Narrativa straniera e Frontiere

Marginalia

F—A
Fernanda Alfieri 27 Settembre 2021 29 min

Raccontare i margini, interrogare le voci lasciate nell'ombra delle narrazioni dominanti, scoprire quelle vite «infami» (perché private di nome e dignità) attraverso una «collana immaginaria»: una serie di libri scelti e narrati da Fernanda Alfieri nel suo intervento al Festivaletteratura di Mantova, che qui riportiamo.

I marginalia sono appunti scritti sui margini, nei quali si annota ciò che viene in mente quando si legge il testo principale, quello che occupa il centro della pagina. Il testo centrale può essere stampato, i marginalia sono invece sempre manoscritti: non c’è nessuna tecnica, nessuno strumento impersonale che si mette fra la carta e la mano, il corpo di chi scrive, il calore del palmo, la sua umidità, la macchia di inchiostro sulle dita, un tremore forse. I marginalia sono preziosissimi. Sono dei precipitati istantanei di vita che si depositano a lato di quello che sta, magari da secoli, scritto nel centro della pagina. Mettiamo, su un testo a stampa del Cinquecento, due secoli dopo una mano settecentesca può disegnare una manina col dito puntato, evidenziando l’importanza di quel passaggio e aggiungendoci un rimando ad un altro testo, magari suo contemporaneo. In un tempo in cui la conservazione museale dell’antico non era una priorità (nessuno prenderebbe appunti oggi su un testo di due secoli fa, anche perché l’antico tendiamo a vederlo come altro, distante, al limite da conservare ma non da prendere sul serio), dicevo, con quel gesto dell’appuntare una manina col dito teso a evidenziare quel paragrafo, il tempo si allunga, i secoli crollano, quelle parole tornano a vivere. Sono rilevanti, qui e ora. I marginalia sono spesso approssimativi, allusivi, servono a chi li scrive per fissare un pensiero transitorio, una intuizione, un ricordo, su cui magari tornare. Oppure fermano sulla pagina dei dettagli apparentemente privi di collegamento, ma talmente pieni di vita da fare la differenza per chi li troverà tornando su quel testo, magari secoli dopo.


Il corpo e i margini

«I marginalia sono invece sempre manoscritti: non c’è nessuna tecnica, nessuno strumento impersonale che si mette fra la carta e la mano, il corpo di chi scrive, il calore del palmo, la sua umidità, la macchia di inchiostro sulle dita, un tremore forse».

Ricordo, fra i vari in cui mi sono imbattuta, un appunto a margine di un registro di battesimi tenuto da un parroco di un borgo nei paraggi di Novara, alla fine del Seicento. Ero sulle tracce di un matrimonio fra due individui di cui, a un certo punto, qualcuno aveva smascherato un’identità fittizia (non sappiamo se il parroco sapesse) e io indagavo sulla composizione di quella comunità in cui il fatto si era svolto, attraverso i registri della parrocchia, nascite, matrimoni, morti. Ad ogni modo, questa volta il testo centrale che stavo leggendo era manoscritto, mano del parroco. Al centro, lo schema ripetitivo della registrazione del dato: luogo, data, nome del battezzato, genitori, padrini. Il parroco, preciso, seguiva le indicazioni che il Concilio di Trento aveva prescritto il secolo prima per l’amministrazione burocratica di tutte le anime del mondo cattolico. A lato, una mano – sempre quella del parroco, ma con altro inchiostro e molto probabilmente in un altro momento – appuntava velocemente che un’eclissi di sole quel giorno per alcuni minuti aveva oscurato le campagne ondulate di quel villaggio di tre case ai piedi delle colline. Gli abitanti avranno interrotto le loro attività, si saranno fermati i contadini nei campi, gli artigiani nelle loro botteghe. L’ostetrica del villaggio, dopo la fatica del far nascere quel bambino battezzato quel giorno, avrà alzato gli occhi al cielo. Qualcuno ci avrà rimesso gli occhi per fissare quella palla infuocata coprirsi a poco a poco, diventando una mezzaluna sottile con una palla nera davanti, e qualcuno avrà pregato affinché quell’oscurarsi dei cieli non fosse un segno della fine imminente. Quello era un mondo in cui i segni erano importantissimi. Tutto poteva essere segno di una realtà altra, invisibile ma reale, e molto più importante di quella che si poteva vedere con gli occhi. Era l’altromondo, in cui l’anima sarebbe sopravvissuta nella beatitudine eterna, se ci si fosse comportati bene, o avrebbe sofferto atrocemente per sempre, se ci si fosse comportati male.


L'altromondo nascosto ai margini

Quanti mondi si aprono con un’annotazione a margine. La luce di quel giorno, uomini donne e cose, gesti, sentimenti, visioni del mondo. Mondi, insomma, che non potremmo minimamente intuire se tenessimo gli occhi fissi al centro della pagina e non guardassimo i suoi contorni. Da qualche tempo a questa parte, le storiche e gli storici indagano le annotazioni a margine, non soltanto nel senso letterale: indagano quello che per secoli è stato fuori fuoco rispetto alle grandi narrazioni cosiddette ufficiali, o, ancor meglio dominanti, eppure lascia traccia. È stata una operazione imponente, che, per esempio, ha portato a partire dagli anni Settanta a porre il problema della storia delle donne: dov’erano le donne in una Storia con la S maiuscola fatta di guerre, trattati, cambi di dinastie, libri scritti da autori maschi? Dove erano le donne che non si sposavano o non trascorrevano un’intera vita fra le mura di un monastero (lo schema previsto nel cosiddetto Occidente cristiano)? Dove erano gli uomini che non combattevano, che non contribuivano alla sopravvivenza della loro stirpe da padri di famiglia?


In margine alle narrazioni dominanti

«Da qualche tempo a questa parte, le storiche e gli storici indagano le annotazioni a margine, non soltanto nel senso letterale: indagano quello che per secoli è stato fuori fuoco rispetto alle grandi narrazioni cosiddette ufficiali, o, ancor meglio dominanti, eppure lascia traccia».

Con una definizione che fa propria la prospettiva di chi crede di stare al centro, questa è la cosiddetta marginalità. Una parola che porta con sé una volontà di onnicomprensione e insieme una dichiarata parzialità: dice chiaramente che il mondo lo si sta guardando da una prospettiva precisa che si suppone essere il centro. Ma il centro di cosa? Il centro dov’è? E quindi, dove sono i margini?  Prendiamo, per rendere le cose meno astratte, la questione dal punto di vista dei documenti, delle tracce di cui possiamo disporre per ricostruire la storia, cioè chiediamoci dove sia il centro di produzione delle tracce della cosiddetta marginalità. Chiaramente non esiste, perché i suoi segni possono essere lasciati ovunque, e da chiunque, ma uno dei posti dove è più facile incontrarne è negli archivi che raccolgono i documenti prodotti da istituzioni che sono deputate a tracciare i margini, le linee di confine tra ciò che è ammissibile e ciò che deve invece rimanere fuori: tra il centro luminoso e regolare della norma, dentro la quale sono situate, e la periferia oscura e confusa della non-norma.


Ma il centro di cosa?

Tribunali, istituti di detenzione, che siano carceri per criminali o luoghi dove si collocano per un certo periodo ragazze in pericolo di perdere la buona reputazione (luoghi diffusissimi nelle nostre città dei secoli passati) o luoghi dove l’anomalia si intende e si cura come una malattia. Difficilmente i cosiddetti marginali lasciano tracce di loro spontaneità. Qualcuno deve intercettarli, deve interrogarli per uno scopo preciso. Qualcuno deve osservarli e notare in loro una traccia della loro incatalogabilità, per poterli, infine, catalogare. Qualcuno deve provare curiosità o compassione per loro, e, per provare ad aiutarli, tentare di farsi dare spiegazioni. Qualcuno deve provare a salvarli, estorcendo dalle loro bocche una richiesta di aiuto o di perdono. Così facendo, quel qualcuno provoca un fenomeno paradossale: fa sì che una traccia di questi individui resti. Questa specie di scherzo involontario (nel condannare a morte un balordo per cancellarlo dalla comunità, dopo averlo interrogato magari sotto tortura, gli si regala una specie di eternità: il suo nome gli sopravvive nei documenti) è illuminato dal libro dal quale vorrei partire nel raccontare questa collana immaginata che chiamerei marginalia. Si tratta di un testo dalla bellezza letteraria, anche se è identificato come saggistica (anche i libri come gli esseri umani sono soggetti a una richiesta di definizione della loro identità: chi sei, cosa sei, in quale scaffale hai le caratteristiche per entrare?).Un piccolo volume che raccoglie un saggio nato originariamente come introduzione a una raccolta che non è mai stata compiuta: vite di disgraziati pescate negli archivi della Bastiglia e dell’Hôpital Général di Parigi. Un testo-intenzione, che resta lì, sospeso, quindi aperto a introdurne molti altri. Si tratta de La vita degli uomini infami di Michel Foucault (qui cito dall’ed. il Mulino, 2009, ma originariamente uscito in Francia nel 1977), che non ha bisogno di essere presentato, e che è in qualche modo incatalogabile a sua volta: per sua collocazione accademica è filosofo, ma i suoi libri attraversano i saperi che segnano la storia – ancora una volta – dell’Occidente e particolarmente dell’Occidente cristiano: il corpus imponente di scritti prodotti in seno alla Chiesa, la medicina, il diritto, i processi prodotti nei tribunali di Francia e negli istituti manicomiali.

«Credo proprio che l’idea mi sia venuta un giorno in cui leggevo alla Bibliothèque Nationale un registro d’internamento redatto nei primi anni del Settecento, e in particolare dalla lettura delle due note che riporto:

Jean Antoine Touzard, rinchiuso nel castello di Bicêtre il 21 aprile 1701: “Francescano apostata, sedizioso, capace dei peggiori crimini, sodomita, ateo, se lo si può essere; è un vero mostro d’abominio che sarebbe più conveniente soffocare che lasciar libero”.

Sarei in imbarazzo a dire quel che ho provato esattamente quando ho letto questi frammenti e molti altri analoghi: forse una di quelle impressioni di cui si dice che sono “fisiche”, come se potessero essercene altre… Ero partito alla ricerca di particelle di questo genere, dotate di un’energia quanto più grande quanto più sono piccole e difficili da distinguere.

Perché qualcosa di esse giungesse a noi è stato tuttavia necessario che un fascio di luce le illuminasse anche solo per un istante. Una luce che viene da un altro luogo. Quel che le strappa alla notte in cui avrebbero potuto, e dovuto rimanere, è l’essersi scontrate col potere: se ciò non fosse avvenuto, nessuna parola verrebbe probabilmente a ricordarci il loro fugace percorso».


La traccia e la compassione

«Difficilmente i cosiddetti marginali lasciano tracce di loro spontaneità. Qualcuno deve intercettarli, deve interrogarli per uno scopo preciso».

La vita degli uomini infami, come dicevo, resta una introduzione sospesa. Una introduzione a niente e quindi potenzialmente a molto, il capostipite ideale di questa collana immaginaria a introdurre altre storie, altre vite di uomini infami. Ma chi sono gli infami? Sono personaggi reputabili talmente pessimi da dover perdere la fama. Cosa è la fama? Nella radice “fa” di questa parola c’è il cuore del verbo latino fari, che vuol dire dire. L’infame è letteralmente colui o colei che per la sua condotta, per il suo mestiere (questo accadeva per i boia, le prostitute, il sodomita, le attrici nella Roma antica) non è nemmeno degno di essere chiamato per nome (perché uccide, macchiandosi sistematicamente di sangue – il boia; perché è il ricettacolo della libidine della comunità – la prostituta; perché costitutivamente finge – l’attrice; perché inverte l’ordine della natura – il sodomita, e così via). L’infame perde quello che per primo identifica un essere umano, il nome. Non può essere chiamato, riconosciuto,  quindi non ha posto nella comunità. Nei secoli passati la fama era forse il bene più prezioso. In una economia fragilissima in cui l’individuo da solo non poteva sopravvivere, le ragioni della comunità erano fortissime, esserne espulsi significava morire. Questo valeva per gli uomini e per le donne, ma soprattutto per le donne, la cui sopravvivenza era legata principalmente alla spendibilità della loro buona fama, da cui dipendeva la possibilità di fare un buon matrimonio. Una donna malfamata non la voleva nessuno.


La fama degli infami

Dove sono le loro storie? La collana che ho immaginato ne raccoglie alcune, da tempi e da luoghi molto diversi. C’è una ragazza romana del settecento, Caterina; una signora di Cremona che vive nella prima metà del Novecento, Cicci; c’è una ragazzina di un piccolo borgo della Loira Atlantica, Laëtitia, morta pochi anni fa e madame Rosa, ex prostituta ebrea del quartiere multietnico di Belleville a Parigi (l’unico personaggio di finzione, uscito dalla penna di un romanziere; delle altre abbiamo tracce documentarie del loro passaggio su questa terra).

Cosa sappiamo di loro? Come arrivano a noi? Com’è la loro voce? Hanno avuto voce, cioè hanno avuto la possibilità di parlare di sé, di raccontarsi, o sono state raccontate, o qualcuno ha parlato per loro? Michel Foucault scrive in prima persona. Nel passo che ho condiviso dice io, racconta i suoi sentimenti per quelle carte d’archivio che riportano vite disperate, di disgraziati che a un certo punto si imbrigliano nelle maglie del potere che li cattura, li incarcera, li condanna e così facendo, però, li fa parlare, immortalandoli. In questo modo ci sono arrivate molte voci di donne che dicono io. Ma l’io di donna che vorrei cominciare a far parlare in questa collana non viene dagli archivi di Francia. L’archivio di Stato di Cremona ne conserva le tracce perché è lì che si conservano le carte di Danilo Montaldi, il secondo autore nel quale ci imbattiamo, che muore nel 1975 a 45 anni dopo aver compiuto uno straordinario lavoro di raccolta di voci di uomini e donne che sono vissuti sulle rive del Po, cioè a Cremona, nel parmense, a Mantova, nei paesi e nelle cittadine che sorgono sul grande fiume, ma anche letteralmente che hanno vissuto sul fiume: non esitano a imbarcarsi nella notte per andare a rubare nel paese vicino, nel barcone attraccato sulle rive ci dormono e vivono, del fiume vivono perché da quello mangiano, nel fiume muoiono e nel fiume vedono morire persone. Cicci, la donna che vorrei far parlare da questo libro che si chiama Autobiografie della leggera comincia così «Sotto i sei anni mia madre ha avuto un esaurimento nervoso e ha cercato di buttarsi nel Po» (cito da D. Montaldi, Autobiografie della leggera. Emarginati, balordi e ribelli raccontano le loro storie di confine, Firenze e Milano, Giunti-Bompiani, 2018 p. 325). Prima di proseguire nel racconto della vita di Cicci, dobbiamo cercare di collocarla. Intanto ci viene da un libro dal titolo Autobiografie della leggera in cui “leggera” è la italianizzazione di ligera, un termine dialettale dall’origine piuttosto oscura che vuol dire piccola malavita, oppure piccolo malavitoso, brigantello, criminaluccio, assai diffuso sulle rive del Po. Come è finita Cicci in questo libro? Danilo Montaldi, nato a Cremona alla fine degli anni Venti del Novecento,  a partire dalla metà degli anni Cinquanta comincia a pubblicare storie in prima persona di vite che poi finiranno in questo libro, a partire da quella di un certo Orlando P., che inizia a tenere un quaderno mentre era al confino all’isola di Ponza, poi Bigoncia, Teuta, Fiu, soggetti oscuri che Montaldi fa parlare o registrandoli, e poi sbobinando un parlato pieno di inciampi come è la parola detta a voce alta, oppure raccogliendo autobiografie che avevano scritto di loro pugno e che sarebbero andate perdute se Montaldi non le avesse raccolte e fatte uscire da un destino sicuro di cancellazione. Nessuno forza questi uomini e Cicci a parlare; Montaldi li invita a farlo o a consegnare i loro scritti per catturare un momento preciso della storia, quella in cui si stava compiendo in una terra, questa in cui ci troviamo oggi, che per secoli era stata profondamente legata all’agricoltura, il passaggio alla modernità per così dire industrializzata: al tempo delle città, del salario fisso, degli appartamenti e non delle grandi case coloniche dove abitavano famiglie ramificate ed estese, con uomini insieme ad animali, e le stagioni e lo scorrere del grande fiume con le sue piene e le sue secche dettavano una legge inesorabile (ancora oggi il Po lo fa, ma il mondo pensa di poterlo ignorare). Ecco, Montaldi fa parlare uomini e donne che al passo di questo cambiamento non riescono ad adeguarsi, che restano indietro. Ci provano ad adeguarsi, a mettersi in regola, ma è quasi più forte di loro, finiscono sempre fuori, finiscono sempre al margine, e il margine è spesso fisicamente il bosco della golena, la riva del fiume. Cicci fa eccezione. Nata sul margine, in una famiglia disgraziata, sul margine ci ha vissuto a lungo, per poi finalmente sistemarsi. E solo allora, una volta che si è sistemata, una volta che ha riacquistato la buona fama di donna sposata in onesto matrimonio, può parlare di sé. Cicci è stata per anni una prostituta. Gli anni in cui aveva lavorato nelle case chiuse sono nel racconto il centro della sua storia che comincia già da ragazzina, quando la famiglia ormai disgregata dall’abbandono del padre la mette in collegio. Dal collegio Cicci se ne va perché nessuno può pagare la sua retta. Uscita dall’ospedale, lavora in una tabaccheria, dove riceve le attenzione dei due fratelli proprietari e da lì è un inesorabile presa di sopravvento del suo corpo al quale nessuno sembra poter resistere. A quel punto, il suo corpo diventa una risorsa. E lavorandoci, con quel corpo, conosce un mondo di contraddizioni continue: uomini di polizia che prima l’arrestano poi la cercano, clienti che si innamorano altri che la tiranneggiano. Schiva per un attimo la partenza per le colonie d’Africa, viaggia per l’Italia e per la Francia, finché non si imbatte in «una personalità, un principe» che la porta a Trieste dove «non dico le porcherie che ho visto e che malgrado venissi da un ambiente dubbio fecero un certo effetto anche a me … Io ero così nauseata per il vivere che facevo in un ambiente  di gente sempre piena di vino, liquori, stupefacenti …. allora … decisi di andare a Torino e qui chiudo la mia vita nelle case chiuse». Quella di Cicci è una voce a favore delle case chiuse, che nel 1958 sarebbero state chiuse definitivamente con la legge Merlin. «Ho toccato con mano che lo sfogo ci vuole. Dove andrebbe certa gente a sfogarsi con certe facce che fanno paura ai morti?» (p. 340). Cicci, una volta che, agli occhi della comunità sarà finalmente “a posto”, rimpiangerà quel tempo. Dal margine della sua vita di madre di famiglia, di povera famiglia, rimpiangerà un tempo in cui, relegata ai margini della società perbene, era invece al suo centro, dal quale poteva vederne i desideri più inconfessabili.


La voce dei margini

Vorrei dare voce alle altre storie, come quella di Orlando P., che dopo una vita peregrina racconta  della morte del padre che viveva in una baracca sul Po con le gambe ustionate dallo stare attaccato al fuoco, anello di una catena di ingiustizie che non si possono fermare, perché la storia è questo. «Questo è il lamento di un uomo che grida vendetta alla società perché verso di me fu ingiusta e anche verso mio nonno e mio padre loro non avevano la capacità di  descriverla la sua lunga odissea della vita pensai io a metterla in luce e lasciarla in eredità alle nuove generazioni perché se ne facciano un concetto di quello che avviene nella società è solo l’oro che fa commettere gli errori verso quella parola che si chiama legge» (p. 259). Vorrei far parlare anche Teuta e Fiu e Bigoncia ma il tempo corre e ci sono altre voci da ascoltare, altri tre bellissimi libri.

«Per molto tempo non ho saputo che ero arabo perché non c’era nessuno che mi insultava. L’ho saputo soltanto a scuola. Ma non facevo mai a botte, fa sempre male picchiare qualcuno». Chi parla è Momo, la voce narrante de La vita davanti a sé di Romain Gary (cito dall’ed. Vicenza, Neri Pozza, 2017), nome francesizzato del lituano Romain Kacev, morto suicida nel 1980, momento in cui si scopre essere lui lo scrittore Emile Ajar, autore di vari romanzi tra cui quello che aveva vinto il prestigiosissimo premio Goncourt qualche anno prima, appunto, La vita davanti a sé. Si tratta di uno dei libri che mi ha commossa di più nella mia storia di lettrice che si commuove ma non così facilmente, perché tocca, credo, una corda umana fondamentale: cioè l’impossibilità di farsi una ragione dell’amore non corrisposto, dell’amore che non si riesce a ricevere. E qui si tratta dell’amore che è dato come il più naturale, primario e dovuto, cioè quello della madre. Momo è stato consegnato a Madame Rosa, ex prostituta ormai anziana, stanca, malata, come altri bambini che vivevano a pensione in quella casa nel cuore della periferia di Parigi, dalla madre prostituta a sua volta. E su quell’abbandono e sul desiderio, mai esaudito, di essere venuto a prendere, di essere guardato, amato, scelto, Momo si interroga, si organizza la vita, si dà una visione del mondo, e trova strategie per soddisfarlo da solo, quel desiderio. Come quando, racconta, «Quando ero a letto, prima di addormentarmi, certe volte facevo suonare alla porta, andavo ad aprire e c’era una leonessa che voleva entrare per difendere i suoi piccoli… Io facevo venire la leonessa qui quasi tutte le notti. Entrava, saltava sul letto e ci leccava la faccia, perché anche gli altri ne avevano bisogno e io ero il più grande, dovevo pensare anche a loro».

«È il paradosso della Vita degli uomini infami: vicende di personaggi «oscuri», destinati all’oblio, dal momento in cui vengono «illuminate» dal «fascio di luce» del potere divengono oggetto di narrazioni, congetture, esami, che li eternano in una fama (una fama tragica, fondata sulla disgrazia subìta o su un crimine commesso) altrimenti impensabile».

Anche l’altro libro che metterei nella collana marginalia parte da una storia d’amore mai ricevuto. Siamo sempre in Francia, non siamo a Parigi ma nell’estrema provincia, e non più nel romanzo ma di nuovo nella storia. Laëtitia o la fine degli uomini, scritto da Ivan Jablonka, professore di storia all’Università Paris 13 e ospite qui al Festival, comincia così: «Laëtitia Perrais è stata rapita nella notte fra il 18 e il 19 gennaio 2011» cito dall’ed. Torino, Einaudi, 2018, p. 3). Con la crudezza del “fatto”, inizia Laëtitia o la fine degli uomini e con il “fatto” stesso inizia la vita raccontata della protagonista della vicenda, Laëtitia Perrais, che sarebbe, come molte altre vite narrate in questo libro, rimasta sconosciuta a molti se non avesse incontrato una fine tragica. È il paradosso della Vita degli uomini infami: anche qui, vicende di personaggi «oscuri», destinati all’oblio, dal momento in cui vengono «illuminate» dal «fascio di luce» del potere (Foucault, p. 21) divengono oggetto di narrazioni, congetture, esami, che li eternano in una fama (una fama tragica, fondata sulla disgrazia subìta o su un crimine commesso) altrimenti impensabile. I personaggi oscuri sono qui la diciottenne Laëtitia, cameriera in un ristorante, la gemella che lavora in una mensa, i loro genitori affidatari, e il tossicomane poco più che trentenne che si guadagna da vivere commettendo furti e violenze, che la sera fra il 18 e il 19 gennaio ha sequestrato, abusato di Laëtitia per, infine, ucciderla. Quest’ultima è la sequenza di azioni che al contempo spegne la vita di Laëtitia ed accende un proliferare di inchieste e narrazioni su di lei destinato a durare per mesi in una lunga ondata emotiva (il caso sarebbe divenuto politico e Sarkozy lo avrebbe impugnato attaccando la magistratura, colpevole di non aver visto subito nell’assassino di Laëtitia, con precedenti penali, un potenziale criminale) cui si aggiunge l’ulteriore amplificazione data dal libro di Jablonka, uscito in Francia nel 2016, acclamato da pubblico e critica. I paradossi si moltiplicano. Se il professor Jablonka non avesse deciso di intraprendere uno studio per fare luce sulla storia di Laëtitia, noi non avremmo forse saputo di lei. Questa – dare voce e Laëtitia e restituirle un volto, il più vicino possibile a quello autentico – è l’intenzione dichiarata dell’autore: «io vorrei … liberare donne e uomini dalla loro morte, strapparli al crimine che li ha privati della vita e persino dell’umanità» (p. 4) e ribadita nello svolgersi delle sue indagini, che lo conducono da Parigi ai margini estremi della Francia. Pornic, paese del nord dove si svolge il fatto, è un margine geografico e culturale. Dista anni luce dalla capitale, da dove Jablonka parte per compiere una operazione di indagine da storico su quel fatto accaduto nel tempo presente, ma anche da genitore, che sente una responsabilità al contempo privata e civile: come le sue figlie, tutte le donne devono poter dire no, senza rischiare di essere annientate da una cultura patriarcale incapace di elaborare il rifiuto. Dare voce a Laëtitia è quindi liberare Laëtitia, e con lei tutte le donne. L’autore viaggia, prende contatti con istituzioni e persone coinvolte, e si può permettere fare quello che di solito è precluso agli storici: ascoltare dalla voce dei vivi, chiedere loro quello che le tracce lasciate da Laëtitia non possono spiegare. E attraverso questa operazione arrivare a comprendere ciò che Laëtitia forse non non aveva potuto cogliere: la sua tragica morte, compiuta per mano di un uomo meno che mediocre, era stata come preparata dalla sua stessa vita, e da un cultura che accetta la violenza contro le donne come fisiologica. Laëtitia era figlia di una relazione fra un padre violento e una madre annientata dalla violenza del compagno. Sin dalla primissima infanzia, Laëtitia e la sorella avevano imparato a non esistere. Mai guardate, mai carezzate con amore, non avevano sviluppato – così i pareri degli esperti dei servizi sociali che le avrebbero poi prese in carico, consultate da Jablonka – alcun senso di sé. Le due erano state date in affido a una famiglia che invece che dare loro riparo era stata teatro di mostruose violenze, di cui, sarebbe emerso più tardi, troppo tardi, aveva fatto le spese soprattutto la sorella di Laëtitia. «La domanda che ci brucia sulle labbra: e Laëtitia?» (p. 118), si chiede l’autore. I materiali a disposizione, le voci viventi non gli hanno consentito di rispondere. Ed è intorno all’assenza della parola di Laëtitia, che Jablonka ha ricostruito non solo la vita che lei non avrebbe forse mai saputo raccontare (e questa, in fondo, non è una forma di violenza? confessa l’autore: lui, «il prof brizzolato, il parigino», si è arrogato il diritto di parlare per lei, p. 300), ma anche lo spaccato di società e storia che ha dato vita a Laëtitia, e con la vita anche la morte.   


Il paradosso di chi racconta

«La tragica morte di Laëtitia, compiuta per mano di un uomo meno che mediocre, era stata come preparata dalla sua stessa vita, e da un cultura che accetta la violenza contro le donne come fisiologica».

Lo sguardo di Jablonka è compartecipe, è commosso. Vuole comprendere. Un altro sguardo è quello dell’ultimo autore che incontriamo. E non è un caso né una svista che siano tutte maschili le voci dei narratori, come quest’ultima. Nel 1744 il medico senese Giovanni Bianchi pubblica, alla macchia, la storia di Catterina Vizzani, giovane donna romana morta con nome, abito e identità di Giovanni Bordoni, dopo aver sedotto un cospicuo numero di fanciulle. La vicenda è stata studiata dal sociologo Marzio Barbagli (Storia di Caterina che per ott’anni vestì abiti da uomo, Bologna, il Mulino, 2014, e di recente anche dalla storica Clorinda Donato), ma è un medico il primo a raccontare la storia di Caterina, che farà il giro dell’Europa erudita nelle fitte corrispondenze degli intellettuali dell’epoca, perché è lui a occuparsi della “cosa” alla quale si chiede di svelare la vera identità di questa donna che vive narrandosi, comportandosi, amando, come uomo: questa “cosa” è il suo corpo. Giovanni Bianchi cerca l’essenza di Caterina, la verità del suo essere, del suo desiderare, del suo amare, nella sua conformazione anatomica. Caterina Vizzani, ovvero Giovanni Bordoni, ha un corpo di donna ma un nome di uomo, e come uomo la riconosce la sua comunità. Per questo Giovanni Bianchi medico non si limita a sezionarne il corpo, ma apre un’inchiesta chiamando a raccolta testimonianze, sguardi su Caterina di chi l’ha conosciuta, e compie poi una operazione di erudizione che è tipica della medicina dell’epoca, cioè raduna un corpus di saperi di vario genere, non solo medici, ma anche letterari, antiquari, giuridici, per cercare di spiegare quello che da secoli interrogava medici, giuristi e teologi – ovvero gli addetti ai lavori nella conoscenza, cura e governo dei comportamenti, dei corpi e delle anime (tutti autori maschi). Nei loro trattati, non si capacitavano: come è possibile che una donna ami un’altra donna? Come è possibile che una donna non cerchi l’uomo? L’inizio del trattato di Giovanni Bianchi su Caterina, è molto eloquente e lo cito: «strani veramente e incredibili oltremodo / sono talora gli appetiti umani», così comincia la Breve storia della vita di Caterina Vizzani romana, che per ott’anni vestì abito da uomo. Ma cosa vuol dire «strano»? La domanda può sembrare banale, tutti sappiamo cosa vuol dire strano, ma non lo è la risposta. Pensiamo al latino extraneus: ciò che sta extra, fuori da un perimetro evidentemente circoscrivibile. Se prendiamo gli antichi dizionari italiani, possiamo avere qualche indizio che ci permetterà di capire, forse, meglio la inquietudine generata da vicende come quella di Caterina. Il dizionario di Niccolò Tommaseo (1874) rimanda a Dante, per il quale strano sarebbe «detto delle cose che non sono della medesima natura dei corpi, ai quali sono unite. Ora diremmo eterogenee» e credo che questa definizione possa illuminare lo stupore dei coevi di Caterina: i corpi – non soltanto i corpi umani, ma tutti i viventi (piante, animali) e anche i corpi fatti di materia inerte hanno una loro precisa natura. Ovvero, hanno caratteristiche precise alle quali corrispondono funzioni precise. Questo fa sì che ci si aspetti che le cose e le persone agiscano in un certo modo: le mani afferrano, le ruote rotolano, le bocche mangiano e parlano e così via, così come il fuoco sale verso l’alto, l’acqua scivola verso il basso, e, se torniamo al tema della storia di Caterina, il corpo femminile accoglie l’uomo e genera, perché la donna – che ha una anatomia concava e imperfetta – è fatta per essere riempita dall’uomo, e così compiuta, e quindi istintivamente cerca di ottemperare a questa sua funzione. La storia di Caterina resta inspiegabile a questi eruditi dottori, ma uno spazio per una riflessione sull’umano in tutte le sue forme, attraverso la sua storia, si è aperto. La vita di Caterina – ricordo che siamo a metà del Settecento – non solo sta ai cosiddetti margini, ma addirittura li travalica, prescindendo dalle leggi della natura e sottraendosi alle attese che gravavano su uomini, donne, animali e cose. In questo modo, costringe i suoi contemporanei a distogliere gli occhi dal centro della pagina, e a guardare ai lati. E noi le siamo grati, perché senza il suo travalicare i margini sapremmo molto meno non solo di lei, ma anche delle attese, delle inquietudini e delle visioni del mondo dei suoi contemporanei indagatori.

 

Mantova, 12 settembre 2021

 

 

* dei saggi di Marzio Barbagli e Ivan Jablonka ho scritto rispettivamente su «Annali dell’Istituto storico italo-germanico», 41, 2015, 2, pp. 128-131 e «Psiche», 2018, pp. 605-608.


Ma cosa vuol dire «strano»?

Fernanda Alfieri

Veronica e il diavolo


Frontiere Einaudi, pp. 376