Narrativa straniera e Frontiere

Manet in guanti gialli

M—G
Maureen Gibbon 6 Ottobre 2016 9 min

In molti dipinti di Manet, dal bar delle Folies-Bergère al ritratto di Antonin Proust, compaiono dei guanti gialli in pelle, come dei punti di luce o come un segnale segreto per indicare amici particolarmente cari. Maureen Gibbon, l'autrice di Rosso Parigi, ci accompagna in questa piccola ossessione del pittore impressionista.

Anche se il protagonista di «Il bar delle Folies-Bergère» non sono le figure riflesse nello specchio dietro al bancone, si nota lo stesso benissimo che una donna, proprio a sinistra della barista, indossa dei fantastici guanti gialli (si crede che la donna sia Méry Laurent).

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Manet ha immortalato anche molti dei suoi amici mentre indossano dei guanti gialli. Il quadro qua sotto è un ritratto di Antonin Proust, un amico di Manet fin dai tempi della scuola. Il giallo dei guanti dialoga magnificamente con il rosa del fiore all’occhiello.

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Manet dipinse con un paio di guanti gialli anche il critico e scrittore Theodore Duret.

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Mi piace pensare che Manet abbia scelto di inserire dei guanti gialli o dorati nei suoi dipinti perché era ben consapevole del potere di quel colore e voleva infonderlo nei suoi dipinti.

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In Rosso Parigi Manet indossa dei guanti gialli con tre cuciture sul dorso, proprio come quelli che indossa Antonin Proust. Victorine sa bene quanto quei siano intrisi dello spirito di Manet: conservano la forma e il calore delle sue mani, la loro pelle profuma della colonia ai chiodi di garofano dell’arista.

Leggi anche: Chi era davvero Victorine?

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I guanti gialli di Manet: un estratto da Rosso Parigi.

Non so come e perché, ma finisco per raccontare a Tonin di quando lavoravo da Baudon, e del procedimento di brunitura dell’argento, e di come adesso, posando, mi capiti talvolta di sentire le mani che fremono di impazienza. Credo che potrei andare avanti un bel po’ a chiacchierare e confidarmi con lui, se non si avvicinasse un quarto uomo che ci interrompe.
Saluta gli altri e si prende una sedia, senza praticamente guardarmi.
Lí per lí immagino che sia la persona di cui parlavano prima, Duranty, quello che passa tutti i pomeriggi e le sere al Café Guerbois. Ma la sua faccia non corrisponde ai loro racconti, e poi E. si rivolge a lui chiamandolo «cher Baudelaire».
– Credevamo che fossi al Nord, – dice Tonin.
– Infatti, ma sapete che non riesco a stare troppo a lungo lontano. Anche se poi, quando torno, scopro che non è cambiato nulla, in mia assenza.
Intuisco che E. avrebbe voluto presentarmi, che sta cercando la maniera di farlo, ma il tipo attacca subito a parlare e non gliene dà il tempo.
Il nuovo arrivato ha un modo di parlare drammatico e irruento. Lo osservo attentamente, nel tentativo di farmi un’idea piú chiara, mentre lui continua ostinatamente a guardare tutti tranne me.
Parla a lungo di un posto chiamato Honfleur, e dopo un po’ capisco che si tratta di una città sulla Manica. D’altra parte ho l’impressione che niente di quello che dice sia destinato alle mie orecchie, perciò non so bene che fare. Non mi sembra il caso di continuare a parlare separatamente con Tonin come prima. Decido quindi di ascoltare il nuovo arrivato, il «caro Baudelaire», che pontifica, e intanto fisso un punto della parete di fronte al tavolo. Girando gli occhi verso i tavoli verdi da biliardo intercetto un’occhiata di Tonin e mi sembra che voglia dirmi qualcosa, ma faccio finta di niente.
Alla fine, E. è costretto a intervenire. Non lo possono fare Tonin e Astruc. Non è compito loro. Solo lui può farlo.
– Baudelaire, vorrei presentarti la mia nuova modella, – dice infine, semplicemente, interrompendo il fiume di parole dell’altro. – Mademoiselle Victorine Meurent.
Solo a quel punto il tipo si degna di guardarmi.
Fa un leggero cenno del capo, che piú leggero non si può, e mi scruta da sotto le sopracciglia. Pur sapendo che non ha alcun senso, mi viene in mente lo sguardo che mi rivolgeva talvolta mia madre. Uno sguardo di disapprovazione, che faceva il paio con qualche parola brusca.
Il tipo che si chiama Baudelaire, invece, non dice niente. Si limita a guardarmi con una certa aria di sfida. Solo allora capisco che mi aveva presa per una ragazza del caffè, una entraîneuse procurata dai suoi amici per la serata. E che è seccato di dovere in qualche modo tener conto anche di me.
Allora io faccio una cosa. Non so come mi venga in mente, ma la faccio.
Quando eravamo entrati dentro il caffè avevo capito dov’era seduto E. perché aveva lasciato i guanti sul tavolo. Sono i suoi preferiti, di pelle leggera, con tre pince sul dorso, gialli come la capocchia delle margherite. Dentro è impressa la scritta: Gants Boucicaut, medaille d’or, Paris 1862. Odorano di fumo, della sua pelle e di chiodi di garofano – lo so perché me li sono messi sotto il naso diverse volte. E in qualche piccolo, piccolo angolino sono sicura che i guanti odorano un po’ anche di me.
Sono morbidi come la pelle, sono di pelle, e quando mi allungo a prenderne uno ho l’impressione di prendere la sua mano. Me lo infilo e mi entra facilmente perché è grande. Ciò malgrado, è come una seconda pelle: la sua sulla mia. Mi concedo un attimo per godere di questa sensazione, poi mi infilo il secondo guanto.
Il tutto dura pochi secondi. Alla fine dico a quel tipo che mi guarda in cagnesco, allo cher Baudelaire: «Lieta di conoscerla».
Nel suo sguardo avviene un mutamento. Nei suoi occhi compare una nota di dispiacere, e anziché dire una battuta pungente, o rimettersi a blaterare, lo cher Baudelaire si zittisce.
E poi, per sbloccare la situazione – perché è insostenibile, è insostenibile continuare a sostenere il suo sguardo ed essere fissata in quel modo, ed è insostenibile per tutti gli altri al tavolo continuare a guardare – Tonin si alza in piedi per far cenno al cameriere di portarci un’altra bottiglia di vino. E un secondo dopo Astruc dice: – Strano che Duranty non si sia ancora fatto vivo.
Subito tutti si appigliano alle sue parole e cominciano a raccontare storielle su Duranty. Solo Baudelaire e io rimaniamo in silenzio.
E poiché ho diciassette anni, gli stivaletti verdi di una puttana e un nastro nero al collo, e poiché mi sono allungata a prendere i guanti del mio amante e mi sono messa la sua pelle sulla mia… per tutte queste ragioni so quel che vedo quando distolgo gli occhi dallo cher Baudelaire e mi guardo attorno.
Vedo che il clima intorno al tavolo è cambiato. Che tutti sono cambiati.
E quando guardo lui, l’uomo la cui pelle ho appena indossato sopra la mia, vedo che mi sta osservando.
Perché anche lui ha notato il cambiamento. Ha notato che l’atmosfera intorno al tavolo è cambiata quando mi sono infilata i guanti.
E con i suoi guanti di pelle gialla, con la sua pelle sulla mia, mi sento al sicuro.

Maureen Gibbon, Rosso Parigi, Einaudi 2016. Traduzione di Giulia Boringhieri.

Chi era davvero Victorine?

Amante, modella, artista: Victorine Meurent è stata tante cose. Ma soprattutto è stata una donna forte che ha saputo ritagliarsi un ruolo di primo piano nella storia dell’impressionismo. Ma qual era il suo vero volto? Se l’è chiesto anche l’autrice di Rosso Parigi.

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