L’Istituto Van Leer dove ci troviamo, mi è particolarmente caro e lo considero importante per molte ragioni, ma ne citerò solo due. Una è legata al presente e l’altra risale a un lontano passato.
Innanzitutto, ritengo che l’istituto svolga un’attività significativa perché contribuisce ad approfondire le questioni legate al conflitto israelo-palestinese, offrendo a studiosi e accademici di entrambe le parti la piattaforma, la visibilità e l’opportunità di esprimersi.
La seconda ragione, per quanto strano possa sembrare, risale ai giorni che precedono la fondazione dell’istituto e la costruzione dei palazzi circostanti: il Palazzo presidenziale, l’Accademia delle scienze, il Teatro di Gerusalemme. In questo luogo, che ora è il vanto della capitale d’Israele, una volta si stagliava una tipica collina rocciosa di Gerusalemme. La casa dei miei genitori era poco distante. Vivevo lì quando iniziai gli studi all’Università Ebraica dopo essermi congedato dall’esercito, e fu allora che cominciai a scrivere, con considerevole lentezza, i miei primi racconti brevi. Ogni volta che la scrittura si “bloccava”, mi arrampicavo su quella collina, dove svettava un unico ulivo, basso e vetusto, al quale mi ostinavo a chiedere ispirazione, finché nel racconto Le nozze di Galia l’ulivo non è diventato l’autista dell’autobus che il travagliato protagonista prende per recarsi al matrimonio dell’amata che l’ha respinto.
1
Molti considerano L’urlo e il furore, il famoso romanzo di William Faulkner del 1929, come un importante punto di svolta nella storia del romanzo moderno; e c’è chi lo paragona persino alla Terza Sinfonia di Beethoven, che ha sancito la nascita del nuovo linguaggio sinfonico, in grado di descrivere l’intero universo e non solo gli aggraziati scenari di un piccolo mondo ben riparato dalle tragedie della vita, il mondo ideale di una corte reale o aristocratica. Come una sinfonia, L’urlo e il furore è composto di quattro capitoli. I primi tre sono i monologhi interiori dei fratelli Compson, Benjy, Quentin e Jason, mentre il quarto capitolo, scritto interamente in terza persona, ha come protagonista Dilsey, la governante di colore, la colonna che sostiene la famiglia bianca caduta in rovina.
Il primo capitolo, il monologo di Benjy, è un testo incredibilmente complesso. Non solo si muove senza segnali o preavvisi tra tempi e periodi diversi, ma dà anche libero sfogo al flusso di pensieri confusi e caotici di un adulto con l’età mentale di un bimbo di tre anni. Tutti gli eventi familiari verificatisi negli anni diventano per Benjy un impasto che ha il sapore dell’ardente nostalgia per Caddy, l’amata sorella che ha lasciato la famiglia. Per tranquillizzarlo, i domestici di colore che si occupano di Benjy gli danno una vecchia pantofola di Caddy con cui si consola e lenisce il dolore della nostalgia. È solo nel quarto capitolo che veniamo a sapere come “il bambino”, la cui dolente nostalgia Faulkner ha così abilmente condiviso con il lettore, appare veramente agli occhi degli altri. Ed è così che appare:
…poi si aprì la porta a vento ed entrò Luster, seguito da un omone che sembrava essere stato plasmato con una sostanza le cui particelle non volevano o non potevano aderire l’una all’altra o allo scheletro che la sosteneva. La pelle era smorta e glabra; idropico, aveva un’andatura goffa e incerta come quella di un orso ammaestrato.
(William Faulkner, L’urlo e il furore, trad. di Vincenzo Mantovani, Mondadori, Milano, 1980)
Ecco come Faulkner riesce a far sì che un personaggio terrificante faccia breccia nel cuore del lettore conquistandosi affetto e compassione.
Faulkner in seguito ha scritto un saggio autobiografico in cui ha definito il monologo di Benjy come la cosa più importante e profonda che sia mai riuscito a scrivere, aggiungendo di sapere che, dopo di ciò, non avrebbe mai più potuto toccare quella vetta di scrittura. Bisogna ammirare la nobiltà dello scrittore che riconosce l’apice della propria scrittura, consapevole di non poterlo nuovamente raggiungere, anche perché non intende entrare in competizione con se stesso.
Sono partito da Faulkner, che ha significato molto per me (dopo essermi svincolato da Agnon), perché, scegliendo l’argomento della conferenza con cui mi congedo da voi, voglio sottolineare che il quinto dialogo del romanzo Il signor Mani (dalla cui pubblicazione nel 1990 quest’anno si celebrano trent’anni) è, a mio giudizio e a mio sentire, il testo più importante che ho scritto. Dopo di esso, non sono più stato in grado – e in realtà non ho nemmeno cercato – di ripetere quel livello di profondità.
Non si tratta soltanto di profondità linguistica – il linguaggio del capitolo era denso, anche di citazioni (soprattutto dai Pirke Avot, Le massime dei padri che ho studiato con mio nonno) – ma di una profondità legata specialmente alla figura del protagonista, il cinquantenne Abraham Mani, un uomo complesso, che, dopo essere stato complice dell’omicidio del figlio, giace con la nuora vedova e finisce con l’affrettare persino la morte del “suo Dio”, una volta annunciata l’intenzione di suicidarsi. Una figura così criminale e audace non era mai stata creata prima dalla mia tastiera (proprio nel bel mezzo della stesura de Il signor Mani sono passato dalla macchina da scrivere al computer grazie all’incoraggiamento e all’aiuto del mio caro amico, lo scrittore Yehoshua Kenaz), né mai più lo sarebbe stata.
Da dove è spuntato Abraham Mani? Da quale parte di me è scaturito quel suo umorismo da forca? Credo di averne scoperto l’origine solo di recente, proprio mentre preparavo questa conferenza: viene da Smerdjakov de I fratelli Karamazov, il quarto e illegittimo figlio del vecchio Karamazov, che vive in casa del padre un poco come servo, un poco a mo’ di complice dei vizi del vecchio libertino, odiato dai due figli adulti. Il debosciato Mitja (Dimitrji) e il cupo intellettuale Ivan, desiderano infatti entrambi la morte del padre, così Smerdjakov lo uccide “per loro”, in loro nome per così dire. È lui ad uccidere il padre “per fare un favore” ai due fratelli più grandi. Ma dopo aver rivelato l’omicidio a Ivan, Smerdjakov si suicida cosicché Ivan non riesce a far assolvere il fratello Dimitrji al processo che lo vede ingiustamente accusato di aver ucciso il genitore.
La confessione di Smerdjakov a Ivan è un capolavoro d’inganno. Trasuda astuzia, insolenza, è piena di ragionamenti sottili e complessi, e di una sorta di rozza innocenza. È lui che mi ha inconsciamente ispirato a scrivere la confessione di Abraham Mani al suo rabbino, Haddaya (il cui nome, in un misto di arabo ed ebraico, significa: «Questo è il Dio!»).
Ho aggiunto al mio Smerdjakov mediterraneo qualche termine ladino (pisgado, pustema, calabaza) che ho colto a casa di mio zio, l’avvocato Meir Genio, da un ospite abituale. Quest’ultimo, che probabilmente era membro della compagnia funebre della comunità sefardita di Gerusalemme, era un uomo eclettico, che mescolava il ladino e l’ebraico, mentre la sua particolare voce roca ben si prestava a divertenti imitazioni da parte dei miei cugini.
Eppure tuttora non capisco fino in fondo come questa sinistra canaglia sia finita nel quinto dialogo che chiude Il signor Mani. I cinquantenni protagonisti di altri miei romanzi – Adam in L’amante, Molcho in Le cinque stagioni, Rivlin in La sposa liberata, Yair Moses in La scena perduta e persino Moshe Mani, il figlio-nipote di Abraham Mani, pur differenti tra loro, oscillano tutti entro un registro morale e sociale ben definito. Di contro, Abraham Mani sembra uscito da un mondo completamente diverso: non è solo un adultero e un assassino che ha trasgredito a due gravissimi divieti della Torah – «Non uccidere» (Esodo 20, 13) e «Non scoprirai la nudità di tua nuora» (Levitico 18, 15) – ma è anche un ebreo che intende sconvolgere, se non proprio togliere di mezzo, il suo Dio.
2.
Ma passiamo alla fase in cui il romanzo nel suo insieme viene concepito e vede la luce. Nel 1982 avevo pubblicato il mio secondo romanzo, Un divorzio tardivo, strutturato in dieci monologhi. In uno di essi avevo sperimentato per la prima volta le potenzialità sottese di quello che potremmo definire un dialogo a senso unico, vale a dire un dialogo in cui si sente la voce di un solo interlocutore (che afferma e rivolge domande), mentre sta al lettore intuire le risposte dell’altro destinatario. Si tratta del monologo di Rafael Calderon, un impiegato di banca sefardita di mezza età, che scopre la propria latente omosessualità e cerca con disperata dolcezza, ma inutilmente, di ammorbidire il cuore dell’amante molto più giovane, sorprendendolo con una visita inaspettata a tarda ora. Le ambigue risposte del giovane indifferente, che ha come unico interesse i consigli che l’anziano seccatore può elargirgli su questioni finanziarie e di borsa, non ci pervengono. Si è trattato di un breve e modesto esperimento che è servito a rivelarmi l’efficacia di questa forma artistica. Il dialogo a senso unico “funziona”. Vale la pena di tanto in tanto far partecipare attivamente il lettore allo svolgimento del racconto, perché si lascia coinvolgere più profondamente nell’opera e nei personaggi quando gli viene consentito, e forse anche richiesto, di riempire gli spazi vuoti con l’immaginazione. All’epoca i lettori risposero affermativamente al mio piccolo esperimento e fu per questo che presi una decisione audace, persino pericolosa. Decisi di sobbarcarmi un’impresa gravosa – un romanzo pseudo-storico, composto di cinque lunghi e articolati dialoghi a senso unico, ciascuno dei quali si svolge in un diverso momento storico, in un luogo diverso e tra personaggi distinti. Ciascun dialogo ha un unico interlocutore, mentre al lettore si chiede di completare con l’immaginazione i commenti di chi dovrebbe rispondere. E come se ciò non bastasse, mi sobbarcai un’altra difficoltà: costruire un tempo narrativo “a senso inverso”, cioè dal presente al passato, lungo un arco di tempo di poco più di centocinquant’anni.
Partii proprio dal terzo dialogo che si svolge a Gerusalemme, nel 1918, tra un ufficiale della procura militare britannica, il tenente ebreo Stephen Horowitz, e il colonnello inglese Michael Woodhouse. L’argomento del dialogo è il tradimento dell’interprete, l’ebreo di Gerusalemme Josef Mani, risalente all’anno precedente, quando l’esercito di Allenby aveva occupato la regione meridionale del paese (Gerusalemme compresa), mentre quella settentrionale ed orientale oltre il Giordano erano rimaste in mano all’esercito ottomano e ai suoi consiglieri tedeschi. Josef Mani, emotivamente scosso dalla recente Dichiarazione Balfour, comprende che essa pone le basi per un conflitto senza fine tra gli ebrei e gli arabi che abitano il paese e intende pertanto esortare i palestinesi a richiedere un’analoga dichiarazione, assieme a una “dimora nazionale” anche per loro. In altre parole, concepisce l’idea di dividere la Terra d’Israele in due Stati prima della Shoah per limitarne i danni, cercando quindi di convincere gli arabi d’Israele dell’urgenza politica che grava su di loro in quel frangente. Josef attraversa le linee del fronte tra gli eserciti, raggiunge i villaggi arabi per parlare alle orecchie degli abitanti, che nulla comprendono dei suoi discorsi. Per fare in modo che i comandanti dell’esercito turco lo lascino agire e costringano i contadini a dargli ascolto, porta loro informazioni e materiali segreti dell’esercito britannico, giunti in suo possesso in qualità di interprete militare. Per tale motivo viene catturato ed è in attesa di venire processato per tradimento dinnanzi a un tribunale militare.
Erano gli anni Ottanta. In Israele la cosiddetta “opzione giordana” (cioè la possibilità di risolvere il conflitto israelo-palestinese restituendo i “territori” occupati, o parte di essi, al regno hashemita) era stata affossata in modo irreversibile da Golda Meir e dal suo entourage, a conferma che l’unica soluzione possibile del conflitto era che ci fossero due Stati in terra d’Israele. Già nelle elezioni del 1977, quelle del cosiddetto “capovolgimento”, mi ero unito al movimento “Shelì” di Lova Eliav, che rivendicava il riconoscimento dell’Olp come legittimo rappresentante del popolo palestinese e voleva convincerlo ad accontentarsi di uno Stato palestinese che occupasse solo una parte d’Israele. Negli anni Ottanta si trattava di una soluzione realistica e praticabile. Non dimentichiamo che quando la sinistra consegnò le redini del governo al Likud con la leadership di Menachem Begin, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza non vivevano più di tremila coloni. Così stavano le cose prima che Begin iniziasse a riempire l’intera regione con decine di nuovi insediamenti alla stregua di “Elonei Mamre” (Genesi 18: 1-8).
Ricordo che all’epoca girava la foto di un belga e un francese che giocavano a carte la cui didascalia recitava: il confine tra Belgio e Francia passa sotto il tavolo. All’epoca immaginavo ingenuamente di poter giocare a backgammon con un palestinese, mentre il confine tra Israele e Palestina correva pacificamente sotto il tavolo.
Ma il partito Shelì, che contava tra i candidati nomi di famosi scrittori, attori, intellettuali e artisti, alla fine ottenne meno voti di Flatto-Sharon che, fuggito dal fisco francese, si era candidato alla Knesset per ottenere l’immunità che lo avrebbe salvato dalla prigione.
Durante la campagna elettorale, Lova Eliav mi portò a Qalqilya per presentare ai Palestinesi il piano del partito per i due stati. Il sindaco ci accolse splendidamente offrendoci tazze di caffè forte, e Lova srotolò la carta geografica dove erano segnati i confini. Le autorità erano compiaciute del piano di partizione in sé, ma dopo aver guardato la mappa chiesero: «E il mare?! Anche noi vogliamo il mare!». Eliav, quella cara persona, non sapeva cosa rispondere. Forse allora cominciò anche a rendersi conto che la soluzione del conflitto non era affatto semplice. Lo capì anche il presidente Clinton, dopo aver trascorso giorni e notti con Ehud Barak e Yasser Arafat a Camp David: tutti vogliono sia il mare sia la montagna.
Ho inserito la scena con il sindaco di Qalqilya nel terzo dialogo de Il signor Mani, che iniziai a scrivere nel 1983. Josef Mani, come ho già detto, va predicando per i villaggi palestinesi affinché pretendano una loro Dichiarazione Balfour. Se il piano fosse stato attuato, e lo Stato ebraico fosse stato istituito prima della Shoà, avremmo potuto salvare almeno un milione di ebrei, che sarebbero potuti venire in Israele prima della Seconda Guerra Mondiale, ma quando Josef Mani presenta la mappa che taglia con le forbici in lungo, i contadini palestinesi gli chiedono quel che avevano chiesto a me e a Eliav a Qalqilya nel 1977: «Ma dov’è il mare?!». Nel terzo dialogo del mio romanzo, la mappa che Josef Mani presenta è semplicemente diversa, ed egli la taglia in largo, ma una soluzione del genere era irrealizzabile già nel 1977.
Dopo aver scritto il terzo dialogo e lo schema generale degli altri quattro, improvvisamente mi bloccai. Nel 1984 venne pubblicato il romanzo postumo In fine di Yaakov Shabtai, una delle opere israeliane di narrativa a cui sono maggiormente legato, dal punto di vista emotivo e letterario, e che ho anche subito incluso nel mio programma di insegnamento. Allora pensai: guarda che bel libro, profondo, senza stratagemmi, senza ricambio di personaggi e periodi storici ogni cinquanta pagine; un libro umano, che ha in fondo un solo personaggio, che accompagna il declino della madre verso la morte, temendo la propria. Perché rovinarsi la vita con un romanzo storico così complicato? Misi nel cassetto lo schema de Il signor Mani insieme al terzo dialogo già scritto, e mi dissi: anch’io voglio scrivere un libro semplice con un unico personaggio e cinque stagioni. Così, nel 1987, è uscito Molcho (in italiano: Cinque stagioni).
A quel tempo, la sinistra israeliana non si occupava di quisquilie, ma di questioni morali e ideologiche profonde, di cruciale importanza per il futuro del paese. All’epoca usciva un mensile di sinistra chiamato “Politica”, diretto da Yossi Sarid e Gideon Samet, che pubblicava articoli impegnativi, seri e ideologici come oggi nessuno penserebbe di fare. Sarid chiese ai poeti e agli scrittori di narrativa di pubblicare sulla rivista le opere che tenevano nel cassetto. Tirai fuori il terzo dialogo de Il signor Mani e lo promisi a Sarid. Questa non è, mi dissi, una rivista molto diffusa e anche se l’opera fosse un fallimento, potrebbe tranquillamente rimanere senza un seguito. Ricordo che una ragazza venne nel mio ufficio all’Università di Haifa a prendere il quaderno con il testo del terzo dialogo. Non avendone un’altra copia, quando infilò il quaderno nella borsa le chiesi un po’ preoccupato: «È venuta in macchina o in treno?». «In treno», rispose. Per un momento, ebbi il timore che avrebbe dimenticato il taccuino sul treno e che Il signor Mani sarebbe andato perduto. Ma non fu così, venne invece pubblicato nella rivista di Sarid e Samet. Dan Meron, lesse il dialogo e scrisse un articolo molto entusiasta nel supplemento letterario curato da Nathan Zach per il giornale “Questo mondo” di Uri Avnery.
Pur avendo personalmente sofferto, assieme a qualche amico, di alcuni colpi bassi di Dan Meron, tutti lo ritenevamo comunque un’importante autorità letteraria. Al romanzo Cinque stagioni, ad esempio, Meron aveva reagito con una critica piuttosto aspra, poi ritrattata; perciò il suo entusiasmo per il terzo dialogo, e soprattutto l’esplicita richiesta di non rinunciare a scrivere il romanzo, mi fecero grande impressione. Contemporaneamente, anche il teatro di Haifa decise di mettere in scena il dialogo per una pièce con un unico attore, Doron Tabori, diretta da Ilan Toren. Ricordo che ci siamo chiesti come rappresentare sul palcoscenico il colonnello silenzioso. All’inizio avevamo pensato che l’attore avrebbe indirizzato il suo monologo a una bambola con una pipa e un bicchiere di whisky, ma poi ci rendemmo conto che sarebbe stato ridicolo. L’attore protagonista mi disse a un certo punto: «No! Mi volterò verso il pubblico e lo costringerò a essere il colonnello». Fu allora che capii che il dialogo a senso unico poteva funzionare anche a teatro. L’attore mi chiese anche di scrivergli ciò che il colonnello avrebbe dovuto rispondere al procuratore ebreo, ma fummo sorpresi dal fatto che ciò abbassava il livello del testo. Erano proprio i silenzi del colonnello ad aggiungere tensione e interesse, qualsiasi parola in più li sminuiva.
Incoraggiato dalla critica entusiasta di Dan Meron e dal successo riscosso dallo spettacolo teatrale, decisi di proseguire nella stesura del romanzo, il cui schema era già pronto. Mi misi a scrivere il quarto dialogo, che si svolge alla fine del XIX secolo in una tenuta di campagna del sud della Polonia, vicino alla cittadina di Oswiecim, tra un padre sionista e il figlio scettico, appena tornato dal Congresso di Basilea e da un lungo soggiorno a Gerusalemme. Mentre ero impegnato nella scrittura, Berta, la madre di mia moglie, ebbe un ictus che le causò un’emiparesi e l’afasia: non riusciva più a pronunciare una parola. Fu così che l’espediente letterario del dialogo a senso unico si tradusse improvvisamente sotto i miei occhi in realtà, dal momento che mia suocera, nel frattempo trasferita in una casa di cura, capiva ciò che le veniva detto, senza tuttavia poter rispondere. Per creare il quinto dialogo decisi allora di attribuire una paralisi cerebrale a uno dei personaggi del romanzo, non tanto come espediente estetico di lacune narrative, ma come realtà clinica vera e propria. Abraham Mani, appena rientrato da un lungo soggiorno a Gerusalemme, dialoga allora con Rabbi Haddaya, ma quest’ultimo non può rispondere alle sue sorprendenti parole, perché, mentre era sulla nave che lo portava dal Medio Oriente alla città natale di Istanbul, ha avuto un ictus che l’ha costretto a trattenersi in una locanda di Atene.
Chi è Rabbi Haddaya? È una sorta di divinità, orientale, domestica, che, come molti tipi di divinità, ha la caratteristica di ascoltare le domande che le vengono rivolte, senza però rispondere. Ora che mi si era aperta la via per scrivere i dialoghi uno dietro l’altro, il suo silenzio si irradiava su quello di tutti gli interlocutori che tacciono negli altri capitoli. Haddaya giunge in Europa occidentale agli inizi del XIX secolo e partecipa al Sinedrio voluto da Napoleone. L’imperatore si rivolge ai rabbini e ai rappresentanti delle comunità ebraiche dicendo: «Volete i diritti civili per gli ebrei? Li otterrete; ma gli ebrei sapranno essere fedeli alla patria che concederà loro i diritti di cittadinanza?! Possono essere fedeli al popolo in mezzo al quale vivono? A dire il vero vivono in mezzo a molti popoli, eppure mantengono una sorta di identità nazionale e religiosa che travalica tutti i confini». Haddaya capisce che l’Europa occidentale rappresenta una trappola mortale. L’Illuminismo e il nuovo Stato nazionale chiederanno agli ebrei di assumere l’identità nazionale del paese dove risiedono, privando così l’ebraismo della sua anima. Il rabbino si allontana dall’Occidente per far ritorno all’Oriente mediterraneo. L’ebraismo sovra-territoriale potrà forse continuare ad esistere nel caos e nel mosaico di identità dell’Impero ottomano? Nel mondo dell’Illuminismo, non ci può essere alcun legame tra due ebrei in quanto tali. Che legame può esserci fra Trotzkij, Rothschild e il Rabbi di Lubavitch? Sono tutti e tre ebrei, ma riuscirebbero a parlarsi se si ritrovassero nella stessa stanza? Trotzkij e Rothschild non conoscono l’ebraico e se l’Armata Rossa di Trotzkij avesse raggiunto la Francia, anche i Rothschild sarebbero stati giustiziati senza batter ciglio. L’Europa è il luogo dove gli ebrei unitamente e separatamente si sconfiggeranno spiritualmente l’un l’altro, ma soprattutto susciteranno l’ira dei non ebrei che li vinceranno socialmente e forse alla fine anche fisicamente.
Abraham Mani, dunque, arriva alla locanda di Atene e si presenta dal rabbino colpito dall’ictus. Mani deve raccontare al rabbino che l’ha cresciuto in casa propria cosa è successo nel lungo periodo che ha trascorso a Gerusalemme, dove era giunto dalla città natale di Salonicco per incontrare il figlio e la giovane moglie, un matrimonio orchestrato da Doña Flora, la giovane moglie del rabbino. Voleva celebrare con loro la nascita del discendente certo già radicato nel grembo della madre, un altro erede della famiglia Mani. Come Smerdjakov, Abraham è subdolo e ambiguo. Fa mostra di essere servile di fronte al rabbino che tratta come un re, ma allo stesso tempo si trascina dentro un pesante fardello di ingiurie e rancori contro di lui e contro la moglie. Innanzitutto, sarebbe spettato ad Abraham essere il marito di Doña Flora, ma Haddaya l’aveva impedito, e nonostante la vecchiaia e l’inveterata astinenza dai rapporti sessuali, si era preso una bella moglie, continuando, a quanto pare, a vivere completamente appartato dalla donna. La santità e la spiritualità ne avevano completamente castrato la sessualità. Il che vuol dire che il rabbino e la moglie erano responsabili, seppure indirettamente, della tragedia avvenuta a Gerusalemme. Il figlio, il giovane Mani, che all’epoca viveva come il padre in casa del rabbino a Istanbul, era infatti divenuto il prediletto di Doña Flora. In assenza del marito la donna lo faceva dormire nel suo letto (il rabbino era sempre in viaggio in comunità grandi e piccole dell’Impero Ottomano per risolvere questioni halachiche), con un sentimento vuoi materno vuoi a sfondo sessuale nei confronti di un innocuo bambino. Il ragazzo, ormai diventato un giovane dall’intelligenza acuta e di bell’aspetto, si era rivelato un sognatore dalle tendenze omosessuali. Dopo che Doña Flora – madre, amante – l’ha lasciato a Gerusalemme, il giovane ha fatto di tutto per evitare la moglie, che si aspettava di avere rapporti sessuali e un figlio da lui, e trascorreva le giornate a casa del console britannico che gli dimostrava un ambiguo amore paterno, mentre le notti le passava vagando per le case arabe, entrando nelle loro camere da letto o mescolandosi alla folla di pellegrini giunti nella Città Santa dalla Russia. Abraham Mani snocciola il racconto piano piano, quasi ingenuamente e senza livore al rabbino e alla moglie che hanno tolto al figlio la virilità. Tuttavia, egli stesso è attanagliato da un terribile senso di colpa. Dopo aver preso parte all’omicidio del figlio e aver ingravidato la nuora vedova affinché mettesse al mondo un nuovo rampollo della famiglia Mani, l’ha persino fatta innamorare, tanto che la donna fatica a separarsi da lui. A questo punto Abraham Mani viene dal rabbino con la scusa di porgli una questione halachica o teologica: dopo i misfatti commessi è passibile della pena di morte in quanto omicida dal momento che è anche colpevole di un adulterio della peggior specie? Abraham sostiene addirittura di avere in programma di eseguire da sé la condanna suicidandosi. Tuttavia, prima di infliggersi da solo la punizione, vuole sapere se, come suicida, non verrà ammesso nell’aldilà. La domanda scaltra indica che le intenzioni suicide non sono serie. Nel frattempo, in attesa di un’improbabile risposta, Abraham riesce ad allontanare Doña Flora dalla stanza del rabbino e scioglie una a una le bende e i panni che ne avvolgono le membra inferme, mentre l’uomo rabbrividisce sotto le sue mani per le cose terribili che dice. Abraham gli sbatte in faccia la storia fin nei minimi particolari, pretendendo una risposta alle sue domande, persino sotto forma di un semplice mugolio, come quelli che Haddaya riusciva ancora a emettere nei giorni immediatamente successivi all’ictus. Il rabbino tace. «Ma è davvero un silenzio? Un mutismo inappellabile? O forse, Dio ce ne liberi, la corda si è per sempre spezzata?» riflette tra sé e sé Abraham Mani.
Quando sono arrivato a scrivere questa parte della storia, ho fatto ricorso a una lingua a cui non ero avvezzo. Come accennato in precedenza, da bambino ho studiato con mio nonno le Massime dei Padri. Così mi sono venute in mente le parole di Rabbi El’azàr ben Khismà che Abraham Mani pronuncia davanti a Rabbi Haddaya:
«“I portenti e i calcoli cabalistici sono solo il sovrappiù della sapienza”. Ma io, perfino da brandelli di voci comporrei parole, perché vi conosco così bene, maestro mio…» (Il signor Mani, trad. Gaio Sciloni, Einaudi).
Abraham Mani doveva essere il discepolo di Rabbi Haddaya, ma, a conti fatti, ne era diventato il domestico. Di contro, il figlio Josef era uno studente perspicace e prudente verso il quale il rabbino aveva dimostrato molto più interesse. Abraham Mani s’ingelosisce e nutre rancore contro tutti, compreso il figlio. Trovandosi ora di fronte al rabbino che ha manipolato la sua vita, dice tra il lamentoso e il beffardo:
«Sarà possibile che ci lasciate così, in questo silenzio? Chi se lo sarebbe mai potuto immaginare, chi avrebbe mai potuto neppure lontanamente figurarselo… Ben lo sapevo anch’io, ben me lo dicevo: giorno verrà e voi, Rabbi Shabtai, vi stancherete di noi; però, chissà perché, mi immaginavo, certo, che sareste scomparso, ma mai e poi mai avrei pensato che sareste ammutolito; pensavo che avremmo assistito a una disparition, come dicono i Francesi, di quelle a cui siamo abituati: un giorno il rabbino sarebbe andato come presidente della Corte rabbinica in qualche piccola comunità, per giudicare o per predicare, e noi a pensare che fosse lì o là; e invece lui non era né lì né là, svanito, scomparso; e un bel giorno – un brutto giorno – d’un tratto non c’era più.[…] vado a cercarlo nei luoghi di cui so quanta nostalgia aveva, in Mesopotamia, signore, in Babilonia, dov’è sepolto il suo antico e vero progenitore. E già mi vedevo seguire le vostre orme, Rabbi Shabtai, mi vedevo girovagare dietro di voi, in certo modo mi godevo questa vostra scomparsa, mi vedevo entrare in sinagoghe antichissime, divenute rosee dalla vetustà, dove un Ebreo sedeva solitario su un divano e leggeva le Vigilanze. Io chiedevo di voi, e quell’Ebreo, senza alzare gli occhi dal libro, mi additava la finestra aperta, mi faceva un cenno come a significare “più in là, più in là… è stato qui, è passato di qui, è andato verso i campi di porpora, sotto un’aura di luce diffusa, in un Paradiso arido e giallo, è stato qui e se n’è andato…” È stato qui e se n’è andato… verso Oriente, verso il continente immenso, là fra le primordiali rovine, nel crepuscolo di idoli giganteschi e infranti, decollati e mutilati del deretano, e poi ancora più in là, verso l’Oriente… Così immaginavo… e ora, invece, silenzio. Null’altro che silenzio? Senza una sola parola di conforto, senza un solo motto saggio… così, in questa stanza angusta e buia, in quest’Europa in cui voi, Rabbi Haddaya, avevate giurato di non metter piede mai più, in una locanda di Greci ribellatisi agli Ottomani, affondato in un letto a rotelle? E da questa finestra cosa si vede? Un bianco santuario dei loro idoli morti, che Dio li perda. Mi straziate il cuore, maestro, con i vostri occhietti colmi di dolorosa pena. Mentre io, maestro mio, io, di ritorno dalla Terra d’Israele, io ho urgente bisogno di una chiara parola, di una sentenza, di un verdetto, oh, Rabbi Shabtai!» (Il signor Mani, trad. Gaio Sciloni, p. 419-420)
3.
In questa ode o miraggio di un Oriente immaginario è radicato il senso primordiale dell’intero romanzo. Il signor Mani si muove, come già detto, in senso inverso per quanto riguarda il tempo storico, dal presente al passato, ma dal punto di vista del luogo e dello spazio geografico, il movimento è invece a spirale. I vari dialoghi procedono zigzagando tra Gerusalemme e l’Europa, principalmente l’Europa mediterranea ottomana e greca, ma anche la Svizzera, Trieste e la Galizia. Il romanzo si apre in Terra d’Israele, in un kibbutz del Negev e a Gerusalemme, già capitale d’Israele, ma subito dopo (nel secondo dialogo) si sposta sull’isola di Creta, il punto più vicino alla Terra d’Israele raggiunto agli inizi della Seconda guerra mondiale dagli eserciti tedeschi. Questi ultimi fecero degli ebrei locali quello che fecero degli ebrei di tutta Europa, lasciando l’isola “Judenrein” e occupandola fino allo sbarco dell’esercito britannico, alla vigilia della sconfitta della Germania nel 1944. Nel terzo dialogo, la storia ritorna alla Gerusalemme del primo dopoguerra; nel quarto dialogo, che si svolge agli albori del sionismo di Herzl e del Congresso, la vicenda si sposta da Basilea a Gerusalemme, e da lì, passando per Beirut, arriva in Galizia, nei dintorni della cittadina che vedrà la costruzione del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Il quinto dialogo si muove tra Salonicco, Istanbul e Gerusalemme, per poi ritornare ad Atene, la capitale della Grecia non ancora insorta contro il dominio ottomano per fondare un proprio stato-nazione “risorgimentale”. Da lì, a quanto pare Abraham Mani proseguirà il suo cammino verso l’oriente mesopotamico, dove scomparirà portando con sé il peso della colpa commessa a Gerusalemme e la parte avuta nella morte del rabbino Haddaya ad Atene. Tuttavia la sua promessa di suicidarsi, rimasta incompiuta, si tramanderà al figlio-nipote Moshe Mani, che la metterà in pratica alla stazione ferroviaria di Beirut, per dare nuovamente segnali nel figlio del pronipote, quel Gabriel Mani al quale la Hagar del kibbutz consegna il messaggio del figlio che si trova sul fronte libanese. Si dipana così un filo geografico che torna, volta dopo volta al punto di partenza: un moto ripetitivo e quasi stanziale rispetto al movimento unidirezionale dal presente al passato.
Ognuna di queste circonvoluzioni trae significato dal tono del dialogo in cui si svolge e dalla questione del ritorno – o del non ritorno – degli ebrei in Oriente secondo l’espressione sionista: «Rivolto ad oriente, l’occhio guarda a Sion».
La valenza storico-politica di questo ritorno si chiarisce nel corso dei cinque dialoghi: come possono milioni di ebrei sopravvivere in terre straniere e come, casomai, gli ebrei possono far pace con gli arabi d’Israele una volta giunti in Oriente? Nel primo dialogo (Hagar Shilo con la madre Yael, nel kibbutz di Mash’abe Sadè del 1982) sembra che la risposta ebraica a tutte le domande dipenda, né più né meno, dalla capacità di generare. Hagar Shilo, lei stessa rimasta orfana nella Guerra dei Sei Giorni, ha una relazione con un giovane insegnante di nome Efraim Mani, crede di esserne rimasta incinta e di doversi prendere cura non solo di lui e della futura gravidanza, ma anche di Gabriel Mani, il padre del giovane (richiamato come riservista, Efraim viene inviato sul fronte libanese). Hagar scopre infatti che Gabriel potrebbe essere sul punto di suicidarsi dopo la morte dell’amata madre. Il dialogo si svolge all’ombra delle guerre d’Israele e della morte di giovani come il padre di Tamar, ma dietro tutto ciò si cela la grande tenebra della Shoà. Il padre di Gabriel, Efraim Mani, che era stato esiliato a Creta assieme al padre Josef, è morto sull’isola nell’operazione di sterminio degli ebrei locali sul finire della Seconda guerra mondiale, e il bambino si è legato alla madre. A dire il vero le circostanze e lo sfondo del dialogo mettono in dubbio l’idea della discendenza di sangue (che spicca in modo particolare nel quinto dialogo) come base solida per garantire la sopravvivenza individuale e collettiva. In effetti, Hagar non rimane incinta del giovane Efraim (se non dopo il ritorno dal servizio militare), proprio come l’Efraim Mani di Creta non era figlio naturale del padre Josef.
Il secondo dialogo (Egon Bruner, paracadutista e infermiere dell’esercito tedesco nella Seconda guerra mondiale e figlio illegittimo dell’ammiraglio tedesco Werner Sauchon, parla con la moglie dell’ammiraglio, la madre-nonna adottiva, che ha acconsentito alla gravidanza extraconiugale dopo che il figlio della coppia è caduto nella Prima guerra mondiale) ha luogo nell’agosto del 1944 tra Egon e Andrea Sauchon, la stessa energica madre-nonna venuta dalla lontana Germania fino a Creta, a Heraklion, alla vigilia della sconfitta tedesca nella guerra per scoprire lo strano comportamento di Egon che è rimasto sull’isola con gli ultimi occupanti tedeschi e non ha seguito gli amici accorsi in Europa orientale a combattere la fatidica battaglia che dovrebbe fermare l’avanzata dell’Armata Rossa verso Berlino. Nel corso del dialogo, emerge che Egon non condivide l’atteggiamento di Hitler sulla questione degli ebrei. Pur essendo d’accordo che debbano sparire, preferisce che ciò avvenga spogliandoli o liberandoli dalla loro identità ebraica. Egon vede negli ebrei un nemico culturale, non razziale, e ritiene che la loro completa assimilazione nella cultura tedesca, fondata anche sul sapere e la bellezza dell’antica Grecia, sia un’alternativa migliore ed “economica” rispetto alla Soluzione Finale. Per quanto lo riguarda, se l’assimilazione non è sincera, è disposto a eliminare chi finge, mentre gli altri dovrebbero essere regolarmente tenuti sotto controllo per timore che ritornino alla loro identità nazionale. L’intera conversazione è segnata dalla problematica identità di Egon, che è figlio di una cameriera della classe operaia e di un militare prussiano dell’élite dominante e che, in qualità di frutto di un matrimonio misto, si spoglia dell’educazione nazionalista tedesca per scoprire le origini dell’identità europea in Grecia e a Creta. La “soluzione” è lì: gli ebrei cesseranno semplicemente di essere ebrei.
Il terzo dialogo (Gerusalemme, 1918) si svolge tra il procuratore militare britannico (ebreo) e il comandante che servirà da presidente del tribunale militare nel processo a Josef Mani, padre di Efraim. Josef di Gerusalemme, interprete dell’esercito inglese in Terra d’Israele, viene meno al suo incarico ed è accusato di tradimento. Tutto questo, come si è detto, è dovuto all’urgenza di avvertire gli arabi d’Israele delle conseguenze della Dichiarazione Balfour se non avessero chiesto subito una dichiarazione parallela per se stessi. La soluzione qui in discussione è quella della divisione in due Stati, sostenuta dalla sinistra israeliana dopo la Guerra dei Sei Giorni. Come accennato in precedenza, chi era intenzionato a dividere il paese si è trovato di fronte a una grossa difficoltà: «Che ne sarà del mare?!». Chi avrà la costa?
Il quarto dialogo (che si tiene nel 1899 in una tenuta vicino ad Auschwitz, tra il dottor Efraim Shapiro e il padre Shalom, un ardente sionista, direttore di una fattoria) ruota attorno ai personaggi di Linka Shapiro, sorella di Efraim, e di Moshe Mani, un ginecologo di Gerusalemme. Gli Shapiro, originari della Galizia, e il sefardita Moshe Mani di Gerusalemme, si sono incontrati al terzo Congresso sionista di Basilea e sono tutti e tre diretti in Israele. Mentre sono in viaggio per Gerusalemme, ma soprattutto una volta arrivati in città, tra di loro si crea un legame, soprattutto tra Moshe Mani e Linka Shapiro. Nel lungo soggiorno di Efraim e Linka a Gerusalemme, il legame tra la ragazza e il ginecologo si trasforma nella passione di quest’ultimo per Linka che a sua volta vuole unirsi a lui. Tutto ciò provoca una terribile tragedia: il suicidio di Moshe Mani alla stazione ferroviaria di Beirut, perché l’uomo non vuole abbandonarli lungo il viaggio di ritorno in Europa. A finire sotto le ruote del treno è anche l’idea di poter assumere identità multiple e di scegliere una relazione erotica individuale al posto di quella di gruppo. Moshe è per molti versi una persona al limite di molteplici identità, mentre fin dall’inizio Linka è attratta da uomini non “ebrei”. L’eros (non il legame di sangue, ma l’amore) dovrebbe in questo caso rettificare le differenze e far superare le barriere. La soluzione politica implicita in tutto questo è uno Stato per tutti i suoi cittadini, per così dire. Il fallimento è evidente non solo nel suicidio di Moshe Mani, ma anche nel destino di Linka, che diventa la moglie ebrea di un medico cattolico polacco durante la Shoà.
Nel quinto dialogo, di cui si è già discusso a lungo, l’eros assume un altro travestimento. Il figlio di Abraham, Josef Mani, traduce l’attrazione omosessuale verso gli arabi, in particolare per il figlio dello sceicco di Silwan, nella convinzione che la necessità di perpetuare l’esistenza collettiva non dipenda dal generare figli, ma dal chiarire o far presente agli arabi d’Israele la loro antica identità ebraica, come all’epoca credevano Ben-Gurion e Ben Zvi: i contadini arabi di Palestina altro non sarebbero che ebrei che non hanno scelto l’esilio, bensì si sarebbero convertiti all’Islam “dimenticandosi di essere ebrei”. La ricerca dei segni nascosti dell’ebraicità degli arabi sembrerebbe giustificare l’intrufolarsi di Josef Mani nelle loro camere da letto, così come il resto dei suoi passatempi notturni, che lo tengono lontano dal giaciglio della giovane moglie. È Abraham Mani a credere (come e anche più fortemente di Hagar Shilo) nell’importanza decisiva della capacità di generare figli. E quando scopre che suo figlio non ha avuto rapporti sessuali con la moglie, lo fa lui stesso. Come Linka che si era innamorata di Moshe, la giovane vedova s’innamora del cinquantenne Abraham e non vuole assolutamente lasciarlo andare; alla fine del quinto dialogo, rimane un bambino abbandonato dal padre-nonno, proprio come nel primo dialogo rimane un bambino (Roni Mani) abbandonato dal padre, con il quale il nonno cerca di mettersi in contatto.
4.
Dal punto di vista politico e ideale, la disamina delle “possibilità” di esistenza collettiva degli ebrei si staglia sullo sfondo orribile della Shoà. Malgrado tutte le difficoltà e gli ostacoli, nulla può giustificare il mancato ritorno degli ebrei in Terra d’Israele quando ciò era ancora possibile. Il racconto s’identifica pienamente con la dichiarazione di Jabotinsky: «Se non eliminate l’esilio, l’esilio vi eliminerà»; e anche con la profonda intuizione di Ben-Gurion, che nel 1949, quattro anni dopo la Shoà, disse: «Non è il male […] dei gentili che chiamiamo antisemitismo, ciò che ci distrugge è piuttosto il fatto che la nostra posizione non rientra nel normale sistema di vita delle nazioni del mondo, e l’antisemitismo, perché dobbiamo biasimarlo!» Se oggi Ben-Gurion avesse pronunciato una frase del genere l’avrebbero subito minacciato di morte, e anche nel 1949 c’era voluto uno straordinario coraggio. Ma così disse Resh Lakish, che viveva in Terra d’Israele, agli ebrei che non tornarono da Babilonia dopo quarant’anni di esilio: «Dio, io vi odio, perché se foste tutti tornati da Babilonia dopo quarant’anni, quando Ciro emise il suo editto, il Secondo Tempio non sarebbe stato distrutto». In certa misura, queste parole sono valide anche ai giorni nostri.
La Shoà non è solo una catastrofe, ma letteralmente una sconfitta, la sconfitta peggiore dell’idea della Diaspora come soluzione di vita di una nazione. Uso deliberatamente la parola “sconfitta”, anziché quella usuale di “Shoà”, perché quest’ultima nell’accezione ebraica rientra tra gli eventi “naturali” (uragani, tsunami, eruzioni vulcaniche e via dicendo); “sconfitta”, invece, riguarda gli eventi sotto il controllo e la responsabilità dell’uomo. Questa è la definizione corretta di ciò che accadde agli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. I disastri naturali possono essere terribili, ma non portano un milione di bambini nelle camere a gas riducendoli in cenere. A mio parere, malgrado tutte le ricerche fatte e ancora in corso nel campo degli “studi sull’Olocausto”, non ci rendiamo ancora conto della portata della tragedia patita tra il 1939 e il 1945. Un terzo del popolo è stato annientato, non per un territorio o per un’ideologia, né a causa di una religione o di beni materiali. È lo sterminio fine a se stesso. Perciò arroccarsi in un territorio in cui gli ebrei sono padroni del proprio destino e cercano di difendersi in caso di bisogno è l’imperativo vitale che garantisce l’esistenza nazionale – sia nel senso di un’unica identità ebraica, sia nel senso delle molteplici identità, ebraica e palestinese, di cui sarà intessuta l’identità israeliana.
La famiglia sefardita di mio padre si era insediata a Gerusalemme da sei generazioni e non aveva parenti nell’Europa occupata dai tedeschi. Durante la guerra la famiglia di mia madre era tutta in Marocco, dove i tedeschi non arrivarono, cosicché la Shoà non è stata presente in casa nostra come in quella di mia moglie, che invece ha visto sterminata gran parte della famiglia. Ho scoperto la Shoà solo quando la guerra finì, nel 1945. Avevo nove anni e trovai sulle scale di casa nostra, che era allora nel centro della città, un bigliettino volato dalla manifestazione che chiedeva agli inglesi, ora che la guerra era finita, di mantenere la promessa fatta con la Dichiarazione Balfour e di aprire le porte del paese agli esuli rimasti. Con questo bigliettino ho appreso per la prima volta dei sei milioni di ebrei sterminati, un numero che da allora non mi ha più lasciato. Un ragazzo di Gerusalemme che al tempo del conflitto mondiale vive nella solitudine ebraica della Terra d’Israele non può immaginare che in Europa ci siano così tanti ebrei: perché sono lì e non qui? Allora il bambino di nove anni pensa a modo suo alle soluzioni al male, e le soluzioni sono tanto strane quanto disperate. Nel romanzo quattro sefarditi di Gerusalemme cercano in modi diversi di salvare gli ebrei ashkenaziti dal terribile male che li attende. Il primo: non occorre uccidere gli ebrei, possono rinunciare alla propria identità. Il secondo: dividiamo il paese in due Stati. Il terzo: faremo uno Stato per tutti i suoi cittadini, una condivisione tra gli abitanti del paese. E se tutto ciò dovesse fallire, spiegheremo agli arabi palestinesi che sono in realtà ebrei che hanno dimenticato di essere ebrei.
5.
Mentre scrivevo le note per questa conferenza, mi sono chiesto da dove mai mi sia venuta quella storia dell’Oriente mesopotamico e di Ur dei Caldei. Nell’epilogo del libro, alla fine di tutto, Abraham Mani ritorna a Ur dei Caldei e il romanzo si chiude con la parola Ur dei Caldei scritta alla rovescia. Perché ho creduto che proprio da qui potesse ripartire l’identità ebraica israeliana?
Durante la guerra del Kippur, che condusse l’esercito israeliano a un centinaio di chilometri dal Cairo e a una quarantina da Damasco, venni chiamato come parte del corpo docente ad unirmi al gruppo di insegnanti che si spostavano tra le unità militari del sud e del nord del paese. Venni mandato sul Golan. Ricordo che, dopo aver tenuto una conferenza nell’avamposto militare su una collina da poco conquistata, un ufficiale mi condusse al posto di osservazione sulla vetta per mostrarmi la strada cosparsa di neri cumuli basaltici contorti. Era un giorno invernale, la strada sembrava sinistra e di tanto in tanto c’erano scambi di artiglieria tra l’esercito israeliano e quello siriano. D’un tratto pensai con una certa emozione: da laggiù, dall’oriente profondo, è venuto il patriarca Abramo per dare vita a una nuova religione nazionale. Non credo che avrei potuto ricordare questa riflessione se il luogo non fosse legato alla morte di un caro amico, il dottor Josef Efrati. Originario del kibbutz Mash’abe Sadeh, che aveva lasciato assieme alla famiglia, Josef era più vecchio di me, un bell’uomo dai capelli rossi. Aveva studiato all’Università di Tel Aviv (letteratura ebraica e teoria della letteratura) ma, benché fosse molto più vecchio di tanti studenti, gli insegnanti ne erano entusiasti. Dopo aver consegnato la tesi di dottorato, ottenne la cattedra di professore onorario al Dipartimento di Letteratura della stessa università. Anche Efrati fu richiamato in guerra per tenere lezioni ai soldati sulle alture del Golan; anche lui fu condotto da un ufficiale a quello stesso osservatorio da cui si vedeva la strada per Damasco. Solo che in quel momento ci fu uno scambio di colpi di arma da fuoco e finì gravemente ferito. Per ore non poté essere evacuato a causa del fuoco incrociato e morì dissanguato. L’ufficiale che venne al funerale mi disse: «È stato ucciso esattamente dove era lei una settimana fa». È da allora, probabilmente, che mi è rimasto il ricordo dello sguardo rivolto ad oriente, verso la figura del patriarca Abramo che proviene da Ur dei Caldei.
Un’ultima parola. Dopo la pubblicazione de Il signor Mani, venni intervistato dal poeta Yaakov Besser per il «Giornale 77». Quando lo riaccompagnai alla stazione di Haifa, d’un tratto osservò: «Dimmi, perché questo nome, “Mani”? Significa: “cosa sono io”. L’hai fatto apposta?». Rimasi stupito. Era esatto: Mani vuol dire “cosa sono io”. Per quattro anni avevo scritto un romanzo intitolato Il signor Mani dove ci sono molti personaggi con questo cognome, ignaro del suo significato. Se me ne fossi reso conto avrei cambiato il titolo del libro e i nomi dei personaggi. Era così evidente! Così facile! Tutti i critici amanti delle allegorie si sarebbero avventati sul libro facendone quel che volevano. Ma ripensandoci, mi dissi: «Tutto sommato, è un bene che l’inconscio a volte lavori». È un ottimo consiglio per i giovani scrittori, anche per quelli che mi hanno onorato della loro presenza qui. Viviamo in un’epoca di eccessiva consapevolezza. Guardate quanti corsi e istituti si occupano di psicologia e psicoterapia, qui Freud, lì Jung; a sinistra, Kohut e a destra Melanie Klein. Tutti scrivono incessantemente. Il mondo è diventato troppo consapevole di se stesso. È vero, è un bene tirar fuori l’inconscio di tanto in tanto dalle tenebre e lasciare che la coscienza lo illumini o lo interpreti, ma si deve anche saper rinunciare e lasciarvi dentro i pezzi più neri di carbone. A volte, quando un blocco di carbone si fende da solo, può rivelare una perla.
E così Mani è rimasto Mani.
A causa della mia grave malattia, ho avuto difficoltà a mettere per iscritto il testo della conferenza che è stata tenuta sulla base di appunti. L’amico Dan Meron si è offerto di aiutarmi nel lavoro, e ha fatto, a mio parere, un ottimo lavoro. Gli sono grato per questo e per le molte altre cose che ha fatto e continua a fare per la letteratura ebraica. A. Y.
Il testo è tratto da una conversazione tenuta presso l’Istituto Van Leer di Gerusalemme in occasione del trentesimo anniversario della pubblicazione di Il signor Mani. Traduzione di Sarah Parenzo.
Abraham B. Yehoshua
Il signor Mani