Lei nel suo libro definisce il caso 7 aprile un affaire. Cosa intende?
La cosa più affascinante dell’imparare lingue straniere è scoprire vocaboli intraducibili ma applicabili ad altri contesti rispetto a quello d’origine: è così che si coglie l’irriducibile ricchezza culturale di un idioma. Il termine affaire è uno di quei vocaboli. Nasce in Francia ed è espressione di un’opinione pubblica diversificata e pluralista, che si schiera intorno a un caso politico-giudiziario intricato, appassionante.
Si pensi all’affaire Dreyfus. Gli esegeti ci insegnano che l’affaire si caratterizza per il rovesciamento dei ruoli tra accusatore e accusato. Quest’ultimo subisce inizialmente il castigo o la relativa minaccia, ma reagisce denunciando chi l’accusa e costruendo una strategia di contrattacco per convincere la società delle proprie ragioni. Gli affaire classicamente si caratterizzano per un dato: l’innocenza dell’accusato originario, la constatazione di un errore giudiziario.
Ora, il 7 aprile presenta una struttura più complessa. Intanto per via del gran numero d’imputati, ognuno con la relativa posizione processuale, e della pluralità di procedimenti. Poi per la diversità dei capi d’imputazione e la loro mutevolezza nel corso del tempo. E poi per il fatto che gli imputati non negavano d’essere dei sovversivi, ma, addebiti specifici a parte, si difendevano insistendo su un aspetto: che l’inchiesta li usasse come capri espiatori per criminalizzare la generazione politica del Sessantotto.
Il fulcro della denuncia non era quindi una rivendicazione d’innocenza tout court ma una critica a metodo e contenuti dell’inchiesta: imputazioni troppo pesanti, mandati di cattura sostitutivi, durata del carcere preventivo, prove basate spesso su scritti degli imputati. Accuse iniziali assai gravi si rivelarono presto infondate. E la conclusione dei processi portò a ridimensionare l’iniziale portata del quadro accusatorio. Sia per quanto concerne i reati associativi – associazione sovversiva, banda armata, insurrezione armata – sia per quanto riguarda vari reati specifici.
Che somiglianza vede tra il terrorismo degli anni Settanta e l’antagonismo anarchico di oggi?
Preferisco usare l’espressione «lotta armata» per definire la violenza politica “rossa” di quegli anni, perché il termine «terrorismo» implica già una valutazione di merito, negativa, che i militanti d’allora respingevano. Loro stessi, anzi, tacciavano di «terrorismo» coloro che, nelle istituzioni repubblicane o nei ranghi dei rivoluzionari, usavano una violenza abusiva, cioè eccessiva rispetto alle esigenze del conflitto. Si badi anche a un dato cronologico: il picco di violenza “rossa” in Italia si ha tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, che, dietro la patina del benessere, sono in realtà un decennio ad alto tasso di brutalità.
Ciò premesso, la «lotta armata» dell’epoca aveva un base sociale di consenso e connivenza che le diede una forza notevole e le garantì supporto sia nella fase ascendente che in quella discendente. Il 7 aprile è stato un affaire perché tanti degli imputati avevano un prestigio politico e intellettuale straordinario, entrature di prestigio nel mondo politico e istituzionale, oltreché amicizie influenti in campo culturale, dalle università ai grandi quotidiani.
Tutti questi alleati, che spesso non condividevano le loro posizioni ideologiche ma si sentivano responsabilizzati a intervenire per ragioni ideali, si mossero in loro favore e mostrarono all’opinione pubblica le storture di una procedura giudiziaria per molti versi aggressiva quando non lesiva dello Stato di diritto: si pensi alle lunghissime detenzioni preventive e alla gestione disinvolta dei “pentiti”.
L’antagonismo “rosso” odierno, quello di matrice anarchica o autonoma, è isolato perché opera in una società securitaria che culturalmente ha espunto il militantismo violento dal novero delle modalità d’interazione politica e colpisce durissimamente i contravventori. Si pensi al caso di Alfredo Cospito. È un antagonismo che, inoltre, detiene un potenziale d’attacco quantitativamente molto esiguo. Né credo che una maggiore brutalità di questo genere di lotta possa invertire la tendenza, tutt’altro.
Cosa pensa della notizia di qualche mese fa sul rifiuto da parte della Francia all’estradizione di dieci terroristi italiani?
Una premessa: Italia e Francia aderiscono al meccanismo del mandato d’arresto europeo (MAE), operante dal 2004, che ha abbattuto le barriere interstatuali su cui si fondava l’istituto dell’estradizione. Cos’è l’estradizione? La misura per cui uno Stato richiesto può concedere a quello richiedente un reo o presunto tale affinché sconti la pena o venga giudicato.
Dunque, perché in pieno XXI secolo la Francia si è trovata ancora a gestire dossier estradizionali con un partner europeo? Perché i due paesi s’accordarono per escludere dal MAE i reati precedenti l’entrata in vigore del trattato di Maastricht (1o novembre 1993).
Ora, per antica tradizione la Francia ha rappresentato un paese-rifugio per i sovversivi di sinistra. Soprattutto dal 1981, quando al potere salì la coalizione progressista guidata da François Mitterrand. La cosiddetta «dottrina Mitterrand», non una norma prescrittiva ma piuttosto un indirizzo, si può far risalire al 1985 ma affonda le radici all’inizio degli anni Ottanta quando furono fissati alcuni criteri di massima. Si poteva estradare se: il sistema politico-giudiziario dello Stato richiedente fosse pienamente affidabile; i reati in questione non avessero natura politica; lo Stato richiedente non agisse con moventi politici; né con fini persecutori. Varie imputazioni in capo ai dieci militanti “rossi” arrestati a Parigi nel 2021 sono «crimini di sangue», cioè reati gravi e quindi depoliticizzati: i ricercati sarebbero perciò estradabili.
Ma, hanno constatato i giudici francesi, si tratta d’individui che vivono da molti anni in Francia, dove si sono ricostruiti una vita; e, inoltre, sono stati condannati da contumaci in processi che non saranno ripetuti, loro presenti, perché l’ordinamento italiano non lo prevede. Opinabile? Sì, come sempre il diritto. Ma, ritengo, coerente con la concezione della sovranità nazionale novecentesca e con la tolleranza garantista per cui il trascorrere del tempo e la buona condotta del reo attenuano la carica punitiva della pena.
Roberto Colozza
L'affaire 7 aprile. Un caso giudiziario tra anni di piombo e terrorismo globale
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