Nel libro Sí vax. Dialogo tra un pragmatico e un non so voi dichiarate forte e chiaro che l’obbligo vaccinale non serve. Non serve inserire sanzioni pecuniarie e non serve identificare e prelevare ogni persona non vaccinata perché sarebbe semplicemente ingestibile. Cosa dire quindi della direzione presa con l’ultimo decreto rispetto all’obbligo per gli over 50 e alla sanzione di 100€?
Nel libro Piera dice che l’obbligo vaccinale non deve essere una questione di principio ma una questione pragmatica da valutare caso per caso. Noi siamo d’accordo con Piera ma capiamo le obiezioni di Riccardo! Per certe professioni (ad esempio il personale medico, gli insegnanti, le forze dell’ordine, i militari) l’obbligo vaccinale è importante. Sono lavori a contatto con il pubblico e lo Stato deve assicurare il diritto alla salute ai propri dipendenti e a chi fruisce dei servizi pubblici. Inoltre, è semplice controllare il rispetto dell’obbligo nel momento in cui le persone si presentano al posto di lavoro.
Tuttavia, un obbligo generalizzato pone tre problemi: primo, non è possibile imporre concretamente quest’obbligo (non possiamo mandare medici ed infermieri in ogni casa!); secondo, può acuire il senso di alienazione dei gruppi no-vax; terzo, si potrebbero aprire contenziosi legali ed è molto divisivo a livello politico. Per questo noi come Piera pensiamo che un obbligo non serva veramente ad aumentare in modo decisivo le vaccinazioni.
Le reazioni al decreto di metà gennaio che impone l’obbligo vaccinale agli over 50 dimostrano come queste preoccupazioni siano valide. L’aumento delle vaccinazioni è stato molto contenuto ma c’è stato un riacutizzarsi delle tensioni.
C’è anche una lezione generale che possiamo trarre da tutto questo. Una legge che si prefigge di cambiare abitudini personali (ad esempio mettere la cintura in macchina, evitare il consumo di alcolici prima di guidare, non fumare in luoghi chiusi in presenza di bambini) raramente viene rispettata se i cittadini non ne capiscono la ragione. Ma il dialogo ed il convincimento richiedono tempo. E nel caso delle vaccinazioni il tempo è poco e il dialogo si è interrotto.
L’intento del libro è molto evidente: il valore della discussione su ogni tema e anche su quello vaccinale. Si tratta di un dialogo tra due passeggeri sulla tratta dell’alta velocità Napoli-Bari. Una chiacchierata della lunghezza giusta per approfondire alcuni punti della questione sí-vax e no-vax ma anche abbastanza breve da non perdersi in vorticose diatribe senza via d’uscita. Cosa significa quindi il concetto di dialogo oggi?
Un chiarimento iniziale è d’obbligo. Il dialogo del libro non è in senso stretto un “dialogo platonico”. Nel dialogo platonico c’è una verità che viene scoperta con un metodo maieutico, come una levatrice fa nascere i bambini. Lo scopo di questo dialogo invece è di confrontare punti di vista differenti. Abbiamo cercato di dare dignità a preoccupazioni che sono legittime. Ad esempio, pensiamo che sia legittimo chiedersi come mai i vaccini siano stati sviluppati così rapidamente e se questo abbia conseguenze sulla sicurezza. Un altro esempio è la diffidenza verso Big Pharma. Queste sono imprese private che hanno i loro interessi e obiettivi. Non vanno demonizzate, ma neppure va dato loro un appoggio incondizionato. Questi temi e gli altri considerati nel libro si prestano a un dialogo per soppesare i pro e i contro. Il dialogo è la forma più naturale per questo.
Poi c’è un’altra ragione per cui è cruciale instaurare un dialogo sul tema della riluttanza a vaccinarsi (e più in generale sul green pass). Molti studi hanno mostrato come le persone cambino idea sulla vaccinazione parlando con amici e parenti di cui si fidano. Le lezioni ex cathedra, le notizie lette su internet, o sentite in un talk show non funzionano molto. Quello che conta è il rapporto di fiducia personale. Il nostro libro non vuole convincere direttamente una persona no-vax (che peraltro difficilmente comprerebbe un libro chiamato Sí vax!) ma è stato pensato per dare argomenti a persone che hanno dubbi (ni-vax) o vogliono dialogare con qualche no-vax.
La situazione cambia alla velocità della luce e molto spesso si ha la sensazione di essere nel caos. Informazioni e norme di pochi mesi fa non valgono più e anche le aspettative, le speranze, i ragionamenti sembrano perdersi nell’irragionevolezza. Tuttavia ognuno di noi, a suo modo, sta trovando un proprio compromesso, un modo di adeguarsi e stiamo quindi dimostrando una straordinaria capacità di adattamento. Quali sono dunque, in questo momento di confusione, le certezze a cui possiamo aggrapparci, dal punto di vista scientifico?
I tempi e le incertezze del virus non tengono conto dei tempi e della voglia di certezza delle persone. Ci spieghiamo. Un virus nuovo ha molte caratteristiche che non si possono conoscere ancora. Ci vuole tempo per capire ed imparare quali misure di contenimento siano più efficaci e quali terapie funzionino meglio. Due anni fa quando la pandemia è iniziata non si sapevamo molte cose sul virus, sulle cure più opportune, sui mezzi di contenimento migliori, su quando sarebbero stati disponibili i vaccini e sulla loro efficacia.
Però è una tendenza umana chiedere certezze subito specialmente in una situazione di ansia. Per usare una terminologia economica, c’è stato un grosso divario tra le domande legittime di certezze da parte del pubblico e l’”offerta” che viene dalla scienza. Questo divario tra (grande) domanda e (scarsa) offerta di certezze è un problema perché può venire colmato in malo modo. I politici in cerca di consensi possono dare false certezze; gli scienziati di secondo piano in cerca di notorietà possono dare false certezze; i filosofi dei talk show si proclamano esperti e distribuiscono false certezze (o talvolta seminano dubbi dove invece le certezze ci sono.) Quando la popolazione è legittimamente ansiosa e chiede certezze questo paga di più che un discorso equilibrato. Ma cosa fare per gestire questo “appetito di certezze?”
Elenchiamo alcune idee.
Prima di tutto, gli “esperti” (o quelli che sono percepiti come tali) dovrebbero riflettere su quello che dicono ed essere più responsabili. Chi ha una qualche autorità (o notorietà) presso il pubblico dovrebbe usarla in modo coscienzioso; sfortunatamente l’autorità ex cathedra viene usata in modo improprio anche da scienziati famosi. Esiste l’espressione “malattia dei premi Nobel” per descrivere come scienziati famosi che hanno per l’appunto ricevuto il premio Nobel in un campo specifico si sentano autorizzati a parlare di tutto dicendo inevitabilmente cose sbagliate. Attualmente il caso più eclatante è quello di Luc Montagnier (biologo e virologo francese), che ha preso posizioni assolutamente bizzarre ed eterodosse sul Covid-19 e su altri temi, ma sfortunatamente non è il primo.
In secondo luogo, bisogna ammettere chiaramente quello che si sa e quello che non si sa. C’è l’idea sbagliata che la scienza sia come una religione che ha delle certezze immutabili. Paradossalmente ogni nuova ipotesi scientifica che mette in discussione il consenso precedente viene presa come esempio del fatto che la scienza non funziona. Prendiamo un esempio molto recente.
Fino all’ottobre del 2021 non c’era consenso scientifico sul fatto che il richiamo vaccinale fosse necessario per aumentare in modo significativo la protezione contro il Covid-19. Un articolo apparso sulla prestigiosa rivista «Lancet» del 9 ottobre 2021 e firmato anche da Soumya Swaminathan, l’autorevole scienziata dell’OMS, sosteneva che non c’era evidenza convincente che il richiamo vaccinale fosse necessario per proteggere la popolazione generale. Come ben sappiamo nuovi dati hanno dimostrato che questo non era corretto e che il richiamo è necessario. Dovremmo considerarla una prova che la scienza è incorretta? Al contrario, questo mostra come la forza della scienza sia proprio la capacità di cambiare ipotesi in presenza di nuovi fatti.
Bisogna chiarire un punto sul ruolo del dubbio nella scienza.
A volte chi non ha più argomenti convincenti a favore della sua tesi ricorre alla strategia di seminare il dubbio (o meglio discredito) sulla tesi opposta anche se questa si basa su dati molti forti. A questo proposito possiamo ricordare un esempio famoso riguardante l’industria del tabacco di 60 anni fa. Quando ormai la stragrande maggioranza degli studi scientifici dimostrava che l’uso del tabacco è molto dannoso alla salute, i manager delle grosse imprese del tabacco decisero di comune accordo di non contraddire direttamente questi studi, ma piuttosto diffondere l’idea che c’era ancora incertezza sull’effetto del tabacco; questo dubbio pianificato ad arte indusse molte persone a non tener conto dei risultati scientifici.
Inoltre, bisogna riconoscere che ormai le posizioni sui vaccini sono diventate questioni identitarie. L’identità definisce ciò che uno pensa (non viceversa), per cui cambiare opinione significa cambiare identità. Dare informazioni diverse rispetto a quello che pensa il proprio gruppo di riferimento viene percepito come un attacco al gruppo stesso. Un esempio di quanto sia importante la questione identitaria è il caso dei no-vax convinti che, quando finiscono in terapia intensiva, continuano a negare il virus o rifiutano le cure. In questo tipo di situazione il problema non è certo la mancanza di informazioni (dopotutto stanno molto male), ma il fatto che loro si sentono testimoni estremi di una identità, cioè “martiri” nel significato originario della parola. Questo complica molto la strategia di comunicazione in quanto significa che i toni accesi possono dimostrarsi controproducenti, rendendo ancora più forte questa reazione identitaria.
È importante invece offrire occasioni per cambiare posizioni senza rinunciare alla propria identità. La variante Omicron, ad esempio, è molto più contagiosa della Delta, che era a sua volta più contagiosa della Alpha. Sarebbe bene far riflettere chi non si è sin qui vaccinato pensando che, adottando comportamenti molto prudenti, non si sarebbe contagiato, sul fatto che è molto difficile se non impossibile evitare di essere contagiati con la nuova variante. Decidere di vaccinarsi in questo nuovo contesto non va vista come una contraddizione di scelte fatte in passato, ma semplicemente una presa d’atto del fatto che le cose sono cambiate. In questo caso si può usare la frase attribuita a John Maynard Keynes: “Quando i fatti cambiano, io cambio opinione. Lei cosa fa?”
Tito Boeri, Antonio Spilimbergo
Sì vax. Dialogo tra un pragmatico e un non so