Narrativa straniera e Frontiere

Le parole di Klara

S—B
Susanna Basso 30 Giugno 2021 10 min

Klara è un androide B2 dai talenti speciali, uno straordinario modello di Amico Artificiale. La sua struttura è una vera meraviglia della tecnica, ma sono le sue parole a renderla una protagonista eccezionale. Susanna Basso, che le ha tradotte in italiano, ci invita alla scoperta del capolavoro di Ishiguro da una prospettiva privilegiata.

Essere la creatura, non crearla, desiderarla, comprenderla, temerla, distruggerla, deluderla o abbandonarla, ma precisamente essere la cosa. Essere l’oggetto inanimato e pensante, intelligente e innocente, limitato e straordinario che qualcuno ha ideato per sé. Il paradossale prodotto dell’egoismo umano in tutta la sua genialità.

Klara è una persona meccanica destinata a servire. Gli occhi di Klara non vedono ma registrano la realtà scomponendola in geometrie più o meno compiute. In determinate circostanze ciò che registrano risulta interpretabile in modi contrastanti; ad esempio la Signora Tazza da Caffè e l’Uomo con l’Impermeabile si incontrano e si stringono «talmente forte da trasformarsi in un’unica grande persona». Klara cerca di capire che cosa sta succedendo tra i due ma, ammette, «non avrei saputo dire se l’uomo era molto contento o molto arrabbiato». Non solo le parole umane possono essere equivoche; anche i corpi e le loro espressioni.

Direttrice, la titolare del negozio nel quale Klara aspetta di essere comprata, le spiega ciò che ha visto, dicendo:

Certe volte, in momenti speciali come quello, la gente prova un dolore insieme alla felicità.

Rosa, la compagna di scaffale di Klara, stenta a capire, ma lei minimizza, dicendo:

Non farci caso, Rosa. Parlava solo del mondo di fuori.

Di noi, insomma.

La creatura di Ishiguro ricorda la vicenda del romanzo da un presente remoto, non diversamente da quanto già avveniva in Quel che resta del giornoNon lasciarmi, Quando eravamo orfani, per fare alcuni esempi.

Un romanzo-reminiscenza, dunque, affidato alla voce quieta di un io che un io non è. Klara è in vendita, Klara ha bisogno del Sole, Klara desidera essere amata, Klara è curiosa di vedere il fuori, Klara impara per esperienza, Klara pensa i suoi pensieri linguisticamente condizionati dall’assenza di ambiguità mentale che la caratterizza come macchina di modello B2. Klara ipotizza l’età delle persone con una precisione pedante che getta un’ombra di ridicolo sul senso e l’importanza dell’esattezza. Il vocabolario di Klara è sofisticato, ma onesto, a differenza di ogni forma di linguaggio.

Come restituire a Klara le sue parole?

Tradurre Klara and the Sun è stata una sfida straniante: per la prima volta mi sono trovata di fronte al fenomeno di una voce narrante che riproduceva la rigida asinonimia di una macchina.

A me toccava riprodurre l’univocità, il che, per un traduttore, è il colmo. Non era, come sempre, un tentativo di continua approssimazione del testo fonte, bensì la necessità di approdare a una scelta senza margine di doppiezza, a parole non vibranti ma ferme e destinate a costruire frasi senza peccato. Una lingua buona, o «gentile», come direbbe Klara, una lingua che non contempla il male.

Se Klara chiama una cosa utilizzando una parola, quella parola tornerà identica a se stessa ogni volta, e non come cifra di uno stile, ma come segnale di svuotamento del processo di approssimazione linguistica.

Non ce l’avrei mai fatta, da sola. Sono arrivata a una decorosa consapevolezza del grado di attenzione necessaria su questo romanzo quando ormai era tardi e tantissime cose mi erano sfuggite. Con infinita pazienza e bravura Grazia Giua e Walter Bergero hanno letteralmente filtrato il testo e rimediato alle ripetizioni trascurate.

È stata prodotta una tabella di corrispondenze, una sorta di micro-dizionario della lingua di Klara che è diventata la nostra bussola a ritroso.  La navigazione sul testo è risultata lenta e anche un po’ ansiosa. Ogni parola su cui ci soffermavamo faceva affiorare la necessità di un controllo incrociato su altre. Scoperte a catena che continuamente riposizionavano la scrittura come in un gioco del quindici. L’ansia era che alla fine l’italiano si rivelasse meno tollerante di quel modo di procedere, che le ripetizioni postume inserite nel testo potessero soffocarne anziché esaltarne l’elegante essenzialità.

Il fatto che espressioni come «area of expertise» dovessero sempre essere tradotte con «settore di competenza» o che «high rank» dovesse sempre coincidere con «di alto livello» non suscita stupore particolare. Ma che sia stato necessario ricordare a noi stessi che «section» coincideva con «sezione», «segment», con «segmento» e… «solar» con «solare», risultava di un’ovvietà esilarante. Eppure, nella traduzione la ripetitività meccanica di Klara non era stata rispettata da me e parole con ottantasette occorrenze nel romanzo risultavano tradotte con lo stesso lemma magari meno di cinquanta volte. Occorreva trovarle, una per una, e uniformare; restituire a Klara quel che era di Klara, alla sua lingua, la purezza incontaminata dell’univocità.


Occorreva restituire a Klara quel che era di Klara, alla sua lingua, la purezza incontaminata dell’univocità

Se Klara chiama una cosa utilizzando una parola, quella parola tornerà identica a se stessa ogni volta, e non come cifra di uno stile, ma come segnale di svuotamento del processo di approssimazione linguistica.

Un lavoro speciale

Come altre voci narranti dell’opera di Ishiguro, anche Klara può attingere a fonti linguistiche diverse: quando il racconto è frutto della registrazione dell’accaduto attraverso il dialogo altrui, ad esempio, il suo uso della lingua è totalmente mimetico e non presenta necessità di limitazioni lessicali.

A lavoro quasi concluso sulla mia prima e acerba stesura abbiamo avuto l’idea, con Grazia Giua, di organizzare un forum di traduttori impegnati su Klara and the Sun in altri paesi, per altre lingue. Avevamo aspettative «di alto livello» (ecco che mi ritrovo ad usarla, la lingua di Klara. E funziona!). Mi pareva un’esperienza talmente singolare questa della gestione della voce di Klara, che ero sicura avrebbe prodotto un dibattito e una conversazione abbondante tra noi traduttori. A lungo non è successo nulla. Un silenzio che interpretavo come una strana timidezza, forse venata da una volontà di custodire le proprie scelte fino al momento in cui fossero diventate definitive. Poi qualcuno ha cominciato a rispondere, a presentarsi, magari per comunicare al gruppo che ormai aveva finito il lavoro, o al contrario che l’aveva appena iniziato. E, finalmente, sono arrivate le prime richieste. A quel punto abbiamo capito che la condanna del traduttore ci aveva anchilosato le domande. Perché anziché chiederci che cosa fare di questa anomalia, anziché ragionare insieme sul nostro ruolo polverizzato dalle tante lingue ma accomunato dall’intento e dal vincolo condiviso su un solo testo, ci domandavamo il significato di certe sigle incomprensibili, o come mai Klara sostenesse di non essere mai salita su un’auto quando doveva aver raggiunto in macchina la casa della sua bambina Josie. Cercavamo rassicurazioni sul dettaglio fattuale, cercavamo, purtroppo, di ridurre l’anomala invenzione di Ishiguro, questa sua formidabile visione del mondo, a un testo di cui ci premeva risolvere i punti oscuri. Il nostro bisogno di capire sembrava essere più forte del nostro desiderio di conoscere e di ascoltare la voce nuova di Klara.

L’alternativa avrebbe comportato domande che aprivano a una speculazione forse fine a se stessa, ma così tanto più consona al nostro interrogarci sul testo. Chiederci che cosa sia il linguaggio per Klara significa accettare che il suo silenzio sia assoluto, deserto. La memoria e l’oblio sono temi cruciali nella narrativa di Ishiguro, e le deriva dell’una come dell’altro, la fallacia con cui ricostruiscono o azzerano il passato è ciò che sta al cuore dei suoi romanzi-reminiscenza.


La lingua di Klara funziona!

Come si traduce la sintassi dei pensieri?

Ma se Klara possiede una memoria-dati inesauribilmente attingibile e non selettiva, quale può essere la sintassi dei suoi pensieri?

È il rovesciamento della prospettiva anche linguistica a fare di questo meraviglioso romanzo un lavoro tutto speciale per un traduttore. C’è una rinuncia nella scelta dell’autore; come un pittore che scelga di depotenziare l’uso del colore, uno scultore che accetti di smaterializzare il marmo, Ishiguro rinuncia al potere della lingua di dire due cose attraverso una sola perché Klara parla la lingua dello zero e dell’uno.

Spazio e tempo sono per Klara dimensioni subìte, turni di utilizzo di ciò che lei è per gli altri, l’Amica Artificiale, votata al servizio di un bambino.  L’immaginario di Klara è popolato democraticamente di oggetti significativi e inutili, riconoscibili e ignoti. C’è la Signora Tazza da Caffè, c’è Mendicante con il suo Cane, ma c’è anche l’odiosa Macchina Cootings, incarnazione del male che inquina il mondo, e l’ineffabile Palazzo RPO. Per il traduttore non si tratta quindi di scegliere un’interpretazione dell’equivoco rassegnandosi a perdere l’altra, bensì di onorare l’assenza di equivocità del testo e, prima di tutto, di accettarla. Le parole di Klara sono verità, sono lo strumento goffo e poetico del suo nominare il mondo.

Leggo recensioni commosse di Klara and The Sun e scopro tante cose che altri lettori hanno saputo vedere nel romanzo. Cose importanti, illuminanti. Ma nessuno concentra l’analisi della propria meraviglia sulla lingua della voce narrante. Forse è davvero solo dovendo riscrivere il racconto in un’altra lingua che ci si accorge del paradosso che contiene.

Che cosa sa Klara? Niente? Moltissimo? Tutto? Come si può accedere a tanto sapere e rimanere creature prelapsarie, come può esistere una lingua che non conosca la menzogna?

Per me, che su quella lingua ho dovuto lavorare, scoprendo di averla velata e dovendo ripercorrerne il dettato con tutto l’aiuto necessario, è la lingua di Klara il capolavoro di Ishiguro. E anch’io, come Klara, spero che abbia vinto il Sole sulla foschia della lingua che le ho attribuita nella mia…


Le parole di Klara sono verità, sono lo strumento goffo e poetico del suo nominare il mondo
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Susanna Basso traduce dall’inglese. Ha vinto il Premio Procida, il Mondello, il Nini Agosti Castellani, il Giovanni, Emma e Luisa Enriques e, nel 2019, il Premio Pavese sezione Traduzione. Ha pubblicato il saggio Sul tradurre. Esperienze e divagazioni militanti (Bruno Mondadori, 2010). Fra gli autori da lei tradotti, Ian McEwan, Alice Munro, Kazuo Ishiguro, Julian Barnes, Elizabeth Strout, Martin Amis e Jane Austen, di cui ha in corso di traduzione l’opera completa.

Kazuo Ishiguro

Klara e il Sole


Supercoralli, Einaudi 2021, pp. 280
Traduzione > Susanna Basso