Viviamo in un momento in cui si parla molto di estinzione, di fine del mondo, di catastrofi, quindi si potrebbe dire che è in corso una sorta di millenarismo 2.0. Come si manifesta l’apocalisse oggi?
L’apocalisse in termini teologici non significa fine, ma rivelazione, eppure nell’immaginario collettivo abbiamo ormai legato questa parola all’esperienza di trovarci ai margini di una storia che finisce, alla sensazione diffusa di abitare un’imminente fine. Deve però consolarci sapere che questo sentire comune non ha a che fare solo con la nostra epoca, ma più volte nella storia, l’umanità ha vissuto questa sensazione di trovarsi ai margini della fine, nel cuore della fine del mondo.
A mio modesto parere, così come ho cercato di raccontare nel saggio dedicato a McCarthy, questo tipo di sensazione non dice qualcosa del mondo fuori di noi, che seppur ci riserva fatti di cronaca non rassicuranti, non è niente di meno di quello che molte volte le civiltà hanno vissuto nei cicli della storia; questa sensazione ci rivela un mondo dentro di noi. È nell’uomo contemporaneo un’apocalisse in atto.
Il nichilismo che ha tanto avvelenato la nostra cultura ci ha convinti a divorziare da un’esperienza di senso significativa, condannandoci a vagare senza più uno scopo preciso. La vita umana, quando è scissa da un significato, regredisce. L’arte, la letteratura, la musica e la stessa religione sono alfabeti attraverso il quale noi tentiamo di balbettare la fiducia che esista un significato attorno a cui la vita si struttura. L’infelicità diffusa non dipende più dalle condizioni fuori di noi, anzi siamo diventati sempre più evoluti in termini tecnologici, ma abbiamo avuto una immensa regressione a livello umano.
La nostra malattia ha un nome: è la religione dell’individualismo. E nell’individualismo c’è l’idolatria dell’io che vuole salvarsi da solo, prescindendo da quella che è la sua struttura principale, cioè le relazioni.
Le pongo qui la domanda, che compare sulla copertina del libro: «Esiste ancora una speranza?».
Certo che esiste una speranza. Ma quando pensiamo alla speranza non dobbiamo pensare a un’interpretazione convincente della vita. La speranza non è una filosofia, né tanto meno un sistema ideologico cristallizzato in un qualche movimento politico, culturale o persino teologico.
La speranza è un fatto nascosto sotto le macerie di ciò che ci accade. Non a caso il protagonista del romanzo di McCarthy non è motivato ad andare avanti a partire da una circostanza attorno a lui, o a un pensiero convincente nei propri ragionamenti. La sua speranza ha un volto, è il volto del figlio, è il fatto di una vita consegnata nelle sue mani. È questo che lo trattiene dalla morte. La vera educazione che dovremmo mettere in atto è quella di aiutare l’uomo contemporaneo ad accettare la fragilità della vita senza fughe e senza la falsa speranza di potersene liberare. Immaginarci vite ideali significa non accettare la vita reale. Ma è proprio nella vita reale un dettaglio messo lì per salvarci.
Quando si prende sul serio la concretezza della vita ci si accorge che in quella imperfezione è nascosto anche un motivo valido per cui vivere, e che diventa il vero fatto della propria speranza.
Ha ritrovato negli ultimi due libri di McCarthy da poco usciti in Italia, Il passeggero e Stella maris, la stessa miccia che ha acceso il suo ragionamento sulla possibilità di salvezza, che aveva individuato invece in La strada?
Il dittico finale rappresentato dagli ultimi romanzi di McCarthy a mio modesto parere ci offrono uno sguardo ancora più profondo sul mistero di questo autore. La sua riluttanza ad interviste o a partecipazioni pubbliche ci ha costretto tutti a dover capire McCarthy a partire solo dalla sua scrittura.
In questi ultimi due romanzi, legati tra di loro da una trama che lascia finalmente spazio anche a un mondo femminile che sembra quasi assente nei precedenti lavori, noi troviamo non solo una storia, ma troviamo una mescolanza geniale di scienza, filosofia, esperienza, metafisica. Il fondale di McCarthy è sempre un fondale di natura religiosa nel senso più laico del termine. Cioè tutto si spalanca sempre a qualcosa di più grande, di più profondo, di più alto.
Concordo con chi ha detto che questa è un’opera di congedo che continueremo a citare così come si cita il libro del Qoelet della Bibbia. Ogni frase ha una densità che esige molto tempo per essere fatta propria. Ma è proprio questa la caratteristica di McCarthy: egli non ci conduce verso una fine, ma ci mostra costantemente un fine che è presente in ogni cosa e che guida misteriosamente ogni cosa. Un fine che quando si intercetta non lascia fuori nulla del reale.
McCarthy educa ad avere una profondità che l’uomo contemporaneo ha smarrito nella sua superficialità. È nella profondità la via d’uscita di ogni buio. È lì che si tocca il cielo.
Luigi Maria Epicoco
Per custodire il fuoco. Vademecum dopo l'apocalisse