Ho incontrato per la prima volta Irene, di cui avevo solo sentito parlare, quando si mise in cantiere il volume dedicato a I segreti di Istanbul. Esposi grosso modo il piano di lavoro che avevo preparato. Lei mi guardava con un’espressione sospesa, aspettando di vedere, credo, dove sarei andato a parare. La replica fu breve. Su Istanbul si è scritto moltissimo, disse. A te spetta il compito non facile di organizzare un racconto a doppia faccia. Un saggio che sia da una parte storia, costume, mito. Dall’altra una guida pratica, un libro che il lettore possa portare con sé alla maniera di una guida anche se molto sui generis.
Non so se sono riuscito a seguire quella traccia, fu quello che pensai: ecco un editore, mi dissi, che sa mettere insieme la tradizione di una casa come Einaudi con quella che dev’essere oggi l’utilità di un libro.
Corrado Augias
È letterario notarlo? Ha qualche senso? Sarebbe stato bello poter discutere proprio di questo, e casomai addirittura riderne, con Irene Babboni, la meravigliosa Irene, che anche su certe cose scabrose non era né cinica né fatua ma dispiegava la potente e ridente razionalità della letteratura. Ora non importa neppure tanto quale sia l’occasione numerologica a cui alludo ma del resto, e per la precisione, ora non c’è proprio nulla d’altro che importi minimamente. Irene se n’è andata, dopo prove che aveva superato con il suo inimitabile sorriso e dopo aver esperito pressoché tutte le prescrizioni a cui ci si sottopone quanto meno per dimostrare agli altri di «aver reagito». Una vicenda patologica pluridecennale crudele e davvero maligna (maligna, dico, anche in senso morale) ha infine prevalso ed ecco che Irene non c’è più e a noi tocca piangerla senza neppure saper immaginare cosa la sua morte possa significare per chi gli era molto più vicino.
Non di tutte le persone mi ricordo con precisione il momento in cui le ho conosciute.
Con Irene invece mi càpita, ed è quasi buffo (lei di sicuro ne riderebbe) che si trattasse di un importante funerale, il primo di altri tre in cui la sua figura si staglia nel mio ricordo.
Quella volta stava parlando fitto fitto con un mio amico, su un pianerottolo di un importante palazzo di Torino, lo stesso in cui poi l’avrei vista mille altre volte e in cui l’avrei scoperta – o meglio, riconosciuta – amica. L’impressione che ne ho sempre avuta è stata quella di una «ragazza dell’editoria» e ora non vorrei che questo apparisse come una diminutio: almeno allora ragazza lo era davvero, e del resto ragazzo all’epoca lo ero anche io. Lei, però, poi lo sarebbe rimasta, non certo dal punto di vista della professione (vi è stata senior da subito) ma dal punto di vista di uno spirito che riconosce l’autorità dell’istituzione ma anche il proprio diritto di torcerle il naso. Le volte che si è riso delle debolezze che emergevano (e, prime fra tutte, le mie) dove stava l’istituzione e dove la propria personale e irriducibile anarchia? E una casa editrice ha più bisogno di yes-boys e yes-girls o di persone che sanno stare dentro e fuori, non per ipocrisia ma per saggezza e capacità di fare quella fatica di entrare e uscire ogni momento da qualsiasi schema?
Ne scrivo, ora mi accorgo, senza aver ancora detto che Irene Babboni è stata una funzionaria di Einaudi, traduttrice di Georges Perec e di Patrick Modiano, editor di Antonio Delfini, allieva di Cesare Garboli (uno dei funerali di cui parlavo, a Santa Maria del Popolo, Roma, 2004), curatrice dei Saggi Einaudi (la celebre collana «arancione») e con Andrea Canobbio inventrice e animatrice della collana «Frontiere», dedicata alle scritture che nei nostri anni hanno eroso la barriera tra letteratura e saggistica, tra fiction e non-fiction.
Chissà quanti suoi titoli ora non ricordo, e magari non ricordo perché non li conosco. Me ne scuso, il lettore avrebbe diritto a obituaries ben informati e capaci di perimetrare l’entità di una perdita. Ma quando si parla di qualità si va in territori invece molto impalpabili: territori in cui l’importanza di un’osservazione fatta nel momento giusto, la casualità di un controllo editoriale non dovuto ma fatto un attimo prima che fosse irrimediabilmente tardi, la pazienza e l’acume, le mille cose di cui poi alla fine sono fatte le lacrime non riescono proprio a trovare il correlativo oggettivo che le sappia presentare a chi non ne avrebbe mai saputo nulla, di una come Irene.
16 giugno 2014, Maria; 19 giugno 2017, Irene. È il tipo di numeri in cui depositiamo vicende umane irrecuperabili e altrimenti indescrivibili. Quando muoiono le star, è certo facile indicare i parametri su cui calcolare e tramettere la loro magnitudo. Quando muoiono le persone che hanno reso grandi gli altri si può solo sperare che chi, eventualmente, legga sia disposto a pensare che il lavoro editoriale è fatto da ragazze e ragazzi che alla passione nativa e alla competenza acquisita abbiano aggiunto doti, inimitabili, diimmedesimazione e interlocuzione, tonalità di accoglienza e (all’occorrenza) contestazione, capacità forse inumane di lettura e di, forse altrettanto inumana, umanità.
Era un mondo più allegro, più intelligente, più nostro, quello che, un’altra volta ancora, è finito ieri.
Stefano Bartezzaghi
Delle persone la cosa che più mi attrae è il sorriso. Certo gli occhi, lo sguardo, ma niente illumina il volto come un sorriso. Irene aveva un sorriso soave. Mai troppo aperto, mai troppo chiuso. Giusto. Il suo sorriso era un atto d’accoglienza, quasi una carezza, perché in Irene il sorriso anticipava la parola, che era sempre un po’ toscana e quindi con qualcosa d’irridente, di sottile ironia o canzonatura, anche quando ti faceva un complimento. Non perché questo fosse in lei un abito, ma semplicemente perché era toscana, però della costa, quindi più dolce dei toscani di città, quelli delle antiche mura, dei torrioni e dei palazzi orgogliosi. L’orgoglio dei toscani della costa, delle Alpi Apuane, è qualcosa di più delicato, meno esibito.
Ho conosciuto Irene per via di Delfini, su cui lei aveva scritto la tesi di laurea. Vado a memoria e non controllo quando è stato, anche se ho qui il numero di «Riga» dedicato allo scrittore modenese. Mentre lo mettevo insieme mi aveva parlato di lei Cesare Garboli. Probabilmente è stato prima che arrivassi in Einaudi, che diventassi un autore della casa editrice. Prima di cominciare a frequentarla. O forse no, la memoria fa cilecca, e tutto è invece avvenuto solo dopo. Non lo so bene.
Per me Irene è stata l’Einaudi, il sorriso che ti accoglieva. C’era Paolo Fossati con la sua voce quasi rauca, strascicata, sempre un po’ sferzante nel tono, prima ancora di quello che diceva. Poi il parlare per sussurro, cadenzato, con sottolineature, eppure uniforme, di Ernesto Ferrero. Però è Irene quella con cui ho fatto i libri. Il primo, L’occhio di Calvino, arrivato in casa editrice grazie a Mario Lavagetto, che ne aveva letto una versione più lunga, accolto da Fossati, diventato l’amico di quegli anni. C’era Irene. A lei Maria Perosino e Fossati mi avevano affidato. La sua stanza era quella in fondo, entrando, dritti appena di lato, scartando i due corridoi, quello con le stanzette simili a loculi monacali, e poi l’altro con l’officina dei redattori: attive api ronzanti. Irene ha guidato passo a passo quel primo lavoro a diventare un oggetto a stampa, rileggendo, chiosando, riflettendo. A lei mi legavano alcune passioni letterarie, a partire da Delfini, che è diventato in seguito un legante con un altro amico di quegli anni vorticosi della maturità: Gianni Celati.
Irene aveva una modestia inconsueta nei toscani; era così poco spaccona o provocatoria, tuttavia non si negava alle critiche aperte, sempre circoscritte a cose concrete, perché in lei la maternità accogliente era già una presenza evidente ben prima di diventare madre per due volte. Mi dilungo a parlare di Irene come persona, perché questo per me è stato sempre più importante, più ancora della sua capacità di dar forma ai dattiloscritti che le portavo. Da subito è stato evidente che ci interessavano le medesime cose e che entrambi, pur amando la narrativa, propendevamo per la saggistica, una saggistica narrata, che è poi stata quell’invenzione di Frontiere, la collana che ha creato con Andrea Canobbio.
Ricordo una volta che eravamo davanti alla porta d’ingresso della casa editrice. Entrava portando con sé un pacco di fogli inchiostrati; ero curioso di sapere cosa fosse – mi piacciono i libri prima di diventare libri, i libri degli altri, da cui imparare tutto quello che non so, che è davvero tanto. Cercavo di sbirciare le bozze. «Devo farti conoscere una persona», mi ha detto. «Avete delle cose in comune. Ha scritto un libro che t’interesserà molto». Erano le pagine del Corpo del Duce di Sergio Luzzatto.
A Irene piaceva far incontrare le persone, ma sempre in modo discreto, senza troppo insistere. Avremmo fatto noi. Oppure no, non sarebbe successo nulla. Il suo sorriso però sarebbe rimasto identico per tutti. Come a dire: «Ci ho provato». Perché un certo fatalismo, seppur tenace, era presente in lei, insieme a una determinazione incrollabile, l’altra faccia della delicatezza femminile che possedeva. Irene è sempre rimasta una ragazza anche quando è diventata adulta e madre, perché la leggerezza che la distingueva non l’ha abbandonata mai – e così l’ho vista anche quando la vita l’ha abbandonata, perché ancora lì vita c’era dentro le sue fattezze e il viso dolcissimo.
Avere un redattore che ti segue: per me era la prima volta, nonostante avessi pubblicato già qualche libro. Quelli che ho fatto con Irene – sono almeno quattro o cinque – erano libri diversi. Fatti insieme. Non pubblicati solamente. Nel suo lavoro editoriale Irene era discreta, presente, sempre un passo indietro. Proponeva, mai ordinava, o comandava. Non voleva convincerti, ripeteva, senza insistere. Poi si faceva come diceva lei. Come poteva essere altrimenti? La voce che emergeva dietro il suo tavolo in redazione era sicura e sincera. Parlava a un amico, non a un autore. A un autore che è anche amico.
Anche se non posso dire di essere stato davvero amico di Irene – la riservatezza era in lei una piccola staccionata dietro la quale stava al riparo –, posso però dire che lei era una redattrice-amica. Prima redattrice, anche se poi abbiamo condiviso serate insieme con gli altri amici dell’Einaudi. Occasioni conviviali e anche incontri di gruppo. Irene sempre presente, sempre attenta, sempre con una parola, sempre per noi.
L’ho lasciata dietro il suo tavolo un anno e mezzo fa, o forse di più. Non abbiamo più fatto libri insieme da un po’. Ma ogni volta che passavo da lì, dall’Einaudi, andavo nella sua stanza. Stavamo in piedi a parlottare, piccole schermaglie, scambi d’idee, commenti, ragionamenti veloci, e informazioni su quello che facevamo. Da dieci anni le avevo promesso un libro, a lei e a Ernesto che ne era stato l’ideatore – o forse l’idea era di Irene, non lo so, ma se fosse anche stata sua, non l’avrebbe rivendicata come propria. L’importante era che si facesse.
Un intero pezzo della mia vita si è staccato e se ne va con lei. Un periodo di grande confusione, timori, fantasie e dolori, ma così vivo e vitale che adesso a scriverne qui in campagna, dove ho messo insieme gran parte dei libri che Irene ha curato, mi prende una grande malinconia. Gli anni passano, i ricordi s’accumulano. Che bello sarebbe stato diventare vecchi insieme, con i libri che abbiamo fatto insieme, che avremmo ancora fatto, o di cui avremmo parlato. I libri miei e i libri degli altri.
Marco Belpoliti
«È qui con noi anche Irene Babboni dell’Einaudi!» esclamò la voce del presidente. Giuria del premio isola d’Elba, 1998, vinto da Nascere. Storia di donne donnole madri ed eroi, appena pubblicato nei Saggi. Si alzò sorridente una ragazza snella, forse appena intimidita, per subito tornare a sedersi agitando una mano. La stessa ragazza che, in costume da bagno, al pomeriggio aveva nuotato con noi nel mare dell’isola, preso il sole sulla spiaggia, soprattutto riso. Irene la ricordo così, una gita all’Elba per celebrare con me il premio assegnato a un libro a cui teneva: ne aveva curato l’editing in un modo meraviglioso, e sì che le note erano incredibilmente ostiche (me ne accorgo ogni volta che lo riprendo in mano). Poi vennero giorni più difficili, lei che veniva a curarsi a Pisa, una volta per settimana, e dopo ogni seduta passava da casa nostra per rileggere con me la traduzione del libro di J.-P. Vernant che stava man mano portando avanti. C’era un divano verde nel mio studio, a quell’epoca, un po’ sdrucito dagli anni ma comodo. Il verde era di buon augurio. Sedevamo lì per qualche ora, a parlare, e lei man mano riprendeva colore. Era bella quando si illuminava.
Maurizio Bettini
Nel corso degli anni la conoscenza e la collaborazione con Irene non hanno tardato a trasformarsi in amicizia cordiale: Irene infatti possedeva una rara capacità di ascolto e di dialogo, una prontezza nel cercare la sintonia con le persone, una radiosa intuizione di ciò che arde nel cuore dell’altro. Doni preziosi che Irene sapeva elargire con naturalezza, trasformando l’interlocutore in un sodale di intenti e un compagno di cammino. Negli incontri in cui ragionavamo insieme su idee da trasformare in progetti o sull’avanzamento di un “cantiere” già avviato, il suo sorriso era la finestra aperta sulla sua sensibilità genuina, la schiettezza della parola, il desiderio di conoscenza, l’attenzione ai particolari apparentemente più banali. Le energie di vita che Irene sprigionava non sono perdute e non lo saranno mai.
Enzo Bianchi
Cara Irene,
scusami se ho qualche appunto ma ne ho bisogno perché se no mi perdo, non riesco a dire le poche cose che vorrei dire.
Prima di tutto lasciami dire che voglio protestare (non so bene con chi, con Dio, col caso, con il destino, con la sorte) non so con chi, ma voglio protestare perché oggi tocca a me farti un saluto, parlare di te, e questo non è giusto: caso mai avresti dovuto farlo tu per me, visto che sei stata fra gli studenti di Lettere quando io iniziavo a insegnare, come hai ricordato spesso, con grande affetto e ricordando il forte senso di solidarietà che provavi con me, in una situazione in cui, oggi come allora, essere donne e indipendenti non era molto facile.
Ma, dicono, muore giovane chi è caro agli dei. Certo questi dei hanno gusti un po’ strani. A tutti noi certo sei stata e sei molto cara e proprio per questo abbiamo ancora bisogno di te, non ci sembrerà vero che non possiamo più telefonarti, mandarti un SMS, fissare un incontro. E invece non c’è più tempo, non c’è più futuro da condividere.
Mi piace ricordare che nei momenti più importanti tu e Ernesto mi avete voluto vicina: la festa per il matrimonio, sulla grande terrazza di casa vostra, il battesimo di Andrea a Santa Giulia e ricordo che abbiamo commentato insieme qualche tratto maschilista che non era assente, nel discorso, pur bellissimo, che era stato fatto in chiesa.
E anche ero con voi, a casa vostra, quando hanno eletto papa Bergoglio e noi abbiamo festeggiato prima di tutto perché temevamo il peggio e poi perché Ernesto era molto orgoglioso che il nuovo papa fosse di origine ligure.
Ma vorrei anche ricordare quando tu e Ernesto siete venuti a Pisa, in Normale, all’ultimo momento, per partecipare a un convegno e vi ho visti entrare in fondo alla sala, sudati e stanchi, ma eravate lì, e questo era un grande segno di amicizia, e anche introduceva nella sala un tocco diverso, di vitalità, di curiosità partecipe, di amicizia appunto.
Così quando siete venuti, in un breve intervallo, a vedere la mostra sull’Ariosto, e avete voluto comprare il catalogo, perché, ha detto Ernesto, i libri si comprano.
La prima volta che ti ho visto: per una cena con te, Ernesto e Enrico Castelnuovo, e sono stata subito colpita, nella scarsa luce della macchina, nella serata torinese, dalla tua bellezza e dalla tua grazia.
Ho avuto poi il privilegio di lavorare con te (ed è allora che davvero siamo diventate amiche) perché tu hai fatto l’editor di La rete delle immagini. E’ stata una esperienza irrepetibile: mi hai inseguita con grande tenacia per i miei vari spostamenti (ricordo telefonate da diversi luoghi di Parigi) e con te ho sperimentato insieme qualità spesso incompatibili: la leggerezza e la decisione, l’impegno professionale, la tenacia e insieme la solidarietà affettuosa, una viva intelligenza e un acuto senso della precisione. E a proposito di precisione: nel necrologio che ho pubblicato per te su Repubblica c’era un refuso: tu non l’avresti permesso!
E vorrei poi ricordare la complessa storia della pubblicazione della grande opera dedicata al romanzo, diretta da Franco Moretti: quando abbiamo affrontato insieme il problema delle traduzioni non solo dall’inglese, ma dal gergo teorico critico allora in voga nel mondo accademico anglosassone, e le difficili questioni sono state ben risolte grazie all’impegno di allora giovani normalisti, che sono ora studiosi affermati.
Questo Natale mi hai mandato il pdf di un breve ma succoso libro di una scrittrice africana su come educare una figlia a essere femminista. Avevi ragione, il libro mi ha interessato e mi è piaciuto, e mi ha molto colpito, come ti avevo scritto, il fatto che, al di là della specifica situazione africana, i problemi per le donne sono sostanzialmente gli stessi. Mi ero ripromessa di parlarne con te alla prima occasione, una occasione che purtroppo non c’è stata.
Di una cosa ti sono particolarmente grata, oltre che per l’affetto che ci ha unite: quando parlavo con te di progetti, più o meno vaghi e magari un po’ folli, di lavoro, di ricerca, questi prendevano forma, diventano belli e credibili grazie al fatto di parlarne con te, grazie al tuo genuino interesse, alla tua capacità di ascoltare.
E poi gli ultimi incontri al Salone del Libro, in un angolino mezzo nascosto fra i padiglioni: tu e Giorgio e Andrea, i tuoi bellissimi bambini e poi fuggevolmente a Mirandola, al Festival della Memoria, e poi ancora i progetti di venirti a trovare, di incontrarci ancora, progetti per cui i quali, d’improvviso, non c’è più stato tempo.
Ma anche mi viene in mente il tuo coraggio, il tuo amore per i viaggi e per le avventure, il tuo gusto per mettersi alla prova.
E a proposito di coraggio: avevi affrontato con tanto coraggio la prima grave manifestazione della malattia che quando sembrava che anche stavolta ce l’avessi fatta, non ci siamo poi troppo meravigliati: era proprio questo che ci aspettavamo da te. Ma purtroppo i miracoli non accadono e sicuramente non si ripetono.
Speravo di vederti ancora a Pietrasanta, al mare, magari di andare insieme con la canoa che ero andata a comprare proprio con te, in un negozio di Torino, e che Ernesto mi ha portato a Pisa. E ricordo un bagno fatto insieme proprio a Marina di Pietrasanta, con te, Ernesto, i ragazzi e la tua grande famiglia di sorelle, cognati, nipoti, che ti è stata tanto vicina e tanto cara, come mi hai detto l’ultima volta che ci siamo sentite,
Mi resta un grande rimpianto perché non ci siamo viste di più, non abbiamo parlato di più. Ma so che è stato un grande privilegio l’averti conosciuto, aver lavorato con te, esserti stata amica, e ti ringrazio, per questo e per tutto quello che mi hai dato, con tutto il cuore.
Lina Bolzoni
Ripenso con tristezza e dolore a Irene, e mi sembra impossibile non ascoltare più la sua voce dolcissima e luminosa, non vedere più il suo sorriso ferito da una tenerezza presaga, quando veniva a Novara con Antonella Tarpino, e non leggere più le sue parole che mi parlavano delle pagine del mio libro che le mandavo, a mano a mano che le scrivevo, cogliendone con le radenti intuizioni, che erano solo sue, significati che mi erano sfuggiti. Sono le più belle parole che mai siano state dedicate a un mio libro, che senza di lei non avrei mai scritto, e le rileggo ogni volta con dolorosa nostalgia; e non dimentico quelle, ricolme di tenerezza e pudore indicibili, che Irene mi diceva dei suoi bambini. Sono un medico che scrive delle sue pazienti, e Irene con stremata delicatezza ne ha subito riconosciute, e ne ha descritte, la solitudine e la sofferenza. Non so se il suo sorrise mite e fuggitivo dicesse qualcosa della sua malattia, e dei suoi timori, ma forse è stato così. Sono meravigliose le persone nelle quali risplendano, nel momento stesso in cui conoscono, gentilezza e tenerezza: grazia e delicatezza: ascolto e intelligenza del cuore: questa è stata Irene; e l amia infinita riconoscenza non verrà mai meno.
Eugenio Borgna
Scrivere un libro è sempre un viaggio periglioso e un’avventura eccitante, e avere accanto a me nel cammino come compagna Irene Babboni è stato un dono e una sorpresa. Chi scrive è solo con il suo fantasma. E si inoltra in zone di penombra, dove i suoni si attutiscono, le voci non sono chiare, ma confuse. Lo scrittore cerca di carpirle, di sottrarle all’indistinto. Ma spesso i suoi sensi, in specie la vista e l’udito, si appannano, forse per l’ansia di mostrare tutto quel che vede e intra-vede, di restituire tutto quel che sente o pre-sente. Irene era pronta a condividere quella fatica, perché il libro nascesse. Sapeva ascoltare. Ascoltare era un’arte in cui Irene eccelleva.
Discreta ma ferma, Irene esercitava quella forma di vera attenzione che sono sicura aveva imparato leggendo Simone Weil – lo so perché ne abbiamo parlato; lo so perché ho riconosciuto l’orecchio di chi sa captare le unheard melodies del testo, il sottofondo che lo intona. E sa rimodulare certe involontarie ripetizioni, impedire certe scorciatoie che faciliterebbero la strada, ma non nella giusta direzione.
Irene aiutava a partorire il libro in fieri, sapeva partecipare alle doglie, si faceva addirittura levatrice. Sapeva, miracolosamente, farsi madre di bambini non suoi – la forma più generosa di altruismo. Quando le diedi il manoscritto del mio libro Hannah e le altre, subito mi colpì, e non solo per ragioni egoistiche, il suo talento – perché senz’altro migliorò il libro suggerendo alcune scansioni; mi colpì e soprattutto mi piacque il modo in cui entrò nella sua “fattura”. La sentii sorella mia e delle altre donne cui il libro era dedicato: Irene fu subito una di “noi”. E qui non si tratta di un giudizio di valore; qui si tratta del riconoscimento della lucida intelligenza di chi sa porsi come soggetto non egocentrico, non perduto nel narcisismo vano e vanitoso della difesa e della costruzione della ‘propria’ identità. Irene non soffriva di quel male così comune e diffuso che è la vanità impudica, il vacuo narcisismo degli insicuri, l’esibizionismo che copre magagne e incertezze; era invece una donna sicura e responsabile. E gentile. E allegra. E infondeva fiducia anche quando criticava. Fiducia, la mia, nei suoi confronti, che si rinsaldò con l’altro libro cui lavorammo insieme, quello sulla Tempesta di Shakespeare. Anche in quel caso, il suo ascolto colse le risonanze più segrete non solo del mio testo, ma di quello di Shakespeare. Stavo per coinvolgerla nella mia prossima avventura; lei mi rispose subito, promise che sarebbe guarita; non è stato così. Ma spero di averla amata abbastanza da portarla con me nella memoria, di tenerla con me by heart, come si dice in inglese.
Nadia Fusini
Quando abbiamo lavorato insieme, per un libro color arancio, aveva la grazia leggera della gioventù. In via Biancamano, era così precaria che non stava a Torino tutto il tempo. Ricordo una passeggiata primaverile, a Pisa, sul Lungarno. Si era comprata un paio di scarpe nuove, e camminava con quella stessa grazia leggera. La grazia che ha conservato anche dopo, sempre. Nonostante tutto. Sulle pagine, e fuori dalle pagine.
Sergio Luzzatto
IN MEMORIAM
Ci sarà tempo, Irene
Per una serata senza refusi
Né virgole abusive o abusate parole
E limare significherà farci più corte
Le unghie e non comporre
Il testo alla tipografia.
Ci sarà tempo, Irene
Per confidarci chi si nasconde
Dietro e dentro i libri
Che mettiamo al mondo.
Ma non sarà tra quelle stanze
Linde il tempo di saperti.
Non ti dirò a via Biancamano
Di quel gennaio che il sorriso tuo
Mi venne incontro sulla soglia
Nel corridoio che mai percorro
A cuore quieto perché un gennaio
(Non te l’ho detto ancora)
Mi sono infranta contro quella soglia
– Già casa tua, ma a me fortezza e muro.
Sorriso che fu intesa subita
Inizio, premessa, promessa.
Quando e dove non so.
Ci sarà tempo, Irene.
Melania G. Mazzucco
Il tavolo delle riunioni, a Torino, e la redazione del Romanzo che discute: Vargas Llosa, Jameson, Mengaldo, Kilito, Ernesto, tutti belli distanti gli uni dagli altri, perché il tavolo è grande – ma Irene ed io seduti vicini, con davanti il laptop dove le proposte si accumulano, e facciamo in silenzio i conti dei tempi e delle pagine, e a un certo punto sappiamo che metà di quelle idee saranno buttate e buonanotte, siamo a 2.000 cartelle, 2.500, 3.000, e non c’è né il tempo né lo spazio né i soldi, e neanche la gente per scriverle, e non c’è bisogno di guardarsi per sapere che anche l’altro sa, piccoli movimenti delle mani, o lo schiarirsi della voce, e sale l’irresistibile ridarella che ti veniva a scuola, e pare di essere due intrusi nella riunione dei grandi, ma anche che quelli intorno al tavolo sono fuori di testa, non ci fossimo noi che poi gli metteremo a posto le cose…
Svegliarsi a San Francisco sicuro di trovare un’email, due, tre, da Irene, tutto il 2000, il 2001, il 2002, fino all’autunno del 2003. Un argomento per email, un saggio in ritardo, uno troppo lungo, un traduttore col raffreddore, una prova di copertina andata male. Ogni email un guaio; ogni guaio lo mettevamo a posto e diventavamo un po’ più amici. Perché ci pareva che eravamo schierati là a combattere contro un’armata di ritardatari chiacchieroni, mai che ci stessero a sentire, maledetti. Ci eravamo insuperbiti. Però anche la modestia certosina di esser sicuri che le virgole fossero a posto, e soprattutto, quando cominciavo a dare di matto, quel secondo di silenzio al telefono, poi la voce di Irene, un po’ più bassa e più ferma, che diceva: Ascolta.
E così andava, usciva un volume e la gente parlava di quello, ma noi già avevamo finito quello dopo e stavamo lavorando a quello dopo ancora – e c’era questa allegria fantastica che era tutto un teatro di marionette, solo noi sapevamo davvero cosa succedeva, gli altri vedevano solo quello che gli lasciavamo vedere, ma le cose serie figurarsi. A Pisa si presentò il secondo volume, la sera uscimmo a passeggiare vicino alla torre, ci sedemmo per terra (ci piaceva a tutti e due), ci guardammo in faccia e: «Abbiamo finito». Veramente c’erano altri tre volumi, ma ormai era fatta, avevamo passato la metà, era cominciata la discesa, ricordo la strana tristezza di quel dirsi che Il romanzo era finito, e – ma questo non ce lo dicemmo – che questo incredibile lavorare insieme che ci era toccato in regalo finiva, e niente altro sarebbe stato così.
Irene, amica mia.
Franco Moretti
Ho conosciuto Irene quando era una giovane studiosa di letteratura innamorata dei libri e già colpivano, in lei, l’intensità lieve, la profondità leggera, le doti che ne avrebbero fatto la straordinaria editor che è stata. Ho poi avuto la fortuna di lavorare con lei a quello tra i miei libri che forse mi è più caro, compagna di viaggio ideale nell’itinerario «eretico nell’Italia che cambia» che ci ha portato – lei in via Biancamano, io sulla strada – da Torino a Lampedusa, dialogando e confrontando emozioni, immagini, incontri con luoghi e persone, idee e paesaggi, e ancora una volta la sua capacità di stare insieme dentro e fuori la testa dell’autore, di assumerne lo sguardo e insieme di guardarne la pagina da esperta qual era, la rendevano preziosa. Complicità e distacco, condivisione e tecnica. Questo è stata per me Irene, apparentemente fragile, in realtà fortissima, interlocutrice sapiente.
Marco Revelli
Che cosa sia un editor, solo chi scrive potrà dirvelo davvero. Ma nemmeno in questo caso è semplice: la natura del lavoro, e del rapporto con l’autore, cambia a seconda delle persone, del libro. Come in ogni pratica creativa, o in una terapia. L’editor è insieme un interlocutore qualificato, un sostegno e, spesso, qualcosa di simile a un’ostetrica.
Nel mondo editoriale Irene è stata moltissime cose, ma nel mio ricordo, come in quello di tanti altri, resta innanzitutto come una editor straordinaria, colta, competente, ferma ma insieme sensibile, come credo ce ne siano davvero pochi.
L’ho conosciuta quando ho cominciato a lavorare al mio primo libro, Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre. Col tempo, mi sono resa conto di quanto sono stata fortunata.
Ricordo bene il nostro primo incontro di lavoro, dopo la firma del contratto. Avevo molta soggezione dei bianchi corridoi della casa editrice, della storica sala riunioni. Era il primo libro. Era un libro difficile. Avevo venduto il progetto, spavalda, ma covavo il terrore di non farcela ad arrivare in fondo, a dare forma a ciò che avevo in mente.
L’incontro con Irene è stato risolutivo. Avevo paura, ma non annaspavo da sola in mare aperto: lei era lì per me. E, a differenza di me, lei sapeva benissimo cosa faceva: mi era bastato sentirla parlare di sfuggita di un paio di libri per rendermi conto di essere in ottime mani. Ho capito subito che era esigente (prima di tutto con se stessa, molto, avrei scoperto).
Ricordo il tatto con cui mi comunica alcune perplessità, mi incita a spiegarle meglio la direzione che sto esplorando. Mentre parliamo, annusandoci, accade qualcosa di fondamentale. Capisco che non accetterà niente di meno del massimo che posso dare e, cosa assai più importante, mi trasmette la ferma convinzione che questo massimo è molto, molto più di quanto immagini allora. Mica me lo dice in modo diretto: ogni rassicurazione esplicita suona come una frase di circostanza, in momenti simili, sembra retorica (Irene non era retorica per niente, mai). Me lo fa proprio sentire. Mi prende sul serio. Non ha dubbi. La sua fiducia, seria ed esigente, mi contagia. Mi sblocca. Fatico a immaginare cosa sarebbe accaduto se mi fossi trovata a lavorare con una persona meno preparata o, peggio, condiscendente.
Nel corso del lavoro, Irene mi cammina vicino ma senza mai invadere il mio spazio, scostata appena di un passo, così da lasciarmi il campo libero, ma pronta ad acchiapparmi tendendo un braccio, se scivolassi.
Ricordo poi, il secondo incontro, forse? il suo entusiasmo per un passaggio, Sono andata dappertutto, fieramente sola, orgogliosa della mia indipendenza, della mia libertà. Sono stata forte, a volte spavalda, ricacciando indietro paure, fragilità; mi lascia intuire quanto risuoni in lei. Per gradi, poi, mi ha fatto dono della sua confidenza, della sua amicizia. Era segreta, Irene, all’inizio. Parlava di sé con parsimonia, raccontandosi con parole misurate, precise, dense (ricordo il tavolo del ristorante semivuoto in cui mi disse della malattia, la prima).
L’ho già raccontato, ma voglio ripetere che il merito di aver fatto diventare il verso di Szymborska un titolo amato, che ha accompagnato il libro come una benedizione, è suo. Avevo posto lo scampolo finale della poesia Ogni caso in esergo. Era la chiave di volta, ma volevo tenerla nascosta almeno sotto la copertina. Ma Irene non ha dubbi: l’ultimo verso è il titolo vero, non quello scabro e asciutto che ho dato al libro in gestazione. Ne parliamo. Esito. Porta l’anima a fior di pelle, e ho paura che rivelarla così indebolisca la mia voce, delegittimi lo sforzo di ricostruzione storica che sto facendo. Irene, con una grintosa leggerezza tutta sua, dissipa in un batter d’occhio questo sciame di paturnie, come se mi tendesse la mano, e – vieni, salta, ci sei già! Decisa, entusiasta, mi dà fiducia nella mia voce, in quello che una filosofa ha chiamato il cuore pensante.
Lavorare al secondo libro è stato diverso, ma non meno bello. Che goduria, confrontarsi sulla ripulitura di fino, le sfumature (da traduttrice letteraria, come sapeva cogliere le pulsazioni nascoste dietro la scelta di ogni parola), il gioco dei tempi verbali nella narrazione (ho falciato via il passato remoto da queste righe, mi sembrava di vederla, storcere il naso scrollando i capelli). Mi viene in mente come, per ridere, faceva gli occhi storti; la grazia una collana essenziale, lunga e sottilissima, che mi sembrava così simile a lei (era bella, Irene: un cavallo di prateria). I libri che mi ha fatto scoprire.
Sono stata fortunata. Irene, cuore pensante, mi accompagnato nel modo migliore nella traversata esaltante e burrascosa che ha cambiato la mia vita. La mia gratitudine per lei è così grande.
La sua morte, un buco di silenzio atroce.
Benedetta Tobagi