Narrativa straniera e Frontiere

«Oddio! Da quando in qua ha certe orecchie?»

L—T
Lev Tolstoj 21 Giugno 2016 17 min

Per celebrare la nuova traduzione di Anna Karenina, pubblichiamo le pagine del famoso incontro sul treno tra Anna e Vronskij, precedute da un testo dell'autrice della nuova traduzione: Claudia Zonghetti.

Il faut le battre, le fer, le broyer, le pétrir…

Ricordo di avere letto, qualche anno fa, un’intervista a Maurizia Balmelli. Aveva appena vinto il premio von Rezzori con Suttree (di Cormac McCarthy) e, in sunto, diceva che l’avere tradotto da quella che era la sua seconda lingua di lavoro aveva fatto sì che l’attenzione fosse a un livello superiore, che la vigilanza su lessico e sintassi avesse la punta meglio temperata.

Ecco. Mutatis mutandis mi è accaduto qualcosa di simile. Nel derby che ogni studente di russo (o lettore accanito) si trova sempre e comunque a giocare, io tifavo Dostoevskij. E per qualche decimo di secondo ho sperato di sentire quel nome, dalla cornetta.

Invece no. Tolstoj. A Guerra e pace avrei abdicato. Ma Anna Karenina

Tolstoj non è l’autore che tengo sul comodino, dicevo, ma negli ultimi anni mi è capitato di tradurre scrittori che lo veneravano: Vasilij Grossman, che lo indica spesso come proprio maestro e ispiratore (e che a Tolstoj è stato spesso paragonato) e Michail Bulgakov («In Russia chiunque scriva lo deve a Lev Tolstoj», disse un giorno a un amico. «E chi è, Gesù Cristo?» si sentì ribattere. «Sì, Tolstoj sta alla letteratura come Gesù Cristo sta al cristianesimo. Dopo Tolstoj non si può più vivere e scrivere come se Tolstoj non ci fosse mai stato», concluse).

Forte di queste letture (e di molte altre, ovvio, accumulate nel corso di almeno un paio di decenni e riprese e ampliate con curiosità bulimica), come prima cosa ho però riaperto qualcun altro che – ricordavo – non nutriva una particolare passione per il conte e si era concentrato sui colori, gli odori e i suoni della sua scrittura, vale a dire Angelo Maria Ripellino e il suo Per Anna Karenina.

I suoi appunti sono stati importanti per cominciare ad accordare l’occhio e l’orecchio, per cogliere i vari «sortilegi di rumori e movimento» (le descrizioni cinetiche sono davvero portentose: la corsa di Vronskij e Frou-Frou è descritta in ogni fremito dei due protagonisti, ma anche l’andirivieni di Karenin per le stanze di casa sua, mentre prepara la reprimenda da fare a Anna, sorta di stream of consciousness ante litteram tanto quanto i pensieri sinestetici di Anna sul treno che la riporta da Karenin, che troverete qui sotto), il «tempo nervoso» (e sempre più raggrumato e gorgogliante delle liti fra Anna e Vronskij, per esempio), quello stile che quando è freddo sa caricarsi di ironia e quando si scalda mantiene comunque una capillarità emotiva che non diventa mai pathos spicciolo, quell’ironia che spazia dalla boutade al sarcasmo più affilato.

«Il russo di Tolstoj» è sempre stato un’icona da venerare per qualunque russista.

Al tornasole della traduzione, «i russi di Tolstoj» sono molto meno impeccabili e torniti, sono molto più maculati e sapidi di quanto ci hanno sempre insegnato. E sono perciò efficaci non per olimpica perfezione, ma per astuto e virtuosistico mimetismo.

Spero, dunque, di avere restituito a ogni personaggio la sua voce specifica, fatta di cadenze, tic lessicali, registri accordati singolarmente (confesso di avere usato stratagemmi non sempre canonici, per riuscirci, appoggiandomi anche a tipi cinematografici sicuramente eretici, se paragonati a un classico di tale levatura, ma sulle «filologie a posto» – Ripellino, ancora lui – non ho mai ammesso deroghe).

E spero proprio, ancora, di non avere «rimodernato» Tolstoj come facevano le sartine di una volta con le giacchette passate di moda: una piega scucita qua, una pince aggiunta là, un paio di giovanilismi, una semplificata alla sintassi, uno scalino sceso verso il basso nella scala sinonimica. No. Al contrario. Spero che la sapidità di alcune scelte lessicali e sintattiche si percepisca.

Insomma, in conclusione, spero di avere restituito a Tolstoj un po’ più di Tolstoj.

Claudia Zonghetti

× × ×

«Anche questa è fatta, grazie a Dio!» fu il primo pensiero che passò per la mente di Anna mentre si congedava dal fratello rimasto a ingombrare il corridoio del vagone fino alla terza campanella. Si sedette accanto ad Annuška e osservò la penombra della carrozza letto. «A Dio piacendo domani rivedrò mio figlio e mio marito e riprenderò la vita di sempre, la mia solita, vecchia vita».

Tesa e affannata com’era stata durante tutto quel giorno, Anna si diede a prepararsi per il viaggio con cura e soddisfazione; le sue piccole mani agili aprirono e richiusero una sacca rossa dalla quale cavò un cuscino che sistemò sulle ginocchia; coperte per bene le gambe, prese posto serena. Una signora inferma aveva già deciso di coricarsi. Altre due presero a conversare con lei mentre un’altra, piuttosto grassa, si infagottava senza risparmiare commenti sul riscaldamento. Anna accennò qualche risposta, ma intuendo che la conversazione non sarebbe risultata di alcun interesse, chiese ad Annuška di trovarle il lume, lo agganciò al bracciolo del sedile, dopo di che sfilò dalla borsa un tagliacarte e un romanzo inglese. In un primo momento non riuscí a leggere. La disturbavano il chiasso e l’andirivieni. Poi, quando il treno partí, ci furono i rumori d’intorno a pretendere d’essere ascoltati: la neve che batteva contro il finestrino di sinistra e si appiccicava al vetro, il capotreno che passava coperto di neve solo da un lato, le chiacchiere sulla tremenda bufera in corso. Da un certo momento in avanti, però, tutto prese a ripetersi sempre uguale – i sobbalzi ritmati, la neve contro il vetro, i bruschi passaggi dal caldo al freddo e dal freddo di nuovo al caldo umido, i visi che baluginavano nella penombra e le voci, sempre le stesse – cosicché Anna cominciò a leggere e a capire che cosa stava leggendo. Annuška sonnecchiava con la sacca rossa sulle ginocchia, stretta fra le mani guantate (uno dei due guanti, però, aveva un buco). Anna leggeva e capiva quanto stava leggendo, ma la lettura – il riflesso sulla carta di vite altrui – non le procurava alcun piacere. Aveva troppa voglia di viverla, la vita. Se leggeva che la protagonista del romanzo si prendeva cura di un malato, subito avrebbe voluto entrare con passo lieve nella stanza dell’infermo; se leggeva di un qualche parlamentare che pronunciava un discorso, lei per prima aveva voglia di tenerne uno; e se una tal lady Mary inseguiva a cavallo un branco di volpi e stuzzicava la cognata lasciando tutti basiti con il suo ardire, subito aveva voglia di imitarla. Ma c’era poco da fare, per il momento. Dunque si limitava a giocherellare con il tagliacarte, imponendosi di continuare a leggere. Il protagonista maschile stava giusto per assaporare la sua felicità inglese – il titolo di baronetto e una tenuta dove anche lei avrebbe tanto desiderato andare a vivere, magari insieme a lui – quando di colpo Anna sentí che Vronskij avrebbe dovuto vergognarsi e lei con lui. Di che cosa, però? «Perché dovrei vergognarmi, io?» si chiedeva, perplessa e offesa. Mise da parte il libro e si abbandonò sullo schienale del sedile stringendo forte il tagliacarte con entrambe le mani. Non aveva nulla di cui vergognarsi, pensò. Passò al vaglio i suoi ricordi moscoviti. Erano tutti belli, tutti piacevoli. Ripensò al ballo, ripensò a Vronskij e al suo viso innamorato e devoto, e ripensò a quanto era accaduto fra loro: non c’era nulla di cui vergognarsi, no. Eppure la sensazione di vergogna si faceva via via piú forte, e mentre ripensava a Vronskij era come se da dentro al suo cuore una vocina le dicesse: «Acqua, fuochino, fuoco!» «E allora? – si chiedeva, convinta, rigirandosi sul sedile. – Che significa? Ho forse paura di guardare in faccia quel ricordo? E perché? Forse che fra me e quell’ufficiale troppo giovane ci sono o potranno mai esserci rapporti diversi da quelli che ho con un qualunque conoscente?» Anna si concesse un sorriso sprezzante e riprese il libro, ma senza piú capire che cosa stava leggendo. Fece scorrere il tagliacarte sul vetro, dopo di che ne appoggiò la superficie liscia e fredda sulla guancia e per poco non scoppiò a ridere per una gioia repentina e immotivata. Sentiva che i suoi nervi si tendevano sempre piú come corde sui cavicchi. E sentiva che i suoi occhi sempre piú si spalancavano, che le dita di mani e piedi si muovevano nervose, che dentro di lei qualcosa le impediva il respiro e che le immagini e i suoni di quella penombra tremolante la colpivano con un’intensità straordinaria. Era continuamente assalita dai dubbi: il treno avanzava o andava indietro? O forse era addirittura fermo? Era Annuška, la donna accanto a lei, o era un’estranea? «Quella sul bracciolo è una pelliccia o una bestia? E io sono davvero io?» L’idea di arrendersi al sonno la spaventava. Allo stesso tempo, però, qualcosa al sonno la allettava, e a sua discrezione Anna ora cedeva, ora faceva resistenza. Si alzò in piedi per tornare in sé, si scrollò di dosso il plaid e staccò la pellegrina dall’abito. Ripresasi per un istante, capí che l’uomo che era appena entrato – smunto, con un cappotto di nanchino al quale mancava un bottone – era il fochista venuto a controllare il termometro, e che il vento e la neve l’avevano seguito dentro allo scompartimento. Poi tutto tornò di nuovo a confondersi… Lo strano uomo dal corpo allungato si mise a raschiare qualcosa dalla parete e la vecchia allungò le gambe da un capo all’altro dello scompartimento, riempiendolo come una nuvola nera; a quel punto qualcosa prese a stridere e a sbattere in modo tremendo, come se stessero squartando qualcuno, e una luce rossa le accecò gli occhi. Poi tutto sparí. Anna si sentí come sprofondare. Ma non aveva paura: si divertiva, anzi. A un certo punto la voce dell’uomo imbacuccato e coperto di neve le gridò qualcosa all’orecchio. Anna balzò in piedi e tornò in sé; capí che erano arrivati a una stazione e che quel tale era il capotreno. Chiese ad Annuška di darle lo scialle e la pellegrina che si era tolta, se li mise e fece per uscire.

– Scendete? – le chiese Annuška.

– Sí. Ho bisogno di prendere un po’ d’aria. Si soffoca, qui dentro.

Aprí la porta. Subito il vento e la neve le si scagliarono contro per contenderle lo sportello. E le parve buffo. Anna aprí e scese. Il vento pareva avere aspettato soltanto lei e sibilò festoso: avrebbe voluto prenderla e portarla via, ma con una mano Anna si afferrò alla stanga fredda del vagone e, reggendosi il vestito con l’altra, scese sulla banchina e cercò riparo dietro alle vetture. Se sul predellino il vento soffiava convinto, sul binario l’aria era ferma. Anna respirò con gusto, a pieni polmoni, quell’aria che sapeva di ghiaccio e di neve. Intanto, in piedi accanto alla carrozza, osservava la banchina e la stazione illuminata.

× × ×

Da oltre l’angolo della stazione la bufera turbinava sibilando fra le ruote dei vagoni e contro i pilastri. Vagoni, pilastri, esseri umani: la neve già li copriva tutti da un lato, sempre piú spessa. La tormenta pareva quietarsi qualche istante, ma poi si risvegliava con raffiche alle quali sembrava di non potersi opporre. Qualcuno le corse accanto conversando animatamente e fece scricchiolare le assi della banchina aprendo e richiudendo la grossa porta della stazione. Sotto i suoi piedi scivolò l’ombra incurvata di un uomo, seguita dai rintocchi di un martello contro il ferro. «Avvisali per dispaccio!» risuonò una voce stizzita dall’altra parte di quel buio imbiancato. «Favorite per di qua! Numero 28!» gridavano altre voci, mentre alcune sagome imbacuccate e coperte di neve correvano oltre. Due uomini le passarono accanto con la brace delle sigarette accese che brillava all’altezza della bocca. Anna fece un altro respiro profondo per riempirsi i polmoni; aveva già sfilato una mano dal manicotto per reggersi alla maniglia e salire sul treno, quando un tale in cappotto militare le si fece accanto nascondendole la luce già tremula del lampione. Si voltò e in quel medesimo istante lo riconobbe. Portata la mano alla visiera, Vronskij si inchinò a salutarla e le chiese se avesse bisogno di qualcosa, come potesse servirla. Lei lo guardò a lungo, senza dire una parola, e nonostante l’ombra lo nascondesse colse – o almeno credette di cogliere – l’espressione sul viso e negli occhi di lui. Era, di nuovo, quel misto di ammirazione e rispetto che tanto l’aveva colpita. Quante volte, negli ultimi giorni e ancora qualche istante prima, si era ripetuta che per lei Vronskij era solo uno fra le centinaia di giovanotti tutti uguali che ovunque si incontrano, e che mai si sarebbe permessa di pensare a lui. In quel momento, invece, in quel primo attimo, si scoprí orgogliosa e felice dell’incontro. Non aveva bisogno di chiedergli perché era lí. Lo sapeva perfettamente, come se lo avesse sentito uscire dalla sua bocca, che era lí perché lí c’era lei.

– Ignoravo che doveste partire. Come mai siete in viaggio? – gli chiese comunque, lasciando ricadere la mano con la quale avrebbe voluto aggrapparsi alla maniglia dello sportello. E sul suo viso passò un lampo di esultanza e di gioia irrefrenabili.

– Come mai, mi chiedete? – ripeté lui, fissandola. – Se sono partito, se sono qui, è perché qui ci siete voi, – disse. – Non posso fare altrimenti.

E in quello stesso istante, quasi gli fosse finalmente riuscito di scavalcare un ostacolo, il vento fece piovere la neve dal tetto della vettura e andò a scuotere una lamiera divelta, mentre in testa al treno riecheggiò il fischio denso della locomotiva, cupo e lamentoso. Quella bufera tremenda le parve, ora, ancora piú bella. Vronskij aveva detto esattamente ciò che il cuore voleva sentire ma la ragione temeva. Anna non rispose, ma sul suo viso Vronskij colse i segni della battaglia che si combatteva dentro di lei.

– Se ciò che ho detto vi ha turbato, perdonatemi, – le disse, dolente.

Pur rispettoso e garbato, Vronskij pronunciò quell’ultima parola con una fermezza e una determinazione tali, che per qualche tempo Anna non riuscí a ribattergli.

– Quello che avete detto è sbagliato, e da gentiluomo quale siete vi prego di dimenticarlo come io lo dimenticherò, – disse, infine.

– Non c’è vostra parola, non c’è vostro gesto che io voglia o possa dimenticare…

– Basta, smettetela! – le uscí in un grido mentre si sforzava in ogni modo di imporre un’espressione seria a quel viso che lui stava fissando con avidità. Afferrata la maniglia fredda del vagone, Anna salí sul predellino e si infilò, svelta, nella carrozza. Si fermò, tuttavia, nel corridoio, e ripensò a quanto era accaduto. Non ricordava né le parole di Vronskij né le proprie, ma le bastava il cuore per capire che quello scambio fugace li aveva avvicinati come non mai; e ne fu spaventata e felice insieme. Rimase qualche istante dov’era, poi rientrò nello scompartimento e si accomodò al suo posto. E lo stato di magica tensione che l’aveva tormentata all’inizio del viaggio non solo fu di ritorno, ma si esasperò; l’idea che, dentro di lei, una corda troppo tesa potesse spezzarsi la spaventava. Non chiuse occhio per tutta la notte. La tensione e le fantasie che riempivano la sua mente, però, non avevano nulla di sgradevole e di cupo; al contrario, erano gioiose, calde e conturbanti. Anna prese sonno, seduta, che era quasi mattino; quando si svegliò c’era già luce e il treno era ormai prossimo a raggiungere Pietroburgo. E subito la casa, il figlio, il marito e le incombenze di quel giorno e dei successivi occuparono ogni suo pensiero.

A Pietroburgo scese non appena il treno si fu fermato, e il primo viso che richiamò la sua attenzione fu quello del marito. «Oddio! Da quando in qua ha certe orecchie?» pensò osservando quell’uomo freddo e imponente e i due enormi padiglioni auricolari che – ne fu stupita! – parevano quasi sostenere le falde della bombetta. Scorgendola, il marito le andò incontro con le labbra composte nel solito sorriso ironico e con i grandi occhi stanchi che la cercavano. Incrociando il suo sguardo protervo e affaticato, Anna sentí una fitta al cuore; se l’era immaginato diverso, suo marito. La colpí, soprattutto, il senso di disagio che provò nel vederlo. Era una sensazione che conosceva, tutt’altro che nuova e in sintonia con quelle specie di recite che erano i suoi rapporti con il consorte. Ma se prima evitava di farci caso, ora se ne rendeva lucidamente, dolorosamente conto.

– Come vedi, il tuo caro maritino è premuroso come nemmeno al secondo anno di matrimonio e ardeva dal desiderio di rivederti, – disse Karenin con la sua voce stridula e monotona, con la nota di sarcasmo che quasi sempre le riservava e che pareva farsi beffe di vezzi altrui.

– Serëža sta bene? – domandò Anna.

– È tutta qui, la ricompensa per il mio ardore? – rispose lui. – Sta bene, sta bene…

(Capitoli 29 e 30)

Lev Tolstoj, Anna Karenina, Einaudi 2016. Traduzione di Claudia Zonghetti.

Una nota alle note

«Eh bien, mon prince» è ancora lì.

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