Narrativa straniera e Frontiere

Nato con l’effetto

E—F
Ernesto Franco 1 Marzo 2016 22 min

Horacio Quiroga sapeva bene che «la differenza fra gli umani e le tigri è una questione di cuore». Esce Tigre per sempre, la raccolta dei racconti di Horacio Quiroga, maestro della forma breve che ha influenzato più di una generazione di scrittori sudamericani, da Rulfo a Cortázar. Per l'occasione pubblichiamo la prefazione di Ernesto Franco.

I. Credi nel maestro – Poe, Maupassant, Kipling, Čechov – come in Dio stesso

Il 27 febbraio 1925, Horacio Quiroga pubblica su «El Hogar» un suo Decálogo del perfecto cuentista, cui faranno seguito un Manual del perfecto cuentista (10 aprile 1925) e Los trucos del perfecto cuentista (22 maggio 1925). Fin dal titolo, appare inequivocabile l’intenzione ironica di cui Quiroga investe i suoi precetti. Ma non c’è solo questo. Come in ogni cosa che scrive, anche nel Decálogo Quiroga racconta una parte di se stesso e della propria esperienza, mentre l’ironia è duplice. Da una parte è un’ironia tragica, come quella che intesse alcuni dei suoi migliori racconti; dall’altra è un’ironia polemica, orientata contro la nuova società letteraria che sta prendendo forma.
«El Hogar» era al tempo il settimanale illustrato che “faceva” l’opinione pubblica alta a Buenos Aires ed era anche molto seguito all’estero. La sua sezione culturale aveva affermato diversi scrittori, tra cui lo stesso Quiroga, e più tardi, sul finire degli anni Trenta, Jorge Luis Borges ne curerà la parte dedicata ai libri e agli autori stranieri. Nonostante le apparenze, che ci raccontano di un Quiroga all’apice del successo letterario e sociale a Buenos Aires, si sta affermando nella capitale, come si diceva, una nuova generazione di scrittori che ruota proprio intorno a Borges e alle riviste d’avanguardia come «Proa» o «Martín Fierro». È dalle pagine di queste riviste, tutte orientate a guardare fuori dai confini nazionali verso le avanguardie di Parigi, Londra e Madrid, che Quiroga viene o ignorato o preso satiricamente di mira come uno scrittore troppo orientato, al contrario, verso l’interno del territorio americano. Emir Rodríguez Monegal ricorda in un suo libro dedicato a Quiroga, e intitolato programmaticamente El desterrado, un giudizio lapidario di Borges raccolto da lui stesso nel 1945: «Ha scritto racconti che aveva scritto meglio Kipling».
Quiroga reagisce non tanto con il Decálogo, quanto con l’ironia del Decálogo. Come a dire, a credere di essere nuovi assoluti c’è più ingenuità che verità, più réclame, per usare una parola dell’epoca, che verità della scrittura. Tanto vale, allora, «credere» nei maestri, ovvero riconoscerli. Questo è un vero inizio. E Poe, Maupassant, Kipling, Čechov sono esplicitamente, il lettore lo vedrà sulla pagina, i maestri amatissimi («come Dio stesso») di Quiroga. Riconosciuti.

II. Credi che la tua arte sia una vetta inaccessibile. Non sognare di dominarla. Quando potrai farlo, ci riuscirai, senza neanche accorgertene

Ancora nascostamente polemico, anche con se stesso, Quiroga afferma che credere di possedere la letteratura, credere di sapere dove stia di casa, è una malattia infantile o un gioco di società.
Lo dice per esperienza personale, lui che nasce nel 1878 a Salto, in Uruguay, da una famiglia benestante, poi si trasferisce a Montevideo, dove fonda riviste e circoli letterari, si sente decadente e modernista, prova hascisch e cloroformio, è maledetto e “artificiale”, adora D’Annunzio e Leopoldo Lugones, e alla fine, il 24 aprile del 1900, arriva a Parigi, alla bohème, all’Esposizione universale, con ottantotto pesos in tasca. Ma l’esperienza è orribile, Quiroga non si ritrova in nessun café, in nessun circolo d’artisti, la città lo respinge e in breve lo riduce a chiedere l’elemosina per poter mangiare. Torna a Montevideo e da lì riannoda i fili che intrecceranno la sua esperienza e la sua scrittura. Ma sarà un percorso interminabile, come questo secondo precetto lascia intendere, in contrappunto con casi della vita in gran parte incontrollabili, che porteranno tuttavia Quiroga a trovare i volti e i luoghi che la sua «arte» dominerà, sì, talvolta senza sforzo, ma a costo di continue ferite.

III. Resisti quanto puoi all’imitazione, ma imita, se l’influsso è troppo forte. Più di qualsiasi altra cosa, lo sviluppo della personalità è una scienza

L’orma di Maupassant è evidente almeno in Il cane rabbioso. Quella di Edgar Allan Poe è chiara, tanto da essere quasi evocata palesemente, in racconti come Le navi suicide, Il cuscino di piume o Il vampiro, le stesse atmosfere fra delirio e incubo, le stesse esperienze ai confini della scienza e del mistero, la stessa presenza di fondo del perturbante. Emir Rodríguez Monegal ricorda che rispondendo, nel 1918, a un critico a proposito di Poe, Quiroga diceva:

…non c’è nulla al di fuori dell’influenza – evidentissima – di Poe. Questo le serva per rendersi conto di certe leggende che circolano su di me… Credo di godere di una salute moralmente perfetta. Di più: sono un perfetto borghese, con famiglia normale e affetti normali. Ho vissuto per nove anni nel Chaco e a Misiones, lavorando abbastanza duro. E lei certamente non ignora che per quelle vite di lotta in paesi selvaggi, non sono certo indicati nervi troppo sensibili… Di decadente non ho che un libro (Los arrecifes de coral). Ho voluto sperimentare un certo numero di paradisi artificiali, lasciandomeli alle spalle una volta che sapevo cos’erano. Non tocco alcol e non l’ho mai fatto. Ciò che può esserci di allucinazione in alcuni miei racconti è una semplice questione interiore: un’attitudine più o meno manifesta a provare certe cose. Lei mi capisce e concludo. Le ho raccontato queste sciocchezze proprio perché lei non equivochi, amico. Ciò di cui sono più orgoglioso sono le mie scorribande nella foresta, dove ho dovuto vedermela da solo. E di conseguenza, sono le narrazioni della selva quelle che mi sono più care.

Inequivocabile pure l’influenza di Kipling nei racconti per ragazzi qui non raccolti e nei famosissimi come Anaconda o Il ritorno di Anaconda in cui, tra l’altro, gli animali parlano in prima persona come gli esseri umani. Di Kipling, che cita spesso a memoria, ha un’intera collezione di opere, che conserva nella sua biblioteca di Buenos Aires, carica di libri rifasciati a volte con pelle di serpente. Il «New York Times», in un articolo del 25 ottobre 1925, lo saluta come «il Kipling americano».
Certo, «l’influsso è troppo forte» e Quiroga «imita», ma per insistere nella ricerca di una propria personalità. Ed è proprio tale ricerca a segnare la differenza dal maestro. La selva, la giungla, è per Kipling un argomento letterario, mentre per Quiroga una scelta di vita. Non c’è in lui nessuna epica magniloquente, ma solo lo sguardo sul quotidiano come tragedia. Quella di Quiroga è una scelta della volontà, nella convinzione che l’esperienza di vivere a Misiones possa contenere un di più di verità che non si dà altrove.
Forse, tuttavia, la personalità di Quiroga è fatta ancora di qualcos’altro. È possibile sostenere che non esiste un Quiroga di Montevideo o di Buenos Aires e uno della Selva. Esiste un Quiroga fronterizo, uomo di frontiera, in ogni dimensione della sua vita. Nasce un 31 dicembre, fra un anno e l’altro, in Uruguay, da padre argentino e madre uruguayana, e quindi avrà doppia nazionalità. Nasce a Salto e vive le sue più importanti esperienze nel Chaco e a San Ignacio a Misiones, tutti luoghi di frontiera. È segnato da una vita disseminata di morti violente, il padre per un incidente con il fucile quando ha pochi mesi, l’amico del cuore che lui stesso uccide con un colpo di pistola partito accidentalmente, il patrigno e la moglie, lui stesso e la figlia morti suicidi, come se quella fosse una porta sempre socchiusa dal caso. È amante assoluto della solitudine ma rinomato dongiovanni sempre sedotto da donne giovani, spesso troppo giovani, e dalle loro scarpe di vernice. Solo, è però autore di bellissime lettere in cui invita gli amici più cari a raggiungerlo nella selva. Scrive, e intanto inventa imprese commerciali destinate sempre al fallimento. È innamorato della modernità, appassionato di cinema e di divi del cinema, fotografo dilettante e ciclista fotografo, sperimentatore di galvanoplastica, pazzo per la velocità su auto e motociclette tanto da rischiare la vita propria e quella altrui, ma colleziona pelli di anaconda recluso in fondo alla selva. Horacio Quiroga fugge dalla metropoli perché desidera la selva e lascia la selva perché è sedotto dalla metropoli. Quiroga è affascinato dalla razionalità della scienza e indaga l’irrazionale della sensibilità. Quiroga è questo territorio di frontiera che prende forma e sostanza nella scrittura. È per questo che ha spesso voluto comporre i suoi libri sia con i racconti della selva sia con quelli della follia e dell’incubo. Perfino il titolo progettato per una raccolta retrospettiva è a questo proposito significativo: Cuentos de todos colores. Quiroga cerca l’altro, tanto nel fantastico e nell’orrore quanto nella vita di frontiera e della selva, nell’uomo e nelle belve, nella natura e in città. Sempre sul margine. All’esterno nel mondo, all’interno nel sentire e nello scrivere.

IV. Abbi cieca fede non nella tua capacità di trionfo, ma nell’ardore con cui lo desideri. Ama la tua arte come la tua ragazza, con tutto il cuore

Nell’incipit del racconto Su una spiaggia remota, Horacio Quiroga sembra, con la voce di un personaggio, parlare a se stesso, come chi cerchi di rappresentarsi i punti deboli delle proprie scelte e delle proprie convinzioni per meglio radicarsi in esse.

Nella vita quotidiana chiamiamo «letteratura» una serie di stati e aspirazioni che hanno come fondamento la bellezza, e la farsa su noi stessi.
Così, l’uomo indeciso, irresoluto, che ogni giorno si propone azioni energiche di cui sa di non essere capace, traduce le sue ambizioni in letteratura.
Lo scialacquatore impenitente, che simula di affidare al futuro matrimonio la propria sicurezza economica pur sapendo che continuerà a essere un dilapidatore, in letteratura pensa.
Il malato che dà la colpa alla città e alla vita urbana, che giura di ricominciare una vita sana in campagna dove si alzerà ogni giorno alle quattro del mattino, ben sapendo che non sarà così, in letteratura sogna.
L’uomo intrinsecamente onesto che, nonostante la sua assoluta incapacità di fare una qualsiasi compravendita, delira di imprese commerciali che accresceranno i suoi magri averi, quest’uomo che ignora la differenza fra trenta e trentacinque centesimi, in letteratura specula.
Lo scrittore che attribuisce ai suoi personaggi non le azioni e i sentimenti che essi hanno, ma quelli che lui ritiene che sarebbe bello avessero, in letteratura scrive.
Gli isterici di ogni risma, i lettori di romanzi chimerici, coloro che aspirano a una vita diversa da quella che vivono e si fingono sicuri di poterla affrontare, gli ingannatori, quelli che per mancanza di sincerità ingannano se stessi immaginando una presunta bellezza, in letteratura vivono.

Lo scrittore si guarda in uno specchio deformante che gli restituisce tuttavia l’immagine di ciò che potrebbe essere o diventare. L’arte, dice a se stesso, non ha bisogno di letteratura, ma di verità, di esperienza. Ciò richiede il sacrificio di comfort e gradevolezze. Come un amore assoluto richiede il sacrificio di tutti gli amori secondari.
Quiroga non vuole diventare la Bovary o il don Chisciotte della selva. Ma sa che il rischio è altissimo e conosce alla perfezione la doppia natura della propria anima. Per questo sa anche che il gioco vale la pena solo se giocato fino alle ultime conseguenze.

V. Non iniziare a scrivere senza sapere fin dalla prima parola dove andrai a finire. In un racconto ben fatto, le prime tre righe hanno quasi la stessa importanza delle tre ultime

Anche questo è un precetto che guarda molto al Poe della Filosofia della composizione. Il racconto è una macchina che deve funzionare, per il lettore. Il momento della scrittura non è quello dell’esperienza che lo precede. Lo scrittore non è l’uomo che vive e neppure quello che legge: esercita un mestiere che ha regole precise, come hanno mostrato i maestri, e quelle regole determinano altrettanti effetti. Il mestiere viene dopo il sangue, le lacrime e i sentimenti, ma avviene sulla pagina, altrimenti sangue, lacrime e sentire non hanno altre vie per arrivare al lettore. Bisogna essere consapevoli che nel momento del mestiere si hanno in mano strumenti che si chiamano righe, inizio, fine e molto altro. Questa sarà una delle lezioni di Quiroga che, al di là delle polemiche letterarie del momento, arriverà dritta alle nuove generazioni di scrittori. Uno su tutti, Julio Cortázar, che, per esempio, dedicherà ai finali dei propri racconti un’attenzione insistente, parlando come per una partitura musicale, di ritmo, di accelerazione, di virgole, tempi verbali, di ritorno chiave di singoli sostantivi, di scelte tecniche di sostantivi e aggettivi, di ripetizione, di «precipitazione» del racconto nel finale. Ciò di cui Quiroga dà qui magistrale esempio nel racconto breve Alla deriva, che narra di un uomo ferito a morte da un serpente, mentre cerca un’impossibile salvezza lasciandosi portare a valle dalla corrente del fiume immenso nello stesso tempo in cui l’infezione inesorabile avanza.

VI. Se vuoi esprimere con esattezza questa circostanza: «dal fiume soffiava un vento freddo», non esistono in nessuna lingua al mondo, per esprimerla, più parole di quelle annotate. Una volta padrone delle parole, non ti preoccupare se siano consonanti o assonanti

Nel 1903 Horacio Quiroga prende parte a una spedizione nel territorio di Misiones, al confine fra Argentina, Paraguay e Brasile, risalendo l’immenso fiume Paraná, il più grande dell’America Latina dopo il Rio delle Amazzoni. La spedizione, guidata da Leopoldo Lugones, ha per scopo trovare le rovine gesuitiche e fare rapporto sul loro stato di conservazione. Quiroga ha l’incarico di tenere un diario di viaggio e di scattare fotografie. Da un certo punto in poi, gli uomini devono procedere a dorso di mulo e aprirsi la strada a colpi di machete fino alle grandi cascate. «Un paesaggio dell’era primaria, – scriverà molti anni dopo Quiroga, – ruggente d’acqua, uragano e forze scatenate». L’uomo che parte da Buenos Aires è un dandy modernista che soffre di asma e colite; l’uomo barbuto che ritorna alla città, ma progetta di stabilirsi in quei territori selvaggi, è una profezia dello scrittore che ha trovato il suo mondo e la via della propria arte. Ciò che cercherà non sarà un «vivere in letteratura», ma, come farà dire al protagonista di Ritorno alla selva, la «vita integrale» che impone come «necessità e trionfo» il contatto diretto con la natura primaria: solitudine, lavoro instancabile, difficoltà estenuanti. In realtà, il nuovo Quiroga non lascerà più quei mondi. Tenta un’impresa agricola nel Chaco, ma poi torna a Misiones dove compra del terreno in un luogo solitario e difficile, «pura pietra» secondo i locali, ma con una splendida vista sull’aurorale Paraná. Va e viene dalla città, ma è e si sente residente a San Ignacio di Misiones.
Certo, per poter accedere alla «vita integrale» è necessario diventare «padrone delle parole» che possono definirla. Solo a questa condizione è possibile infrangere quel velo altrimenti insuperabile con cui «la natura vergine protegge la propria aggressiva nudità».
Le parole, prima ancora di essere belle, «consonanti o assonanti», devono essere vere. Non è una volontà estetica, ma, in quei territori, una necessità vitale: se non sai distinguere un serpente velenoso da uno che non lo è, puoi morire; se non sai capire le miglia di velocità del corso del fiume, puoi morire; se non sai costruirti una canoa, puoi perderti nella selva. In splendidi racconti, come Nella notte, Il ritorno di Anaconda, Il deserto, Un bracciante, Lo yaciyateré sono il fiume e la Selva, la loro indifferente immensità e spietatezza, a parlare, o meglio a essere letti da chi è padrone delle parole per poterli capire. A Conrad il mare, a Horacio Quiroga il Paraná. A Misiones, Quiroga capisce che si può prendere l’arte del racconto e rimetterla con i piedi per terra.

VII. Non aggettivare senza necessità. Inutili saranno tutti gli strascichi che tu aggiunga a un sostantivo debole. Se troverai quello preciso, esso, da solo, avrà un colore incomparabile. Ma bisogna trovarlo

Due incontri mostreranno a Quiroga il significato della precisione. Il primo avviene nel 1905, con un uomo, Luis Pardo, che è segretario di redazione della rivista «Caras y Caretas», settimanale di grande prestigio a Buenos Aires, con il quale collaborano alcune delle migliori firme del continente. Arrivare a pubblicare sulle sue pagine è un grande successo per Quiroga. Ma Luis Pardo è un maestro molto esigente. Obbliga Quiroga a un’estrema concisione, gli concede solo una pagina della rivista, che deve contenere un intero racconto e la relativa illustrazione. Quiroga impara alla sua scuola il valore di ogni singola parola, l’alchimia degli aggettivi, la brevità. Potrebbe essere di Luis Pardo l’ironica differenziazione fra racconto e romanzo che Quiroga inserirà nel suo ottavo precetto.
Il secondo incontro con la precisione Quiroga lo deve ancora a Misiones. In quella solitudine è necessario costruirsi anche gli oggetti del lavoro e della sopravvivenza. Se le sue imprese commerciali sono un disastro, Quiroga ha però una notevole abilità manuale. Inventa e costruisce una macchina per uccidere le formiche, una zappetta per il trapianto del mate, un meccanismo per la distillazione delle arance, organizza un giardino, si costruisce una casa, disegna e costruisce una canoa, pensando forse di diventare un «maestro di fiume». Misiones gli rende quotidianamente necessario quel suo talento per le cose esatte, che devono funzionare bene, come gli esperimenti scientifici, le corse in motocicletta, la curiosità per le scoperte tecniche che popolano anche la sua vita di città.

VIII. Prendi i personaggi per mano e conducili con fermezza fino alla fine, senza badare ad altro che al cammino che gli hai tracciato. Non ti distrarre vedendo ciò che essi non possono o non sono interessati a vedere. Non abusare del lettore. Un racconto è un romanzo depurato di pleonasmi. Abbi questa verità per assoluta, quantunque non lo sia

Tralasciando i personaggi dei racconti, per così dire, del mistero e del perturbante, che sono più funzioni dell’intreccio che figure a tutto tondo, e pensando solo a quelli della selva si potrebbe dire che sono uomini e animali di una specie particolare. Sono animali-uomini e uomini-animali. Pare non esistere gerarchia fra le due nature, solo, ancora una volta, una labile frontiera. Nel racconto Juan Darién, da cui non a caso abbiamo preso il titolo per questa raccolta, si dice che per la legge dell’Universo «tutte le vite hanno lo stesso valore», e poi che «la differenza fra gli umani e le tigri è una questione di cuore». In La patria c’è all’inizio una sintetica descrizione della «normalità della vita nella selva»:

Generazioni di animali si succedono una dopo l’altra e una contro l’altra in una stabile situazione di pace, poiché nonostante le lotte e gli spargimenti di sangue c’è qualcosa che regge l’equilibrio permanente della selva, e quel qualcosa è la libertà. Se le specie sono libere, nella selva regna la pace anche con gli spargimenti di sangue.
È nella «vita integrale» della selva che questa comunione terrestre prende verità. Impossibile altrove.

Ma partiamo dai due estremi. I migliori personaggi umani di Quiroga, o meglio di Misiones, sono generalmente «ex uomini», spesso incrocio di provenienze diverse e di vite possibili, tutte bruciate, frontiere incarnate e non più riconoscibili. Quiroga trova per loro una figura memorabile, «nati con l’effetto» li definisce, come le palle di biliardo, che toccano normalmente la sponda ma rimbalzano nei modi più inaspettati. Ne fa un breve sommario all’inizio del racconto Gli emigrati:

Così Juan Brown, che venne per qualche ora a vedere i ruderi e ci rimase venticinque anni; il dottor Else, che per colpa del distillato d’arancia scambiò sua figlia per un ratto; il chimico Rivet, che si spense come una lampada, stracolmo di alcol denaturato…

Tornano, questi personaggi, e incontrano pure loro simili in racconti come Magione-Tacuara, Il tetto d’incenso, I distillatori d’arance, sono vite consumate, senza più «letteratura», vite della disperanza, vite cioè senza speranza ma senza disperazione, elementi naturali con il volto d’uomo.
Gli ex uomini di Quiroga non supplicano, non spiegano, non piangono, come gli animali.
I personaggi animali di Quiroga, anche quando parlano come gli uomini, sono qualcosa che con l’uomo non ha nulla a che fare. Sono spesso serpenti, una delle specie più lontane dall’uomo, e spesso hanno un veleno letale. Nella pace insanguinata e indifferente della selva uomo e serpente si cercano e si uccidono, senza peccato e senza colpa. Non può che essere così. Il resto, potrebbe dire Quiroga, è letteratura. In Il ritorno di Anaconda, il grande serpente femmina sembra proteggere l’uomo ferito alla deriva dentro la piena del fiume, ma in realtà cerca solo un buon posto per le sue uova. Il colpo di fucile che la uccide è come un fulmine. Un evento nell’ambiente. La forza dei personaggi di Quiroga sta proprio nella sovrana indifferenza con cui i loro destini si incrociano, nel loro non derogare dal cammino che il narratore, la selva, la frontiera gli hanno tracciato.
Gli animali di Quiroga non supplicano, non spiegano, non piangono, come gli ex uomini.

IX. Non scrivere sotto il dominio dell’emozione. Lasciala morire, e quindi evocala. Se sarai capace, allora, di riviverla come fu, sarai a metà strada nel cammino dell’arte

Quiroga qui dice una cosa che dal pulpito della sua vita tormentata supera l’apparente ovvietà: quando si scrive non si vive, si sta seduti al tavolino a costruire un racconto. Implicitamente: per star seduti al tavolino a costruire un racconto è necessario vivere e provare emozioni. Non è mai bastato a nessuno scrivere per vivere, bisogna vivere per scrivere.

X. Non pensare agli amici quando scrivi, né all’impressione che farà la tua storia. Racconta come se la narrazione non avesse interesse che per il circoscritto ambiente dei tuoi personaggi, uno dei quali avresti potuto essere tu. Non altrimenti si ottiene la vita nel racconto

Questo è il precetto più amato da Julio Cortázar, che trovava nell’idea di «ambiente circoscritto» un modo eccellente per definire la forma chiusa dei racconti «contro il tempo». Cortázar aveva trovato da sé un equivalente nell’idea di «sfericità» del racconto. Il «sentimento della sfera» domina tutto il racconto, a cominciare dal narratore che potrebbe esser stato uno dei personaggi. Nessun commento, nessuna morale, nessuna interpretazione dall’esterno. Tutto viene giustificato dall’interno della forma così come tutto viene giustificato dalla legge universale della selva.

Nel 1937, Quiroga, che si sa malato terminale, si uccide a Buenos Aires con una dose di cianuro. Un veleno, anche se non proprio quello dei suoi amati serpenti. L’uomo che per tutta la vita ha scelto di diventare chi era, sceglie, in quel 19 febbraio 1937, di fare ciò che sarà.