Ho letto di recente un mirabile libro di Isaiah Berlin, il grande filosofo britannico di origine lettone. Berlin in tutta la sua opera è riuscito nella non comune impresa di fondere la precisione argomentativa di marca analitica con una scrittura avvincente e comunicativa.
Il libro in questione si intitola La libertà e i suoi traditori (Adelphi 2005) e raccoglie la trascrizione di sei lezioni radiofoniche, ognuna dedicata a un diverso pensatore: Helvétius, Rousseau, Fichte, Hegel, Saint-Simon, De Maistre. È leggendo quella su Rousseau che nella mia mente si è creato un corto circuito tra il filosofo ginevrino, da un lato, la piattaforma di Casaleggio, che usurpa il suo nome, dall’altro, e l’opportuno pamphlet pubblicato dal costituzionalista Francesco Pallante nelle Vele Einaudi dal titolo Contro la democrazia diretta (2020).
Qual è, si chiede Berlin, la visione di Rousseau? È «l’enigmatico assunto della coincidenza di autorità e libertà». Rousseau avanza «gradatamente verso la singolare idea che ciò che occorre sono uomini che vogliono essere legati l’uno all’altro nella maniera in cui lo Stato forzosamente li lega». Sentiamo ancora Berlin: «Costringere un uomo a essere libero significa costringerlo a essere razionale. Un uomo libero è un uomo che ottiene ciò che vuole; e ciò che realmente vuole è un fine razionale. Se non vuole un fine razionale, non si può dire che voglia davvero; se non vuole un fine razionale, ciò che vuole non è una vera libertà, ma una falsa libertà. Io lo costringo a fare certe cose che lo renderanno felice. E se mai scoprirà in che cosa consista il suo vero io, me ne sarà grato: sta qui il nocciolo di questa famosa dottrina, e dopo Rousseau non c’è stato in Occidente un solo dittatore che non abbia utilizzato questo mostruoso paradosso per giustificare il suo comportamento. I giacobini, Robespierre, Hitler, Mussolini, i comunisti: tutti hanno utilizzato il tipo di ragionamento che consiste nel dire che gli uomini non sanno che cosa realmente vogliono, e che quindi volendolo per loro, volendolo per conto loro noi gli diamo ciò che in qualche senso occulto, senza saperlo, essi stessi “in realtà” vogliono». E ancora: «È questa la dottrina centrale di Rousseau, ed è una dottrina che conduce a una vera e propria servitù; e per questa via dalla divinizzazione della nozione di libertà assoluta finiamo gradatamente con l’arrivare alla nozione di un assoluto dispotismo».
Così, la scelta dei Cinque Stelle di chiamare Rousseau la loro piattaforma decisionale (ancora per poco, a leggere le cronache di questi giorni) assume una luce sinistra, ma tutt’altro che incoerente con le pulsioni giacobine dei loro inizi. L’idea cioè che il movimento sia tutto e che la volontà dell’organismo collettivo prevalga sulle sfumature e le opinioni del singolo membro del movimento. Esso, non a caso, si è battuto (contro l’articolo 67 della Costituzione) per instaurare il vincolo di mandato parlamentare. A queste considerazioni, a mio avviso, ben si accompagna Contro la democrazia diretta di Pallante, che con rigore e chiarezza ci spiega come in una democrazia, il momento più importante non sia tanto quello della decisione (e dunque il momento del voto) ma quello della deliberazione, ove si argomentano le diverse opinioni in merito a una decisione. Momento di arricchimento e comprensione delle diverse posizioni in gioco.
Francesco Pallante
Contro la democrazia diretta