L’austerità è un concetto che in Italia conosciamo bene. Tagli, risparmio, prudenza, sono state le parole d’ordine degli ultimi decenni. Ma lo stesso accadde durante gli anni del fascismo in Italia. Quanto si assomigliano dunque questi due periodi?
Quando impariamo i concetti di «totalitarismo» e «corporativismo» il presupposto è che il fascismo sia un fenomeno drammaticamente distante dalla società liberale di mercato che lo precedette e che tuttora viviamo. Ebbene, prestando maggiore attenzione alle politiche economiche fasciste, specialmente durante gli anni Venti, si può osservare quanto alcuni connubi tipici del ventesimo e ventunesimo secolo, che plasmano profondamente la vita di ciascuno di noi, furono sperimentati proprio nei primi anni fascisti. Mi riferisco soprattutto all’associazione tra austerità e tecnocrazia, a quel fenomeno cioè per cui certe politiche, oggi molto consuete (come tagli alla spesa sociale, tassazione regressiva, deflazione monetaria, privatizzazioni e repressioni salariali), siano decise da esperti economici che consigliano i governi o, addirittura, governano direttamente e spesso senza passare per il vaglio popolare, si pensi ai governi tecnici (Ciampi 1993-94, Monti 2011-12; Draghi 2021-22).
Come racconto nel libro Operazione austerità, il duce fu tra i migliori alfieri dell’austerità nella sua forma moderna e ciò fu possibile in larga parte perché si circondò di autorevoli economisti del tempo, nonché campioni del paradigma emergente dell’economia pura, tuttora alla base dell’economia neoclassica mainstream.
Le somiglianze con l’oggi sono dunque quanto mai sconcertanti: oggi come allora lo stato e i suoi esperti risolvono la crisi economica imponendo una forte dose di sacrifici ai propri cittadini italiani. Le politiche di austerità impongono alla maggioranza di consumare di meno e produrre di più in nome di una “necessità” economica, il cui risultato è quello di mantenere alto il tasso di sfruttamento e il saggio del profitto.
Com’è possibile che una misura apparentemente così apolitica, forse una delle più apolitiche che conosciamo, diventi lo strumento principale, il perno del capitalismo?
Il messaggio del libro è che la supposta «apoliticità» dell’austerità sia lo strumento essenziale per giustificare delle policy coercitive e, più in generale, per imporre il consenso per il sistema economico in cui viviamo. Non vi è difatti nulla di più politico che imporre, come fa l’austerità, delle misure che spostano strutturalmente le risorse dalla maggioranza dei cittadini lavoratori a una ristretta minoranza di risparmiatori-investitori. L’austerità fortifica così la nostra condizione di dipendenza dal mercato per cui siamo costretti ad accettare di vendere la nostra forza lavoro in cambio di salari bassi e condizioni precarie. Tale accettazione è ulteriormente rafforzata dagli esperti, le cui teorie economiche dipingono il capitalismo come l’unico e il migliore dei mondi possibili. Difatti gli economisti negli anni Venti (cosi come quelli di oggi) contrabbandarono la società di mercato come un luogo in cui tutti, se sufficientemente razionali e virtuosi, avrebbero potuto prosperare.
Una tale visione apparentemente emancipatoria è di fatto tra le piú classiste, poiché presuppone che le gerarchie sociali siano il riflesso del merito individuale, nel senso che coloro che non siedono al vertice evidentemente non lo meritano. Secondo tale visione, i profitti dei risparmiatori-imprenditori sono il prodotto del loro comportamento virtuoso, che ne determina la capacità di firmare le buste paga degli operai e di mandare avanti l’economia. Nessun’arma avrebbe potuto essere altrettanto potente di questo approccio teorico nel privare i lavoratori di una soggettività politica e nel giustificare il profitto privato. Il messaggio era tale che oggi tutti l’abbiamo interiorizzato: se ci sforziamo abbastanza, ognuno di noi può diventare risparmiatore-investitore. Chi non ci riesce può biasimare soltanto se stesso.
Quali sono, a suo avviso, politiche efficaci che siano alternative all’austerità?
La domanda qui va forse precisata: efficaci per chi e per quale obbiettivo?
La tesi del mio saggio è che l’austerità non può essere ridotta a mera cattiva teoria o errore di policy. Essa è difatti assai efficace nel mantenere in piedi un sistema economico che si basa sullo sfruttamento strutturale della maggioranza. Mi spiego: non vi può essere crescita economica capitalistica se non si garantiscono i rapporti salariali e le aspettative di profitto private ed è proprio questo il compito principale dell’austerity. Per poter implementare politiche più “efficaci” nel senso di favorevoli al benessere della maggioranza occorre pensare ad una società che si basi su pilastri differenti rispetto ai rapporti salariali e i profitti privati.
Invece di idealizzare il capitalismo come un sistema economico malleabile ed eternamente riformabile occorre perciò comprendere che esso è strutturalmente austero. Ne segue che per superare l’austerità occorre superare il capitalismo stesso come modo in cui si organizza la produzione e la distribuzione. È per questo che la prima parte del saggio è dedicata alla ricostruzione storica di alternative concrete al nostro sistema economico, specialmente basate sulla prassi della democrazia economica e l’autogoverno della produzione: dalle cooperative, al socialismo ghildista, al sistema dei consigli di fabbrica. Spero che nell’immedesimarsi in questi reali episodi avvenuti nell’immediato primo dopoguerra (1919-1920) il lettore possa ampliare la propria immaginazione sulle strade percorribili per la futura organizzazione della nostra società.
Clara E. Mattei
Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo
Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria e Walter Barberis, storico, autore di «Storia senza perdono» e presidente della casa editrice Einaudi, ragiona sulla memoria e dice con forza che il perdono non riguarda la storia, che invece va studiata e rammentata.