Credo sia sotto gli occhi di tutti come la figura di Philip Roth abbia suscitato nel corso degli ultimi decenni un enorme interesse, che è sempre più cresciuto fino a culminare in una sorta di culto diffuso, un culto la cui liturgia culminava ogni anno nelle lamentele rituali per la mancata assegnazione del Nobel. Philip Roth è stato un grandissimo scrittore, questo è indubbio, ma non è certo stato l’unico dei nostri tempi, eppure per tanti motivi a un certo punto è toccato a lui più che a chiunque altro l’onore e l’onere di essere considerato lo scrittore per eccellenza, lo Scrittore con la S maiuscola, quello a cui era, ogni volta, una vergogna non aver dato il Nobel.
Philip Roth ha rappresentato in modo estremamente radicale, e al tempo stesso estremamente accessibile, una maniera di concepire il rapporto fra i libri e la vita che oggi pare destinata a scomparirePerché proprio lui? È questa la domanda da cui sono partito per quello che è diventato un viaggio in tre tappe attraverso i libri di Roth, seguendo un filo conduttore che credo possa fornire una chiave d’accesso agli strati più profondi della sua scrittura, ovvero la ricorrente presenza nei suoi romanzi di alcuni grandi scrittori del passato. Non si tratta certo dell’aspetto più evidente e celebrato della sua narrativa, ma proprio per questo può essere un modo per andare oltre alcuni diffusi stereotipi, alla scoperta di un Roth che non è solo un narcisista sessuomane e tendenzialmente misogino, un controverso anatomista dell’animo ebraico o un precursore dell’autofiction che oggi va per la maggiore.
Philip Roth, a me sembra, ha rappresentato in modo estremamente radicale, e al tempo stesso estremamente accessibile, una maniera di concepire il rapporto fra i libri e la vita che oggi pare destinata a scomparire, e in questo senso la sua morte acquisisce un valore simbolico, un significato di più ampia portata. Con lui sta morendo tutto un mondo, un mondo in cui per molte persone la vita traeva alimento, forza e luce dai libri, e a propria volta i libri traevano alimento, forza e luce dalla vita, in un circolo virtuoso che sembra in profonda crisi ora che la letteratura si sta trasformando in un’attività sempre più marginale, elitaria e anacronistica.
Il mio viaggio non comincia dall’inizio, dagli esordi di Roth, ma dal periodo credo meno frequentato della sua carriera, quello degli anni Settanta, che si aprono all’indomani del clamoroso successo di scandalo nel 1969 di Lamento di Portnoy – che quasi da un giorno all’altro fa diventare Roth ricco e famoso – e si chiudono nel 1979 con Lo scrittore fantasma, ovvero il primo romanzo della quadrilogia di Nathan Zuckerman, che riporterà per qualche anno l’autore sotto i riflettori. È una fase che si potrebbe definire “Roth scatenato”, riprendendo il titolo del libro Zuckerman scatenato, in cui appunto l’autore rielabora narrativamente quel periodo della sua carriera.
Alla fine degli anni Sessanta Lamento di Portnoy aveva rappresentato per Roth una svolta radicale, l’abbattimento di tanti steccati e la liberazione da tanti tabù. A quel libro seguirono, nella prima metà degli anni Settanta, tre libri molto meno fortunati, e anche molto meno riusciti, in cui Roth cercò di portare alle estreme conseguenze quel processo di emancipazione. Il Seno è un racconto lungo, o romanzo breve, in cui compare per la prima volta uno degli alter ego dell’autore, David Kepesh, e narra, sul modello della Metamorfosi di Kafka e del Naso di Gogol’, una storia alquanto bizzarra, ovvero la trasformazione del corpo del protagonista in un seno femminile. La nostra gang è una satira della presidenza Nixon (scritta, profeticamente, prima del Watergate), in cui lo stile oratorio del presidente e dei suoi collaboratori viene parodiato con la massima irriverenza. Il Grande Romanzo Americano, infine, è una sorta di lunga comica, ambientata nel mondo del baseball negli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, in cui a essere parodiato è il linguaggio dei cronisti sportivi dell’epoca, con tutto il suo carico di retorica, enfasi e patriottismo.
È proprio nel Grande Romanzo Americano che, per la prima volta nella narrativa di Roth, compare uno «scrittore fantasma»Per molti versi Il Grande Romanzo Americano somiglia a La nostra gang, ma la grande differenza è che, mentre La nostra gang sbeffeggia un mondo che Roth odiava e avrebbe voluto veder scomparire, quello della destra repubblicana moralista e ipocrita, Il grande romanzo americano sbeffeggia un mondo che Roth adorava e conosceva alla perfezione, quello del «nostro passatempo nazionale», come viene ripetutamente chiamato nel libro. Ed ecco che entriamo qui nel vivo del discorso, ovvero nella tipica complessità rothiana, uno dei cui comandamenti è proprio questo: metti in ridicolo quello che ami, metti in dubbio quello in cui credi, metti in crisi quelli che sono i tuoi punti fermi, duella, in altre parole, coi tuoi mostri sacri.
È proprio nel Grande Romanzo Americano che, per la prima volta nella narrativa di Roth, compare uno “scrittore fantasma”, ovvero un grande autore del passato che rivive come personaggio interagendo coi protagonisti del libro. In questo caso si tratta di Ernest Hemingway, uno scrittore che qui funge da personificazione della letteratura americana in generale, e soprattutto dell’ambizione di scrivere il Grande Romanzo Americano, ovvero quel capolavoro assoluto, quell’incarnazione definitiva e onnicomprensiva dell’essenza americana, che da due secoli è la Balena Bianca di tanti scrittori statunitensi – quel romanzo serio, saggio, profondo che è l’esatta antitesi del Grande Romanzo Americano pubblicato da Roth nel 1973 (ma non di Pastorale americana, che Roth pubblicherà venticinque anni dopo).
Il narratore della storia narrata nel libro, Word Smith – un nome che è un gioco di parole fatto nome, dato che letteralmente significa “fabbricatore di parole” e ha, come il narratore stesso fa notare, le stesse iniziali di William Shakespeare –, è un giornalista sportivo con ambizioni letterarie. Nelle prime pagine del libro, lo troviamo a pesca col suo amico Ernest Hemingway.
Dopo avere lottato per quarantacinque minuti con un marlin al largo della costa della Florida ed essere riuscito finalmente a tirarlo abbastanza vicino alla barca per consentire al quindicenne cubano che era il nostro compagno di pesca di afferrarne la spada con le mani guantate, fargli scavalcare il parapetto e spedirlo nel paradiso dei pesci vela con un colpo ben assestato di una mazza da baseball […], il mio vecchio amico (e nemico) Ernest Hemingway mi disse (l’anno è il 1936, il mese è marzo): – Frederico, – era questo il modo da duro che aveva Hem di mostrarmi il suo affetto, chiamandomi con un nome che non era il mio, – Frederico, sai chi è il figlio di puttana che scriverà il Grande Romanzo Americano?
– No, Hem. Chi?
– Tu. (p. 28)
A questa solenne investitura seguono una quindicina di pagine di schermaglie fra i due, al termine delle quali, in una scena che si svolge in un ufficio postale, e che gli darà l’occasione di pronunciare la battuta «se ho un messaggio da trasmettere, lo spedisco con la Western Union», Papa (come Hemingway veniva chiamato) giungerà alla conclusione che a scrivere il Grande Romanzo Americano sarà lui, e non Word Smith (e quindi, per traslato, Philip Roth). E a questo punto esce di scena.
Ernest, non l’avrei mai più visto. Ogni tanto ricevevo da lui una cartolina natalizia, qualche volta dall’Africa, qualche volta dalla Svizzera o dall’Idaho, scritta ovviamente tra i fumi dell’alcol, che diceva sempre più o meno la stessa cosa: usa di nuovo il mio stile, Frederico, e ti ammazzo. Ma, naturalmente, alla fine l’uomo che Hem uccise perché usava il suo stile fu se stesso. (pp. 40-1)
La tecnica dello scrittore fantasma viene ripresa da Roth, in modo più complesso e, mi pare, più interessante, in un altro testo uscito nello stesso anno e dedicato uno degli autori a lui più cari, forse il più caro in assoluto, Franz Kafka.
Kafka aveva fatto la sua prima apparizione nelle pagine di Roth in Lamento di Portnoy, citato en passant in un brano in cui il protagonista, Portnoy, cerca di spiegare al suo psicanalista l’attrazione che provano per gli ebrei alcune ragazze gentili, o shikse, come Roth preferisce dire adoperando la parola yiddish.
Il Cavaliere sul Grande Destriero Bianco, il giovane nell’Armatura Lucente che, nei sogni delle ragazzine, sarebbe accorso a liberarle dalle torri in cui si immaginavano sempre di essere imprigionate, ebbene, per quanto riguarda una certa scuola di shikse […], questo cavaliere si rivela null’altro che un intelligente ebreo con il naso a becco e la calvizie incipiente, con una forte coscienza sociale e peli neri sulle balle, che non beve, non gioca, non mantiene ballerine; un uomo che le darà, garantito, bambini da reggere e Kafka da leggere: un autentico Messia domestico! (p. 128)
Pochi anni dopo, Kafka ricompare nel Seno. Il professor David Kepesh tiene all’università corsi su Gogol’ e Kafka, e si domanda se la sua sconcertante trasformazione in una ghiandola mammaria non derivi da un’eccessiva identificazione con l’oggetto dei suoi insegnamenti.
– Ma, vede, ho pensato: «L’ho preso dalla letteratura». I libri che insegno – sono stati loro a mettermi l’idea in testa. Sto pensando al mio corso di Letteratura europea. Insegnare Gogol’ e Kafka ogni anno… insegnare Il naso e La metamorfosi.
– Naturalmente molti altri professori insegnano Il naso e La metamorfosi.
– Ma forse, – dissi, – forse non con la mia stessa convinzione. (p. 45)
«Ho reso la parola carne», dirà a un certo punto Kepesh. «Sono più kafkiano di Kafka» (p. 53). E «rendere la parola carne» è proprio quel che Roth cerca di fare nel testo dedicato a Kafka cui accennavo prima, «Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno» (testo che, certo non a caso, apre il testamentario ultimo libro pubblicato in vita da Roth, Perché scrivere?). Si tratta di un inconsueto ibrido fra saggio e racconto, un ippogrifo che, dopo una prima metà in cui l’autore riflette in modo serio e scrupoloso sulla vita e le opere dello scrittore in questione, all’improvviso cambia completamente registro.
1942. Ho nove anni; il mio insegnante alla scuola di ebraico, il dottor Kafka, ne ha cinquantanove. Dai ragazzini che ogni pomeriggio devono frequentare la sua lezione «dalle quattro alle cinque», viene chiamato – in parte perché è straniero, remoto e malinconico, ma soprattutto perché sfoghiamo su di lui il nostro risentimento per dover imparare un’antica calligrafia proprio nell’ora in cui dovremmo essere fuori a giocare a baseball e urlare a squarciagola –, viene chiamato dottor Kishka. Nome affibbiato, lo confesso, da me. Il suo alito cattivo, che alle cinque del pomeriggio è aromatizzato dai succhi intestinali, rende a mio parere estremamente appropriata la parola yiddish per «interiora». (pp. 14-5)
Roth immagina infatti che Kafka non sia morto a quarant’anni nel 1924, ma sia vissuto abbastanza da assistere all’ascesa del nazismo, e sia riuscito per tempo a fuggire oltreoceano, finendo, guarda caso, a fare l’insegnante di ebraico proprio nella sinagoga di Newark, la città natale di Roth.
A casa, da solo nel bagliore della mia lampada da «scrivania» a collo d’oca (collegata dopo cena a una presa della cucina, il mio studio), la visione del nostro insegnante profugo, magro come uno stecco nel suo sfilacciato abito blu con panciotto, non è più tanto buffa – soprattutto da quando l’intera classe del primo anno di ebraico, di cui io sono l’alunno più studioso, ha cominciato a chiamarlo Kishka. Il mio senso di colpa risveglia eroiche fantasie redentrici, fantasie che spesso nutro riguardo agli «ebrei in Europa». Devo salvarlo. Se non io, chi? […] E se non ora, quando? Perché nelle settimane seguenti ho appreso che il dottor Kafka abita in una stanza nella casa di un’anziana signora ebrea nello squallido tratto inferiore di Avon Avenue, dove ancora corre il tram e vivono i più poveri fra i neri di Newark. […] Spargendo lacrime di vergogna e di sofferenza, mi precipito in soggiorno per raccontare ai miei genitori quel che sono venuto a sapere […]: – Il mio insegnante di ebraico vive in una stanza.
Invitalo a cena, dice mia madre. Qui? Certo, qui… venerdì sera; di sicuro non gli dispiacerà un pasto casalingo, dice, e un po’ di buona compagnia. E subito mio padre tira su il telefono per chiamare la zia Rhoda. (pp. 16-7)
Comincia così la liaison fra questo Kafka in esilio, questo scrittore fantasma, e la zia di Roth. Non racconterò qui come la storia va a finire, ma quel che mi preme sottolineare è come l’evocazione del fantasma di Kafka funga per Roth appunto da «fantasia redentrice». Non solo lo scrittore praghese sopravvive per diventare un contemporaneo del piccolo Roth, non solo sfugge, oltre che a una morte precoce, anche agli orrori dell’Olocausto, ma il bambino ebreo che ha avuto la fortuna di crescere dalla parte giusta dell’Atlantico «deve salvarlo». Se non ora, quando? Qui Roth imbocca la strada che porterà all’ancor più elaborata fantasia redentrice narrata nello Scrittore fantasma.
Ma restiamo ancora per un tratto in compagnia di Kafka. In La mia vita di uomo, il lungo romanzo cui Roth aveva faticosamente lavorato per tutti i primi anni Settanta mentre in contemporanea scriveva i libri della fase “scatenata”, Kafka è uno degli autori letti e insegnati dal protagonista, Peter Tarnopol. Nel libro successivo, poi, Professore di desiderio, l’autore praghese torna a rivestire un ruolo di primo piano. Il professore in questione, che altri non è che il David Kepesh del Seno, è letteralmente ossessionato da Kafka, o meglio dal suo fantasma.
Ai suoi studenti, naturalmente, tiene un corso su di lui, dando loro da leggere «tutti i romanzi e i racconti, i diari, la biografia scritta da Max Brod e le lettere a Milena e al padre» (inutile dire che oggi nessun professore universitario oserebbe tanto). Inoltre assegna loro il seguente compito: «Immaginate di essere Max Brod e di scrivere una lettera al padre di Kafka spiegando cosa passa per la mente al vostro amico» (p. 150). Verso la fine del romanzo Kepesh ha l’occasione di visitare Praga, e non se la lascia sfuggire (così come Philip Roth non si era lasciato sfuggire un’occasione analoga nel 1972, una prima visita cui ne sarebbero seguite parecchie altre).
Appena arrivato in città insieme alla nuova compagna Claire Ovington, Kepesh si reca in pellegrinaggio nei principali luoghi kafkiani e, parlando con gli scrittori locali perseguitati dal regime, apprende come ai loro occhi Kafka sia stato «un meticoloso realista» (p. 151). Per finire si reca, scelta quanto mai appropriata, al cimitero ebraico.
Il cimitero ebraico è circondato da un alto muro che confina da un lato con un cimitero cristiano molto più esteso […] e dall’altro con un anonimo stradone percorso da file di camion che vanno e vengono dalla città. Il cancello del cimitero ebraico è chiuso con una catena. La scuoto chiamando in direzione di quella che sembra la casa di un custode. Dopo un po’ ne emerge una donna con un bambino. Dico in tedesco che siamo venuti in aereo da New York per vedere la tomba di Franz Kafka. Sembra che abbia capito, ma dice di no, non oggi. Tornate martedì, dice. Ma sono un professore di letteratura, ebreo, spiego, e le allungo una manciata di corone fra le sbarre del cancello. Compare una chiave, il cancello si apre e il bambino viene incaricato di accompagnarci. […]
Fra tutte le cose possibili, a distinguere i resti di Kafka c’è una lapide in pietra bianca alta e stretta – diversa da qualunque altra nelle vicinanze – che punta verso il cielo il suo glande appuntito: un fallo come pietra tombale. Questa è la prima sorpresa. La seconda è che il figlio tormentato dalla famiglia è – pure! – sepolto per sempre nel mezzo fra la madre e il padre che gli erano sopravvissuti. Prendo un sasso dall’acciottolato e lo poso su uno dei mucchietti accatastati dai pellegrini che mi hanno preceduto. Non ho mai fatto altrettanto per i miei nonni, sepolti insieme ad altri diecimila accanto a una superstrada a venti minuti dal mio appartamento di New York, e neanche per mia madre, alla cui tomba ombreggiata da un albero sulle Catskill non ho più rimesso piede da quando ho accompagnato mio padre allo scoprimento della lapide. Le scure lastre rettangolari intorno alla tomba di Kafka portano familiari nomi ebraici. Mi sembra di sfogliare la mia rubrica telefonica, o di guardare oltre le spalle di mia madre la lista degli ospiti registrati all’Hungarian Royale: Levy, Goldschmidt, Schneider, Hirsch… (pp. 157-8)
Questa visita parrebbe sortire un effetto positivo sulla delicata sensibilità del protagonista.
Mentre saliamo sul tram e ci sediamo uno accanto all’altra, prendo la mano di Claire, e a un tratto mi sento liberato da un altro fantasma, dekafkaizzato dal pellegrinaggio al cimitero. (p. 161)
Si scoprirà presto che il fantasma non è stato davvero esorcizzatoDi fatto, si scoprirà presto, il fantasma non è stato davvero esorcizzato, tanto che durante la notte Kepesh fa un lungo e scurrile sogno in cui va a trovare la «puttana da cui andava Kafka» (p. 168) e la interroga sulle preferenze sessuali dell’illustre scrittore. E il fantasma di Kafka allungherà la sua ombra anche sul libro successivo di Roth, quello che porta appunto il titolo Lo scrittore fantasma. In questo caso però lo scrittore fantasma del titolo non è Kafka, ma uno dei personaggi più inquietanti, affascinanti e misteriosi usciti dalla penna di Roth.
Nel breve romanzo, che si svolge nel dicembre del 1956, il giovane Nathan Zuckerman, a una delle sue prime apparizioni (era comparso per la prima volta, come protagonista dei racconti scritti da Peter Tarnopol, in La mia vita di uomo), si reca in visita nella casa, sperduta nella campagna del New England, del suo mentore, il venerato, appartato e ascetico E. I. Lonoff. Ma in quell’isolata dimora trova una sorpresa. Oltre alla moglie Hope, nella casa vive qualcun altro.
Fu a questo punto che davanti a me apparve la bellissima donna-bambina. […] La moglie di Lonoff, la donna dai capelli bianchi che si era eclissata subito dopo avermi fatto entrare, aveva aperto la porta dello studio che dava sul vestibolo proprio davanti al soggiorno, ed eccola là, capelli neri e copiosi, occhi chiari – grigi o verdi – e una fronte ovale prominente che sembrava quella di Shakespeare. Era seduta sul tappeto tra pile di giornali e di cartelle, coperta da una gonna di tweed […] e da un largo maglione di lana bianca; le gambe erano pudicamente piegate sotto la distesa della gonna e lo sguardo era fisso su qualcosa che si trovava chiaramente altrove. Dove avevo già visto quella severa bellezza bruna? (p. 14)
«Dove avevo già visto quella severa bellezza bruna?» Nathan ci mette un po’ a ricordarsene. All’inizio presume che si tratti della figlia di Lonoff, ma capisce che non è così quando la ragazza gli viene presentata come Amy Bellette, «la migliore allieva» del corso di scrittura tenuto da Lonoff all’università. Nathan non si trattiene dal commentare.
– Non riuscirei a non perdere la testa, se insegnassi in una scuola frequentata da ragazze così belle, simpatiche e dotate.
Al che Lonoff rispose seccamente: – Non dovrebbe farlo, allora. (p. 24)
Dopodiché, durante la cena, Nathan mette insieme qualche altro tassello: Amy è una profuga, una rifugiata giunta dall’Europa nell’immediato dopoguerra. Poi, durante la notte (il giovane scrittore si è infatti fermato a dormire nella casa del suo mentore) sente provenire dal piano di sopra prima le parole concitate di un litigio fra Lonoff e la moglie, poi quelle sussurrate di Amy. A quel punto si arrampica sullo scrittoio del padrone di casa e, per origliare meglio, guadagna «ancora qualche centimetro» infilandosi sotto i piedi un grosso volume di racconti di Henry James (e anche questo non è un caso). Ed ecco cosa ode.
– Io ti amo. Ti amo tanto, paparino. Non c’è nessun altro come te. Sono tutti così stupidi.
– Sei una brava ragazza.
– Fammi sedere sulle tue ginocchia. Tienimi un po’ tra le braccia e starò bene.
– Stai già bene. Alla fine tu stai sempre bene. Sei la grande superstite.
– No, sono solo la più forte dei deboli della terra. (p. 96)
A questo punto c’è uno scarto che ricorda quello di «Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno». Si passa a un nuovo capitolo, dal titolo Femme fatale, che comincia così:
Era passato solo un anno da quando Amy aveva raccontato a Lonoff tutta la sua storia. Piangendo istericamente, una volta gli aveva telefonato dal Bilmore Hotel di New York; da quello che lui riuscì a capire, era venuta giù in treno da Boston, da sola, quel mattino, per assistere alla rappresentazione pomeridiana di uno spettacolo teatrale, pensando di tornare a casa in treno prima di sera. Invece, dopo essere uscita dal teatro aveva preso una stanza in un albergo, dove da allora era sempre rimasta «nascosta».
A mezzanotte, Lonoff aveva appena finito la sua lettura serale ed era andato a letto, quando si mise al volante e partì in direzione sud. Alle quattro era in città, alle sei Amy gli aveva detto che quella che era venuta a vedere a New York era la riduzione teatrale del Diario di Anne Frank, ma passò mezza mattina prima che riuscisse a spiegare con un minimo di coerenza che rapporto c’era tra lei e quella nuova commedia di Broadway. (p. 100)
Il rapporto «tra lei e quella nuova commedia» è molto stretto, perché in queste pagine Amy Bellette è Anne Frank. Anne Frank non è morta nel 1945 nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, ma è riuscita a sopravvivere e, dopo la guerra, a emigrare negli Stati Uniti, senza rivelare a nessuno la sua vera identità, perché il suo Diario avrebbe perso di pathos se mai si fosse scoperto che «la più famosa fra tutti gli scrittori ebrei, da Franz Kafka a E. I. Lonoff» (p. 124) era ancora viva.
Il capitolo Femme fatale termina dopo una ventina di pagine, e al capitolo successivo ritroviamo i quattro protagonisti, Lonoff, Hope, Amy e Nathan, a tavola insieme, a fare colazione «come una famiglia felice» (p. 127), come la famiglia che aveva accolto Kafka in «Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno». Del resto è lo stesso Nathan a esplicitare la somiglianza fra i due mostri sacri.
Pensavo, – il pensiero mi era venuto solo allora, nell’estasi in cui mi aveva gettato la possibilità di tessere le lodi di Anne Frank davanti a una persona che forse poteva essere lei, – che è come un’ardente sorellina di Kafka, la sua sorellina perduta: la loro affinità si vede anche dalla faccia, credo. Le soffitte e i bugigattoli di Kafka, le stanze segrete dove si stilano le accuse, le porte camuffate… Tutto ciò che lui ha sognato a Praga era, per lei, la sua vera vita ad Amsterdam. Ciò che lui ha inventato, lei ha sofferto. Ricordate la prima frase del Processo? […] Potrebbe essere l’epigrafe del suo Diario. «Qualcuno doveva aver calunniato Anne F. perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina la misero agli arresti». (p. 138)
Nel protagonista del romanzo la sconvolgente rivelazione notturna riguardo all’identità della misteriosa Amy Bellette mette in moto una fantasia compensatoria ancora più radicale (e ancora più spassosa) di quella immaginata in «Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno». Bisogna tenere presente che il giovane Zuckerman, come il giovane Roth, ha subito l’ostracismo dell’establishment ebraico dopo aver pubblicato i suoi primi, scandalosi, racconti, e che inoltre, a differenza di Roth, lo scandalo gli ha alienato anche la stima dei suoi genitori, che non riconoscono più il «bravo ragazzo ebreo» che credevano di aver cresciuto. Ebbene, adesso il signore e la signora Zuckerman avranno pane per i loro denti.
Avevo passato la notte senza chiudere occhio, e ora non riuscivo a pensare con chiarezza né a loro né a me, e neppure a Amy, come la chiamavano. Continuavo a vedermi tornare nel New Jersey e dire ai miei: – Mentre ero nel New England ho incontrato una ragazza meravigliosa. Io la amo e lei mi ama. Vogliamo sposarci. – Sposarvi? Ma così in fretta? Nathan, è ebrea? – Sì, certo. – Ma chi è? – Anne Frank. […]
Anne, dice mio padre: quell’Anne? Oh, come mi sono ingannato su mio figlio. Oh, come ci siamo sbagliati! (pp. 128-9)
Fine prima parte.
Norman Gobetti è il traduttore di Philip Roth oltre che, tra gli altri, di Mohsin Hamid, Daniel Mendelsohn, Aravind Adiga e, con Anna Nadotti, di Amitav Gosh.
Chi è stato Evan S. Connell? La vita appartata di uno dei maestri segreti della letteratura americana e la riscoperta del suo capolavoro.
James, Mann, Woolf, Flaubert, Dostoevskij: quali sono le influenze e le ambizioni letterarie dei protagonisti dei romanzi di Philip Roth (e di Roth stesso)? Torna Philip Roth raccontato da Norman Gobetti. In questo incontro il traduttore ci parla degli scrittori modello che hanno influenzato, ossessionato, ispirato le pagine del gigante di Newark.