Narrativa straniera e Frontiere

C’è solo il momento

V—L
Vincenzo Latronico 26 Gennaio 2016 9 min

Io e Mabel è il racconto di una donna e del suo astore, ma ci dice qualcosa anche del nostro modo di cercare un significato nelle storie vere.

Cos’ha di tanto speciale la verità? Negli ultimi tempi ho scoperto di essere sempre più attratto dalle opere letterarie che si occupavano di storie vere, cominciando dall’autofiction di Easton Ellis e Siti per poi sfociare nella prima persona di Ernaux e Didion e Lerner, e infine in quella di Carrère. Certi segnali (il grande successo di questi autori, il premio Nobel ad Alexievich) mi fanno pensare che quest’attrazione non riguarda solo me.

Potrebbe essere solo una moda, o una mutazione del rapporto con gli scritti indotta dal bombardamento di contenuti che ci arriva dalle tecnologie digitali. Oppure potrebbe esserci qualcos’altro: una differenza specifica nel modo di approcciare ciò che si scrive, una qualche misteriosa qualità emergente che brilla, nel testo, a certificare che ciò di cui parla è vero.

Naturalmente, il mio post-strutturalista interiore pensa che sia una sciocchezza. Di norma gli do ragione. Però a volte mi sembra di trovare qualche argomento da contrapporgli. Uno, ad esempio, mi è venuto da Io e Mabel.

Un astore è un rapace di medie dimensioni, dallo splendido piumaggio blu notte e bianco e grigio, noto fra i falconieri per essere intrattabile e difficilissimo da addestrare. Helen Macdonald, una storica della scienza a Cambridge, dopo la morte del padre ha lasciato il lavoro per dedicarsi anima e corpo ad addestrarne uno. Io e Mabel è il libro in cui lo racconta. È un libro incantevole e molto strano. Facciamo finta che sia un romanzo.

«È un libro incantevole e molto strano. Facciamo finta che sia un romanzo».

Quel romanzo sarebbe la storia di una donna che, obnubilata dal lutto, si lascia sprofondare in un’ossessione. Un po’ perché vuole porsi una sfida ardua e dimostrare a se stessa che ci riuscirà; un po’ perché è attratta dall’aspetto più cupo della comunione con la natura: l’idea che legarsi a un rapace sia come diventarne uno, ridursi completamente a sensi e istinto – arrivare ad agire sempre e non pensare mai.

In quel romanzo ci sarebbero molte scene da romanzo. La protagonista riceve un piccolo rapace all’alba su un molo; passa molti ridicoli pomeriggi a camminare in tondo per casa per abituare l’uccello a stare su un braccio; corre appresso i primi infruttuosi tentativi di volo nella campagna brumosa dell’Inghilterra; costruisce un rapporto, in qualche modo, con l’ottusa macchina da guerra con cui condivide l’appartamento; si trascina sotto la pioggia per la brughiera fangosa cercando di richiamare un rapace che si fa i fatti suoi; infine assiste con estasi alle prime prede ghermite in picchiata, vedendovi un successo dell’amata Mabel, e per estensione proprio.

Questo successo, nel romanzo, sarebbe simbolo di un altro successo: il superamento del lutto, la capacità di ricominciare, la riscoperta dell’Altro, simboleggiato dall’astore, dalla natura, dal partner in quella strana relazione a due, e quindi la rinascita della voglia di vivere.

Già; ma Io e Mabel non è un romanzo e Macdonald fa il possibile per sottolineare, mentre ci racconta quella storia, che le morali consolatorie che potremmo volerne trarre sono in larga misura di nostra invenzione.

Uno dei fili conduttori del libro è la figura di T. H. White, eccentrico autore di The once and future king (su cui è basato La spada nella roccia). Dopo una gioventù da maschio alfa, verso i trent’anni White si era ritirato in campagna, da solo, per addestrare un astore. Era convinto che domando quel simbolo di natura selvaggia avrebbe domato la propria omosessualità e la propria costante paura di essere un impostore. Naturalmente, non ci è riuscito.

Però ha tenuto un diario di quell’esperienza, che egli, letterariamente, giudicava altrettanto fallimentare. Lo ha pubblicato solo molto tardi, e su insistenza di un editore: perché per White non c’era ragione di interessarsi a quella storia di una realtà che resisteva a ogni interpretazione e proiezione simbolica.

Ma è per questa ragione che Macdonald torna così spesso sulla sua storia (le digressioni che punteggiano Io e Mabel potrebbero comporne una splendida, breve biografia): somiglia alla sua. Anche nella sua storia, che non è un romanzo, la falconeria non ha il significato che in origine voleva cercarvi.

«Mabel, la splendida astore, non accetta di fare da segnaposto per una qualche idea di natura o di libertà».

Mabel, la splendida astore, non accetta di fare da segnaposto per una qualche idea di natura o di libertà. Non impara, perché non ha cervello per imparare; quando reagisce male lo fa con inflessibilità algoritmica, e Macdonald la prende con la filosofia con cui un programmatore reagisce al crash di un computer – non avrebbe senso arrabbiarsi se non con se stessi. Anche nei momenti di maggior comunione Macdonald non si sognerebbe mai di paragonare il loro rapporto a quello che si può avere con un animale domestico – cani, gatti, cavalli, creature con cui presumiamo di condividere stati d’animo ed emozioni. A un certo punto, scrive che addestrare un astore è come addestrare un iceberg.

La stessa operazione di complicazione dei cliché viene applicata alle questioni di genere. Sarebbe stato facile fare della trama di Io e Mabel (donna + falconeria) uno stupido sceneggiato comico basato sull’incompatibilità fra una stereotipica leggiadria e un’attività incentrata sulla morte che piomba dall’alto. Altrettanto facile sarebbe stato farne un pamphlet sillogistico sul superamento di quegli stereotipi. Io e Mabel non è nessuna delle due cose: semplicemente, lì gli stereotipi non ci sono. La protagonista è un’accademica, ed è appassionata di natura, ed è figlia di un fotografo, ed è donna: ognuno di questi tratti contribuisce a definire lei, e il suo approccio alla falconeria, senza monopolizzarne il senso. Una cosa simile accade al lutto, la cui elaborazione non coinciderà, romanzescamente, con la cattura della preda, ma con l’inizio di una terapia antidepressiva.

Trovo che sia qui la grandezza di Io e Mabel: racconta una realtà troppo complessa per essere ridotta a una trama, pur mostrando, al suo interno, come il filo della trama può essere identificato. Ci sono le scene-chiave, i simboli, le descrizioni drammatiche: ma sono tali solo per qualcuno, solo un po’. C’è sempre qualcosa in più, che non torna.

«Trovo che sia qui la grandezza di Io e Mabel: racconta una realtà troppo complessa per essere ridotta a una trama, pur mostrando, al suo interno, come il filo della trama può essere identificato».

E forse è anche questa la forza particolare che cerchiamo nelle storie vere: che in quanto tali sono simboliche, ma male, in modo impreciso e involontario, e questo marchio sporco della realtà rende il simbolo tanto più forte. Nel romanzo su una donna falconiera possiamo leggere una sfida ai cliché di genere, o un peana alla natura, o un assalto alla modernità, o la metafora dolente di una fuga dal reale in seguito a un lutto. Ma nella realtà, scrive Macdonald,

«Non c’è una storia, qui. Solo il momento in cui mi giro e vedo il muso calmo e indimenticabile di un giovane coniglio che sbircia da una tana a tre metri da me, le orecchie dritte, il naso fremente. È una lepre, una femmina grigia. […] Mabel non la vede fino all’ultimo, proprio mentre la lepre si fa di aria risgusciando nel buco, ma, per ogni evenienza, deve precipitarsi lo stesso e inseguirne l’immagine residua, perciò si tuffa a sfiorare la tana con una zampa, prima di tornare ad appollaiarsi su un albero con la coda che vibra, lo sguardo sempre incollato a terra. E c’è il momento in cui la rincorro alla cieca, e la vedo agguantare un ramo di castagno, a dieci o quindici metri di altezza: un attacco fallito a uno scoiattolo grigio, che schizza su per gli avvallamenti elicoidali del tronco fino a mettersi in salvo ancora più in alto, mentre schegge di corteccia mi piovono intorno come delicati e cerei fiocchi di neve e Mabel torna al pugno. […] E poi ancora c’è il momento in cui mi viene incontro volando rasoterra, perché è quella l’unica strada in mezzo ai vecchi rami, e io osservo l’impercettibile sospiro delle sue penne dorsali mentre si avvicina e rallenta per atterrare sul guanto, bam!, le otto dita e relativi artigli che si serrano per poi, finalmente, rilassarsi. Allora mi guarda dritto negli occhi, in un’attesa che è un incendio».

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Vincenzo Latronico è scrittore e traduttore. Ha pubblicato, tra le altre cose, tre romanzi, tutti con Bompiani; scrive su IL, Studio e frieze. Su twitter è @vlatronico.

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