere a secco di zombi.

Vendimi Guerre zombi! Io ho quello che ti serve! Non ho un neurone ma ho soldi a pacchi!

Dillon ridacchiò. Joshua immaginò di colpirlo col dorso della mano. Quel ragazzo per uno zombi sarebbe stato uno spuntino succulento. Bega annuì, come se approvasse la visione di Joshua.
– Ok, – disse Graham, con una pazienza esagerata, – facciamo finta che non cambi idea ogni settimana. Facciamo finta che non ce ne freghi un beneamato cazzo. Ok. Quello che conta è come te la cavi qui dentro. Quindi: fammi questo cazzo di pitch! Sono il tuo grasso Weinstein. Fammi innamorare di te e della tua storia! Vendimi Guerre zombi! Io ho quello che ti serve! Non ho un neurone ma ho soldi a pacchi!
Joshua inspirò. Immaginò un grasso Weinstein che lo guardava in cagnesco da dietro un’impressionante scrivania; pensò anche di alzarsi e andarsene, e non rivedere mai più Graham né incassare il suo fanatismo riflesso, e non scrivere mai più una singola battuta di dialogo. C’erano argomenti a sufficienza per intraprendere una carriera di sceneggiatore interamente dedicata a schivare i Weinstein, così come una vita plasmata dall’assenza di speranza e ambizione. Ma Bega guardava Joshua come se fremesse dalla voglia di sentire quel che aveva da dire, e Joshua espirò. Una cosa qualsiasi può essere, accidentalmente, causa di speranza o timore.
– Ok. Ok: il governo americano ha un programma segreto per trasformare gli immigrati in schiavi, – improvvisò. – Il governo crea un virus per trasformarli in zombi che lavorano nelle fabbriche, incatenati alla catena di montaggio.
Adesso lo guardavano tutti con palese interesse. Dillon smise di scarabocchiare; sulla fronte di Graham le chiazze si fusero in un’uniforme distesa vermiglia; Bega fece a Joshua un altro cenno d’assenso, approvando la scelta degli immigrati. Era difficile confezionare qualcosa sotto i riflettori della loro attenzione, ma ormai aveva spiccato il salto, e non poteva che ricadere.
– Le cose vanno storte, – disse Joshua. – Le cose vanno stortissime.
– Per forza, – disse Graham.
– E il virus si diffonde? – chiese Bega. – Infetta altra gente oltre agli immigrati?
– Certo, – disse Joshua. – Il virus si diffonde eccome. Chiunque può essere contaminato.
– E chi rimane in vita? – chiese Graham. – Fanciulle?
– Non è detto, – rispose Joshua. – Probabilmente. Lavorandoci, qualcuna salterà fuori.
– Il virus si diffonde, e poi? – chiese Dillon.
– Be’, – fece Joshua, lentamente, per guadagnare tempo. – Be’, il governo manda l’esercito. Per eliminarli. I militari si limitano a divertirsi sparandogli alla testa e facendoli saltare in aria. Sarebbe un bagno di sangue, se gli zombi sanguinassero. Ma ci sono così tanti immigrati morti viventi che i soldati si trasformano in zombi a loro volta, e iniziano a uccidere chiunque, non solo gli stranieri. La situazione degenera, assassini e zombi sono ovunque, è il caos, nessuno di cui fidarsi, nessun posto dove andare. Un incubo.
Gli veniva tutto in automatico, senza sforzarsi o pensare. Era come mentire, ma meglio ancora, perché non potevano beccarlo, e non potevano beccarlo perché non c’era modo di smentirlo. Sommersi dal flusso di stronzate, gli altri non avevano motivo, o tempo, di non credergli.
– Ma c’è un medico dell’esercito, il maggiore Klopstock, che è convinto di poter sconfiggere il virus. Il maggiore Klopstock sta lavorando a un vaccino…
– Un attimo, – disse Graham. – Che razza di nome è? Maggiore Klopstock? Mi prendi in giro? Allora perché non maggiore Crapshit?
– A me Klopstock in realtà piace, – disse Joshua. – Klopstock può essere l’eroe di un film. Perché no?
– Pensi davvero che Bruce Willis accetterebbe di chiamarsi Klopstock? Neanche a ricoprirlo d’oro. Trova qualcos’altro.
Questa per Joshua era l’occasione di tener testa a Graham e difendere l’implicita ebraicità del maggiore Klopstock. D’altra parte, il personaggio non era ancora ben definito, né Joshua così legato a quel nome; e a rigor di termini, Graham non aveva menzionato la sua ebraicità. Non era né il luogo né il momento.
– Ok: il maggiore Qualcos’altro si autosomministra il vaccino, – continuò Joshua. – In un primo tempo non sappiamo se ce la farà o se diventerà anche lui una specie di zombi.
– E poi? – chiese Dillon.
– E poi viene il conflitto, – disse Joshua. – Questo racconta, la storia. Il conflitto del maggiore.
– Il conflitto va bene. A parte il nome, è un inizio, – disse Graham. – Magari l’esercito potrebbe anche, tipo, combattere contro degli zombi terroristi che si fanno saltare in aria come pazzi. È un buon momento per pensare a queste cose, dato che stiamo per aprire il culo all’Iraq.
– In realtà non ci avevo pensato, – disse Joshua.
– Potrebbe essere divertente, fidati. Sguinzagliamo l’esercito di zombi alle calcagna di quegli scopacammelli e poi la faccenda sfugge di mano e i nostri ragazzi morti viventi tornano indietro per banchettare con la nostra carne. Penso che sia davvero niente male, cazzo. Non credi che sia niente male? Mi merito una pacca sulla schiena!

Benedetti siano i dilettanti! – Graham parlava con la voce tronfia di uno dei suoi personaggi. – I perseveranti, i falliti, i mangiatori di merda!

E Graham si diede una pacca sulla schiena.
– Non so, – disse Joshua. – Non voglio che sia troppo politico.
– Perché no? – osservò Bega. – Guarda situazione attuale. Nemici dei musulmani ovunque, tutti i film, tutti i programmi in televisione, tutti felici di invadere. È tutto politico. Sono tutti politici.
– Ehi, hanno raso al suolo le nostre torri, – disse Graham. – La vendetta è un piatto che va servito con bombardamenti a tappeto.
– Saddam non c’entrava niente con torri, – disse Bega. – Nessun legame.
– La gente dice che siamo stati noi, – disse Dillon, – tipo per poter attaccare l’Iraq e prendergli il petrolio.
La chiazza sulla sua fronte si accese, ma poi Graham scelse di stare zitto e quella si dissolse.

 

© 2015 Aleksandar Hemon. All rights reserved
© 2016 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Traduzione di Maurizia Balmelli.

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Aleksandar Hemon è nato a Sarajevo nel 1964 e dal 1992 vive negli Stati Uniti, dove è rimasto bloccato dallo scoppio della guerra in Bosnia poco tempo dopo il suo arrivo. Appena tre anni più tardi ha cominciato a scrivere in inglese, riscuotendo gli elogi della critica anche per la ricchezza del suo stile, al punto da aggiudicarsi nel 2004 la prestigiosa «genius grant» della MacArthur Foundation, ed è oggi unanimemente considerato uno tra gli autori più raffinati e interessanti in circolazione. Presso Einaudi ha pubblicato Spie di Dio, Nowhere Man, Il progetto Lazarus (finalista al National Book Award 2008. La storia vive, oltre che nel romanzo di Hemon, nelle fotografie di Velibor Bozovic che l’accompagnano, e in un sito internet che ne è l’ideale rimando multimediale). Nel 2013, sempre per Einaudi, è uscito Il libro delle mie vite; e nel 2014, Amore e ostacoli.

«Un ottovolante di sesso e violenza»

Per molti versi L’arte della guerra zombi è davvero «un ottovolante di sesso e violenza». Ci sono spade da samurai e cock ring nel cassetto, squilibrati maneschi e gatti sfortunati, zombi mangiacervelli e donne affascinanti. C’è un bel po’ di sesso poi. Anche buon sesso. E soprattutto c’è molto da ridere. Anche se, a ben guardare, c’è ben poco da ridere con il mondo che dipinge Aleksandar Hemon. Cos’ha significato per te, gli chiediamo, la scelta del registro comico? Che impatto può avere sui lettori? Ridere addolcisce la pillola? O forse, più amaramente, una risata ci seppellirà tutti?

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