Narrativa straniera e Frontiere

La cometa bianca

G—D
Gabriele Di Fronzo 24 Ottobre 2016 7 min

È molte cose una balena: un mondo, un viaggio al centro della terra, un'ossessione. Può anche essere un circo di idee e visioni come in questo sillabario sentimentale di Gabriele Di Fronzo.

W

Philip Hoare è coinvolto nell’osservanza di un credo acquatico di cui celebra la cerimonia più carezzevole nelle pagine di questo libro: con il suo Leviatano venera la misericordia e la potenza del più grande animale che esiste, il corpo santo della balena, la fiamma bianca che avvampa nell’acqua e non tramonta mai. La balena è il sesamo che una volta schiuso fa sconfinare Hoare dappertutto: splende con lei sull’onda alta e s’inerisce negli abissi del mare. La balena è una cometa meno vanitosa, d’indole più timida di quella che taglia il cielo, s’inoltra azzurra nell’acqua, gigantesca solinga dalla mascella sempre spalancata per bere e pranzare insieme. È un animale che non si fa lusingare, «carnivoro più grande di ogni dinosauro mai esistito», neppure da lui che l’avvicina euforico, ma anche timoroso di darle noia. Il luogo sacro, in effetti già per etimologia, è inviolabile. Philip Hoare lo racconta senza profanarlo, senza comprometterlo. Ha acceso tutt’intorno i ceri più profumati, fa battere lenti i tamburi su cui danza il corteggiamento come ogni buon biografo sa che deve fare, chiede permesso ed entra nella balena con le pattine. Nel suo ventre è finalmente al riparo, la balena è una nuvola fumigante e spumosa che nasconde chi la adora dagli altri mostri che ululano oltre la superficie dell’acqua. Leviatano è un mausoleo, un altare, un ossario, un cimitero, un acquario, un’orazione vitale, come per Giorgio Manganelli la biblioteca era «molte cose, strane, inquietanti cose; è un circo, una balera, una cerimonia, un incantesimo, una magheria, un viaggio per la terra, un viaggio al centro della terra, un viaggio per i cieli; è il silenzio, ed è una moltitudine di voci; è sussurro ed è urlo; è favola, è chiacchiera, è discorso delle cose ultime, è memoria, è riso, è profezia, soprattutto, è un infinito labirinto», così è un ambaradan di spiriti sottili e fracassi la balena di Philip Hoare.

H

E se il cetaceo è un mammifero che si è adattato all’acqua fino a farsi prendere per pesce, questo libro è una storia d’amore con le sembianze di un lyric essay. Con una scrittura che, come si comportano le balene, affonda nel mare più profondo, s’inabissa in fossi poco perlustrati e poi riemerge a darsi a vedere all’occhio di chi sta fuori. Non c’è approssimazione in questo libro, dove invece è tutto esatto, che è il canto di un uomo mentre nuota abbracciato al dorso di una balena. L’inchino al tiranno pietoso del mare è dell’adepto più competente e affettuoso. Le storie e i numeri con cui Hoare veste la sua balena sembrano tutte bugie da pescatore: l’animale ha dieci battiti lentissimi al minuto; non avendo labbra con cui succhiare, i piccoli bevono il latte che esce dai capezzoli materni facendolo entrare da un lato della bocca, e la tecnica l’ha scoperta Sir William Wilde, il padre di Oscar; lo sfiatatoio spruzza fuori quattrocento litri d’aria al secondo, «una nuvola umida dentro cui la luce solare forma l’arcobaleno»; ci sono bestie di trecento, quattrocento anni; l’odore delle loro carcasse spiaggiate è talmente forte che i biologi sono autorizzati a fumare sigarette di continuo; il musicista Moby è un pronipote di Hermann Melville; i vocalizzi di una balenottera americana si allungano al punto che sono percepibili da una europea; mangiano fino a settecento calamari al dì, che all’anno fanno cento milioni di tonnellate di cibo; quando vogliono fare una pennichella, si mettono a perpendicolo in acqua come i pipistrelli nelle grotte; i denti, come il tronco di un albero, se sezionati mostrano anelli concentrici che rivelano l’età dell’esemplare. La balena ha l’evanescenza del fantasma, anche se è di una grossezza più geografica che animale.

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Serena Vitale nel libro A Mosca, a Mosca!, riporta un breve elenco di alcune delle parole con cui i russi definiscono un ubriaco. Se avesse proposto una lista su per giù nei paraggi della completezza, ci dice, il lettore si troverebbe davanti un centinaio di nomi. Dobbiamo invece accontentarci di questi: «rifinito, umidiccio, lesso, innaffiato, attizzato, turchino, infiammato, lustro, calduccio, unto, tamburato, limonato, elettrizzato, pompato, cherosenato, incerato, vaporoso, sotto gas, sotto gradi, veicolo lunare, quadrupede». E si sa che gli eschimesi dispongono di un vasto numero di variazioni sul tema lessicale «neve»: ne hanno una quindicina, a seconda che la neve sia più o meno consistente, più o meno bianca, più o meno incline a compattarsi in palle, farinosa o secca, con una maggior tendenza a sciogliersi al contatto umano o una minore tendenza a farlo. E c’è quindi la qanik, l’apuhiniq, l’hiku, il maniilaq. Philip Hoare, al contrario, assegna alla bestia un unico nome. Tutte le parole convergono lì e lì spariscono, dentro il suo ventre enormemente cavo e da lì effondono come sprigionate: è la balena. Il poeta modernista Peter Altenberg da un certo punto in avanti prese a scrivere pagine sempre più spoglie, fino a ridurre le strofe, abbreviare i versi, arrivando finalmente a comprimere una prosa lirica d’amore al solo nome, cognome e indirizzo della donna amata. Fa la stessa cosa Philip Hoare in questo libro dedicato alla sua sola stella: «la balena, l’Oceano».

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La balena è l’unico animale, oltre all’uomo e alla scimmia, in grado di riconoscersi se mai venisse davanti a uno specchio. L’abilità del ritratto di Hoare è al punto formidabile che se un esemplare di cetaceo un giorno lo leggerà, vi si riconoscerà come davanti a uno specchio. E non è proprio un caso che le foto che macchiettano le pagine del libro siano in bianco e nero: c’è, infatti, il dubbio che i cetacei non sappiamo distinguere i colori.

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Philip Hoare è come il vecchio professore Rosario La Ciura del racconto La Sirena di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, è ammaliato dal gorgo ipnotico che finisce in mare e tra le sue spire vorrebbe perdersi, nei suoi marosi scomparirebbe sereno, risucchiato nel sortilegio corallino. Così parla la Sirena all’anziano La Ciura che se n’è invaghito da ragazzo durante una breve soggiorno ad Augusta in una casupola appena a venti metri dal mare: «Dovresti seguirmi adesso nel mare e scamperesti ai dolori, alla vecchiaia; verresti nella mia dimora, sotto gli altissimi monti di acque immote e oscure, dove tutto è silenziosa quieta tanto connaturata che chi la possiede non la avverte neppure. Io ti ho amato e, ricordalo, quando sarai stanco, quando non ne potrai proprio più, non avrai che da sporgerti sul mare e chiamarmi: io sarò sempre, perché sono ovunque, e il tuo sogno di sonno sarà realizzato». Sono le stesse parole che la grandiosa bocca della balena rivolge a Hoare tutti i giorni che lui trascorre in piedi su quel labbro dello strapiombo che è la terraferma.

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Gabriele Di Fronzo è nato a Torino nel 1984. Il grande animale (Nottetempo, 2016) è il suo primo romanzo.

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