Narrativa straniera e Frontiere

Un romanzo è un cambiamento interiore

M—H
Murakami Haruki 14 Novembre 2018 11 min

In questa intervista esclusiva per l'Italia, Murakami Haruki parla dell'Assassinio del Commendatore, delle opere che ne hanno influenzato la genesi (da Mozart a... Fitzgerald), dei suoi misteri e dei suoi possibili significati. Ma anche del rapporto tra l'immaginazione e la vita, la fede e i progetti di scrittura futuri.

Signor Murakami, i suoi fan saranno entusiasti del fatto che, con L’assassinio del Commendatore, abbiano di nuovo un suo romanzo lungo in cui immergersi. Dopo due libri relativamente brevi (come L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio e la raccolta di racconti Uomini senza donne), aveva intenzione di pubblicare un romanzo lungo fin dall’inizio o la storia è cresciuta man mano che la scriveva?

Riuscire a scrivere romanzi di forma e lunghezza diverse, per me è sempre un motivo di enorme gioia. Ed è anche, credo, una cosa che mi dà forza, in quanto scrittore. Racconti, romanzi di media lunghezza, romanzi molto lunghi… li scrivo quasi a turno. Per ogni contenitore c’è un materiale più adatto a entrarvi dentro. Ma non è che io decida in anticipo la forma del contenitore − «Bene, ora voglio scrivere qualcosa di questa lunghezza…» − no, la forma del contenitore la stabilisco solo dopo aver capito che forma assume il contenuto, cioè quello che voglio raccontare. Solo a questo punto posso capire bene che dimensioni deve avere il libro. Se prendo la decisione giusta, tutto poi viene da sé, con naturalezza (anche se la scrittura di un romanzo, in sé, non è ovviamente una cosa facile).
Ci sono autori che scrivono solo romanzi lunghi, altri solo racconti. Così come Wagner non componeva sonate per pianoforte e Debussy non componeva sinfonie. Non per questo però il valore di Wagner o di Debussy in quanto compositori diminuisce. Ogni opera ha la sua qualità, che prescinde dalla lunghezza. Quanto a me, mi ritengo fortunato di poter usare contenitori diversi a seconda dei casi. Perché i miei pensieri hanno molte sfumature e molte forme, così come la mia persona ha molti aspetti.

In un’altra intervista ha detto che il personaggio di Menshiki, il misterioso miliardario che vive nella villa di fronte alla casa del protagonista, è una sorta di omaggio a uno dei suoi romanzi preferiti, Il grande Gatsby (che lei ha anche tradotto in giapponese). Ha scritto L’assassinio del Commendatore con il libro di Fitzgerald in mente o il collegamento è emerso mentre scriveva?

Scrivere è un gesto individuale, e al tempo stesso è la trasmissione di qualcosa legato al passato, qualcosa che poi si sviluppa e si proietta nel futuroSono stato influenzato da tanti eccellenti scrittori, ho imparato molto da loro e ne ho tratto ispirazione. Scrivere è un gesto individuale, e al tempo stesso è la trasmissione di qualcosa legato al passato, qualcosa che poi si sviluppa e si proietta nel futuro. Il grande Gatsby è un’opera che amo molto, e in effetti in questo mio ultimo romanzo alcuni passaggi sono un omaggio a quel libro, ma anche una sorta di «divertimento». Considerate pure L’assassinio del Commendatore un modo per trasmettere un’eredità culturale. Stesso discorso nei confronti dei Racconti della pioggia di primavera di Ueda Akinari. Naturalmente tali tributi riguardano solo alcuni passaggi. L’opera nel suo insieme è qualcosa di completamente diverso.

È giusto dire che, in fondo, L’assassinio del Commendatore, è un libro sulla creatività, sul fatto che le vie della creatività sono spesso indirette? Il pittore protagonista, ad esempio, produce il suo capolavoro quando entra in contatto con i suoi sogni e i suoi ricordi, non quando ha concretamente il modello davanti agli occhi.
Il lavoro di uno scrittore, di un artista, consiste nel cercare il modo di accedere alla sfera del proprio subconscio. Nel capire fino a quale profondità si riesce ad arrivare. Però non si tratta solo di avervi accesso, naturalmente, bisogna anche riportare in superficie ciò che si è trovato e renderlo in una forma adeguata. Una forma che, una volta compiuta, non dev’essere solo autocompiacimento, ma qualcosa che si condivide in modo forte e profondo con chi la riceve (il lettore). Per lo meno, è con quest’idea in testa che io scrivo.
Riguardo alla trama dei miei romanzi, credo che la maggior parte siano di questo tipo, che il loro tema dominante sia questo lavoro per accedere al subconscio. Più che perseguirla consapevolmente, però, mi capita di imboccare questa corrente mentre seguo il filo del racconto. È una cosa del tutto spontanea. E mi sembra che più il romanzo diventa lungo, più questa cosa venga fuori. Un romanzo lungo − da quando lo inizio a quando lo finisco − deve permettermi di avvertire un cambiamento interiore. Per questo ho bisogno di scendere profondamente dentro me stesso: un processo che dovrebbe poi riflettersi sul protagonista della storia.

L'illustrazione di copertine è di Noma Bar

L’illustrazione di copertine è di Noma Bar

I suoi romanzi a volte sono bizzarri come delle fiabe, eppure allo stesso tempo riesce a scrivere in maniera realistica scene di tutti i giorni. Questa combinazione di fiaba e realismo è evidente fin dai titoli dei capitoli dell’Assassinio del Commendatore: si pensi al secondo capitolo («Forse andremo tutti sulla luna») o, per contrasto, il 28 («Franz Kafka amava i pendii»). È qualcosa che pianifica prima di iniziare, o nasce spontamente dalla sua scrittura?

Fondamentalmente non scrivo romanzi realistici (a parte alcuni racconti e Norwegian Wood), ma per quanto riguarda la lettura, leggo volentieri scrittori e opere realisti. E mi piace molto analizzare in dettaglio lo stile di questo tipo di scrittore. Tuttavia le storie che io scrivo usando uno stile realista, nella maggior parte dei casi non sono realistiche. Si direbbe che questa «separazione» non mi dispiaccia. Nel caso dell’Assassinio del Commendatore, ad esempio, il pittore protagonista vorrebbe dipingere quadri astratti, ma non può fare a meno di studiare il disegno figurativo… è una cosa un po’ così. Il disegno ha una grande importanza.

Se una persona ha «il potere di credere», dice il narratore alla fine del libro, allora ci sarà sempre qualcuno che viene a guidarti. È un passaggio fondamentale, perché senza questa fiducia nessun artista (né nessun lettore) può abbandonarsi all’immaginazione. Possiamo paragonare questa fede a qualcosa di religioso, o non è d’accordo con le conclusioni del narratore?

Quando scrivo un romanzo, ho l’impressione di credere all’esistenza di qualcosa che «mi guida». Senza questa convinzione (questa guida), scrivere giorno dopo giorno un lungo romanzo non mi sarebbe possibile. Senza questa fiducia non riuscirei ad affidarmi per tanti mesi solo a una storia, avrei paura. Se si possa accomunare questa mia convinzione a «un sentimento religioso», è un problema che concerne soltanto il lettore. Per quel che mi riguarda, non ho una fede religiosa.

Matrimoni improvvisi, improvvise separazioni, un terremoto e tutta una serie di eventi imprevedibili: il mondo del suo romanzo differisce da quello che tutti conosciamo, che può essere molto noioso (nel libro sembra che non ci sia un solo giorno noioso!), o, al contrario, pensa che siamo noi che non riusciamo più a vedere gli eventi eccezionali e le stranezze in cui siamo immersi?

Guardata da una certa prospettiva, la nostra vita quotidiana ci sembra infinitamente monotona. Da un altro punto di vista, però, è piena di contraddizioni stupefacenti, di incoerenza e irrazionalitàGuardata da una certa prospettiva, la nostra vita quotidiana ci sembra forse ordinaria e noiosa, infinitamente monotona. Da un altro punto di vista, però, è piena di contraddizioni stupefacenti, di incoerenza e irrazionalità. E spesso nelle nostre notti fanno irruzione dei sogni assurdi. All’interno di noi scaturiscono una dopo l’altra cose che non possiamo valutare con parametri ordinari o già esistenti, che non possiamo stipare dentro i contenitori già in nostro possesso. Penso che noi viviamo contemporaneamente in questi due mondi. Il compito del romanzo − a mio parere − è di mettere sotto i riflettori «l’altro punto di vista» e di concentrarvisi. Possibilmente con un atteggiamento positivo.

Il personaggio del Commendatore e, più avanti, di Donna Anna, sono chiaramente ispirati al Don Giovanni di Mozart e entrambi saranno importanti, quasi delle guide, per il protagonista. Possiamo dire che per lei queste grandi figure culturali possono dirci qualcosa della condizione umana (o almeno fungere da consolazione?)

Quello che è certo riguardo alla società attuale, sommersa ogni secondo da ogni genere di informazioni, è che tutti noi viviamo portandoci sulle spalle un enorme serbatoio culturale. A me piace pescare in questo serbatoio ciò che può diventare un’icona e farlo funzionare nel racconto come un simbolo. Ad esempio, il Colonnello Sanders e Johnnie Walker in Kafka sulla spiaggia. Apprezzo il fatto che queste icone superino le differenze di linguaggio, di cultura, di sistema politico, di dottrine e opinioni, e che vengano condivise istantaneamente. Anche se forse il Don Giovanni di Mozart non ha la popolarità del Colonnello Sanders.

Molti dei suoi protagonisti maschili sono sfortunati in amore o alla ricerca di un partner, e lo è anche il protagonista dell’Assassinio del Commendatore. In più, dopo aver divorziato, attraversa una crisi creativa. Eppure lei è felicemente sposato da decenni e la sua carriera creativa appare tanto continuativa quanto fortunata. Dove trova l’ispirazione per personaggi così credibili e convincenti?

Ma in qualunque contesto o circostanza io mi proietti attraverso la scrittura, naturalmente ci sono cose in me che non cambianoA volte la mia situazione attuale mi sembra, diciamo così, poco realistica. Quando mi guardo attorno, cioè, ho l’impressione di trovarmi in un mondo nel quale fin dall’inizio non dovrei stare. E scrivendo fiction mi sembra di vivere un’altra vita che «magari è andata così». Può darsi che in termini di igiene spirituale sia un bene. Nel senso che correggo gli squilibri che ho dentro di me, faccio una specie di autoterapia. Quest’operazione − concedere a se stesso, attraverso la narrazione, la libertà di vivere in un contesto diverso − forse è possibile solo a uno scrittore.
Ma in qualunque contesto o circostanza io mi proietti attraverso la scrittura, naturalmente ci sono cose in me che non cambiano. Il fatto che sia perseverante e non mi scoraggi facilmente, che non mi dia fastidio la solitudine, che mi piacciano i gatti e la musica… questo genere di cose, insomma.

Eccoci arrivati all’ultima domanda. Cosa farà adesso, tradurrà o inizierà a scrivere un libro nuovo?

Entrambe le cose. Adesso sto scrivendo dei racconti (anche se non so se verranno bene). E sto traducendo dei racconti di John Cheever (mi piacciono molto).

Traduzione di Antonietta Pastore.