Leggere il presente

Lo schwa è reazionario? Intervista ad Andrea De Benedetti

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Giulia Priore 22 Luglio 2022 5 min

Il suo libro contro l'introduzione del suono schwa nella lingua italiana per superare il binarismo di genere ha suscitato polemiche e quindi ecco tre domande per il linguista che propone di trovare strade più eque per la questione delle discriminazioni di genere all'interno della nostra lingua.

Lei pensa che sia la lingua a influenzare la realtà o, al contrario, che sia la realtà a influenzare la lingua?

È come chiedere se nasce prima l’uovo o la gallina. Diciamo che le parole, per forza di cose, nascono dopo le cose che designano. Pensiamo banalmente alle novità tecnologiche che a intervalli più o meno regolari entrano a far parte delle nostre vite: quando Steve Jobs ha lanciato il primo iPhone, c’è stato qualche creativo della Apple che ha pensato al nome commerciale del prodotto, ma c’è anche qualcun altro che ha battezzato «smartphone» questo tipo di oggetto. Non è che Steve Jobs si è svegliato una mattina e ha pensato: «inventiamo lo smartphone»: non si può inventare una cosa a partire dal nome. Ma anche il tavolo, le scarpe, la doccia o gli occhiali sono nati prima dei nomi con cui chiamarli.

Dopodiché è vero che le associazioni tra significati possono influenzare eccome la nostra percezione della lingua. Nel momento in cui, ad esempio, la parola «straniero» o «immigrato» si trova spesso associata, nei contesti in cui viene usata, a concetti come «illegale», «criminalità», «clandestino», «terrorismo» eccetera, è evidente che si sta creando il terreno linguistico perfetto per creare un clima di ostilità.

La lingua suscita sempre passioni, anche tra i non addetti ai lavori, perché appartiene a tutti, e ciascuno ha, più o meno legittimamente, un’idea di come dovrebbe essere usata e di quali siano le regole che la governano.

Come mai un singolo suono, lo schwa, ha scatenato una tempesta così grande, seppur all’interno di un’élite culturale? Non si è trattato di certo di una rivoluzione della lingua, tantomeno della società, ma comunque ci sono state discussioni appassionate e accese. E questo non è un male. Cosa si nasconde quindi dietro tutta questa passione per la lingua?

La lingua suscita sempre passioni, anche tra i non addetti ai lavori, perché appartiene a tutti, e ciascuno ha, più o meno legittimamente, un’idea di come dovrebbe essere usata e di quali siano le regole che la governano. Nel caso dello schwa, la mia impressione, ma anche il mio personale sentimento, è che si sia oltrepassata una soglia. Una soglia oltre la quale la legittima istanza di trovare uno spazio di autorappresentazione nella lingua diventa, per mano di una frangia radicalizzata, una forma di integralismo morale e culturale intollerante verso qualunque forma di dissenso, anche se pacata, ragionata e argomentata.

Certo, stiamo parlando di un fenomeno di nicchia, ma nel momento stesso in cui qualcuno arriva a sostenere che le persone non binarie e le donne hanno «diritto» a una desinenza morfologica si compie un passaggio pericoloso, perché il diritto di qualcuno configura sempre un dovere da parte di qualcun altro. Una volta accettato questo principio, non ci muoviamo più nel campo delle buone pratiche, ma delle regola. Cattive regole, aggiungo io, come sono tutte quelle che non agevolano la vita dei parlanti e degli scriventi e li criminalizzano a prescindere da intenzioni e contesto. È quello che sta accadendo in molte realtà accademiche, soprattutto in Usa e Gran Bretagna, e che rischia di accadere anche qui.

 

Non c’è nulla di conservativo nel sostenere che la lingua deve fare il suo corso.

Nelle altre lingue sono state fatte delle proposte che sono state accolte con meno attrito che da noi. Sto pensando al they inglese o al plurale in -es dello spagnolo. Come mai l’italiano risulta così conservativo o così cauto, a seconda di quale sia la posizione di partenza? È una questione che riguarda solo la lingua?

Non c’è nulla di conservativo nel sostenere che la lingua deve fare il suo corso. È molto più reazionario, semmai, pensare di stabilire a tavolino delle norme non condivise dai parlanti e forzare il sistema a suon di ricatti morali per cercare di metterle in circolazione.

Sul fatto che altrove alcune soluzioni abbiano incontrato meno attriti dipende da diversi fattori, e comunque non è vero che in Spagna, ad esempio, il plurale in –es, comunque meno «invasivo» dello schwa, non abbia incontrato resistenze. Al contrario, il dibattito infuria feroce anche lì, come quasi dappertutto.

Quanto al cosiddetto «singular they», è una questione abbastanza diversa. Primo perché esisteva già ai tempi di Shakespeare. Secondo perché è facile da usare. Terzo, perché è solo un pronome e non una desinenza che costringe a riformare per intero il sistema morfologico della lingua. Detto questo, vale la pena di ricordare che il they deriva da un pronome maschile dell’antica lingua norrena. È insomma quantomeno buffo che il pronome che dovrebbe cancellare le differenze di genere sia anch’esso, probabilmente, il prodotto di una società patriarcale.

È invece preoccupante che in alcune università americane e britanniche esistano uffici appositi per la vigilanza sull’uso dei pronomi, per cui se un insegnante sgarra rischia il richiamo o addirittura il licenziamento. Occorre vigilare perché certe cose non accadano anche da noi.

 

Andrea De Benedetti

Così non schwa


Vele, pp.104