Narrativa straniera e Frontiere

«Non si può ignorare il dolore delle donne»: un’intervista a Sophie Mackintosh

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Alice Vincent 29 Settembre 2021 11 min

Le aspettative della società, la fertilità e la maternità, il dolore fisico che viene taciuto o minimizzato: il corpo delle donne è ancora e sempre conteso e regolato da soggetti diversi dalle donne stesse. Un'intervista all'autrice di Biglietto blu.

A Hollow Pond, il lago navigabile nella foresta di Epping, sbarcano gli ultimi clienti della giornata. Un tiepido sole emerge dalle nuvole basse: erano ore che non si faceva vedere. Io e Sophie Mackintosh camminiamo verso il bosco.

Il posto l’ha scelto l’autrice: c’è una parte di foresta ma ci sono anche distese di macchia, dove resti spettrali di alberi morti trafiggono la luce sbiadita. Non è isolato come il Pembrokeshire in cui è cresciuta, né somiglia ai fitti boschi della Svizzera che sono stati d’ispirazione per la movimentata foresta di Biglietto blu, il suo secondo e più recente romanzo. Ci si avvicina abbastanza, però.

Siamo all’aperto e sul finire dell’estate, non si vedono mascherine, e per un momento pare quasi di potersi dimenticare della pandemia. Da casa sua ci si viene a piedi, e mentre ci avviamo mi racconta: «Era bello, in pieno lockdown, poter dire: vado a fare una passeggiata di tre ore senza incontrare nessuno».

«E se non fossimo noi a decidere della nostra fertilità, se proprio non avessimo voce in capitolo?»

The Water Cure (di prossima pubblicazione per Einaudi) e Biglietto blu, i due romanzi di Mackintosh, sono libri che rimangono con il lettore a lungo. Il primo, pubblicato nel 2018 nel Regno Unito ed entrato nella longlist del Booker Prize, è valso all’autrice paragoni con Margaret Atwood. Vogue l’ha definita «una star del futuro» di questo decennio. È la storia di tre sorelle su un’isola remota e dall’atmosfera mistica, raccontata in modo asciutto attraverso narrazioni individuali e collettive; il libro evoca un mondo dalla mascolinità così tossica che le donne si ammalano. Quando gli uomini entrano nelle loro esistenze volutamente appartate, nella prosa essenziale di Mackintosh dilagano violenza e passione. È un libro che ti resta addosso.

Due anni dopo, con Biglietto blu, Mackintosh dice di aver scoperto «il suo ritmo nella scrittura, e di sentire che la sua voce si è fatta più solida».

La premessa è semplice: quando arrivano le prime mestruazioni, le ragazze vengono convocate a una cerimonia durante la quale ricevono un biglietto che stabilirà il tipo di vita che vivranno. Se è blu, non avranno figli: lavoreranno in città, faranno largo consumo di alcol e sigarette, e inanelleranno una serie di flirt di poco conto. Se è bianco, diventeranno madri, e quello sarà il loro unico compito. I biglietti vengono assegnati da un’autorità superiore e anonima – di cui si sa pochissimo – e le ragazze non hanno voce in capitolo. Quando la protagonista Calla, che è una biglietto-blu, rimane incinta, si lancia in una missione di fuga per salvaguardare una maternità che mai avrebbe creduto di volere.

«Faranno tutti paragoni con il primo», dice Mackintosh, e sebbene ci siano dei temi in comune con The Water Cure (desiderio femminile, restrizioni sociali inspiegabili, i misteri generati dal ritrovarsi in un corpo di donna all’interno di un mondo patriarcale), in Biglietto blu c’è un’atmosfera molto diversa. È un thriller che procede in modo chiaro laddove The Water Cure era una saga familiare perversa, e in un certo senso è più freddo, color seppia e fumo di sigaretta. Nel libro precedente, sotto la superficie si percepisce la presenza quasi costante di una minaccia. In questo, il lettore la minaccia se la sente addosso.

Entrambi evocano un mondo volutamente ambiguo. Non sappiamo mai il luogo e il tempo in cui è ambientato The Water Cure e, come spiega Mackintosh interrompendo con una risata roca la parlata svelta dalla cadenza gallese, Biglietto blu si svolge «in uno strano universo, che per certi versi sembra futuristico e autoritario e per altri fa dire: “Sono finita in un road trip movie anni Settanta dove fumano tutti?”. C’è anche un dottore in grado di seguire ogni nostra mossa, ma al contempo non c’è tecnologia».

Mackintosh immaginava Biglietto blu «come un horror che avesse al centro il tema del corpo femminile e la sua metamorfosi».

Tuttavia, Biglietto blu è innegabilmente un libro sulla maternità, sulla fertilità, e sulle aspettative della società nei confronti del corpo delle donne. Parla anche dei dolori tipicamente femminili, di cui Mackintosh dice, scusandosene persino, che potrebbe «discutere per ore». Sostiene che questo tipo di dolore non viene «preso sul serio», che la società tende a «considerarlo un qualcosa di patologico»; che il parto può causare ferite irreversibili, che prendere la pillola anticoncezionale può indurre le ragazzine a fare pensieri suicidi. «Desidero veder trattati certi temi con serietà, e voglio affrontarli con la dovuta cura», dice scaldandosi. «Sono cose che non possono essere ignorate».

Questo libro è anche assai più personale di The Water Cure. «Uno dei motivi per cui l’ho scritto è che stavo pensando moltissimo ai bambini», mi dice a intervista appena iniziata. «Stavo cercando di capire se volessi dei figli o meno. Ero decisa a non averne e all’improvviso ho cambiato idea. E mi è sembrato un enorme tradimento del mio corpo».

Mackintosh non è madre, anche se nelle interviste ha raccontato con sincerità di volerlo diventare. Ha poco più di trent’anni, l’età in cui le persone tutt’a un tratto si trasformano in genitori  («vedo i miei amici fare bambini, avere difficoltà a fare bambini, confrontarsi con gravidanze inattese»), e in cui la sensibilità di un individuo riguardo a determinati argomenti di colpo aumenta vertiginosamente. «Perché nessuno dice che ci si può rompere il bacino, o che si possono subire delle gravi lacerazioni, o che è l’azione più pericolosa che il nostro corpo può compiere?» dice d’un fiato. «È curioso che si possa essere tanto impreparate».

Biglietto blu è scaturito da qui. Mackintosh spiega che immaginava il libro «come un horror che avesse al centro il tema del corpo e la metamorfosi: e se una donna incinta fosse una cosa mostruosa? Poi è diventato qualcosa di leggermente diverso».

Quell’evoluzione è stata anche il risultato del suo processo di scrittura iper selettivo. C’erano libri e film che parlavano di donne che compivano viaggi in macchina: Morvern Callar, i due libri di Alan Mourner e l’adattamento cinematografico di Lynne Ramsay («molto importante dal punto di vista estetico»); Thelma e Louise, e Sotto la pelle di Michael Faber, che ha ispirato il film omonimo, ma anche bacheche di Pinterest e playlist di Spotify. È un’abitudine che a Mackintosh è rimasta dai tempi in cui scriveva The Water Cure mentre di giorno svolgeva un lavoro d’ufficio molto impegnativo. «Dovevo compilare infiniti fogli Excel, perciò mi mettevo gli auricolari e sentivo la colonna sonora che avevo preparato pensando a The Water Cure, e quella cosa mi aiutava a tenerlo in vita». Stavolta, per Biglietto blu, una delle canzoni più ascoltate è stata Cherry-Coloured Funk dei Cocteau Twins.

Come in Shirley Jackson o Ali Smith, non c’è una parola di troppo.

Una cosa che spicca nella scrittura di Mackintosh è la sua precisione. Come in Shirley Jackson o Ali Smith, non c’è una parola di troppo. Le frasi sono brevi, non si dilungano mai; anche le virgolette diventano superflue. Il canto degli uccelli somiglia a «una sveglia che suona», i denti cadono come «polvere, terra, ossa».

Ci sono pochissimi aggettivi, eppure riesce a evocare atmosfere e paesaggi nitidi e molto definiti: è anche per questo che i suoi libri sono così memorabili. Durante la sua fuga, Calla si ritrova nel quartiere benestante di coloro a cui è permesso avere una famiglia: un luogo altamente desiderabile; perciò Mackintosh ammanta l’intera scena di desiderio: «La sabbia cedette il passo a un gruppo di piccole case dipinte di giallo. Fiori e conchiglie nei giardini, panchine su cui potevi sederti a respirare l’aria di mare. Una zona da biglietto-bianco».

Le chiedo se la scrittura le viene fuori così. «So che ci sono autori che scrivono cose perfette fin dalla prima bozza, ma io proprio non sono il tipo», dice. «Le mie bozze sono prive di forma, disordinatissime. C’è tanta riscrittura. Avevo un’idea ben precisa di come volevo che fosse, e di che immagine volevo creare: sono molto scrupolosa».

Il sole tramonta sulla foresta di Epping. Illumina il lago mentre il cielo si fa via via più scuro, striato di nubi. Una brezza sottile fa frusciare i giunchi in mezzo ai quali il fotografo sta scattando le foto a Mackintosh. Il rumore dell’obiettivo e le indicazioni di lui rimangono sospesi nell’aria. 

Biglietto blu è stato pubblicato negli Stati Uniti pochi mesi fa, ricevendo critiche entusiastiche. Anche grazie a questa cosa, Mackintosh potrebbe scrollarsi di dosso l’etichetta di scrittrice di distopie: anzi, si sta facendo strada l’idea che ciò che scrive sulla maternità sia più che mai significativo in questo particolare momento, quando cioè il futuro prossimo, dal mese che verrà alla prossima settimana, per non parlare delle vite che verranno, paiono ormai tristemente incerti. Mi viene in mente una delle cose a cui aveva pensato mentre lavorava al progetto di Biglietto blu: «e se non fossimo noi a decidere della nostra fertilità, se proprio non avessimo voce in capitolo?»

In un periodo come questo, flagellato da una pandemia globale, da recessioni che mettono a dura prova la lezione della storia, e da una catastrofe climatica, la scelta di essere genitori appare sempre più carica di significato. Scrivendo di un mondo dove una decisione simile viene presa per noi, Mackintosh ha creato un riflesso provocatorio dell’universo in cui viviamo.

Intervista pubblicata in origine su Penguin.co.uk. Traduzione di Francesca Pellas.

Sophie Mackintosh

Biglietto blu


Supercoralli, Einaudi 2021, pp. 304
Traduzione > Norman Gobetti