Narrativa straniera e Frontiere

I fantasmi sono di casa negli specchi

A—N
Anna Nadotti 10 Febbraio 2016 8 min

Il riflesso dell'identità e lo sguardo dell'altro.
Attraversando Boy, Snow, Bird di Helen Oyeyemi, un approfondimento di Anna Nadotti.

«Quello che succede dopo è quello che è successo prima»

 

«Nessuno mi mise mai in guardia dagli specchi, così per molti anni li ho amati e ho creduto che meritassero la mia fiducia». Inizia così il romanzo di Helen Oyeyemi, e così ci si presenta Boy Novak, voce narrante per buona parte del libro e sguardo cinetico sulla realtà che la circonda. Inizialmente un Lower East Side newyorkese ridotto a poche strade e a una spelonca di casa degna dei peggiori incubi dei fratelli Grimm. Quando torna da scuola Boy non viene chiusa in una gabbia in attesa di essere mangiata, ma poco ci manca, giacché il padre, un acchiapparatti di successo, non va per il sottile quanto a metodi educativi. La pesta fin quasi a farle perdere i sensi, con metodica imprevedibilità. Non che sia pazzo, tutt’altro. Vuole addestrarla. A cosa, e perché, il lettore lo scoprirà nelle ultime inquietantissime pagine.

Nel frattempo seguiamola, «la giovane donna riflessa nello specchio che strizza l’occhio a Boy in maniera quasi esagerata», seguiamola nella sua fuga da casa, quando una sera raggiunge a rotta di collo Port Authority, sceglie la meta più lontana che può permettersi coi pochi soldi che ha, e sale sull’autobus che la porta a Flax Hill, «collina di lino», Massachusetts, dove la gente è specializzata «nella creazione di oggetti di lusso». Boy ha vent’anni, è una ragazza «senz’arte né parte» che si muove, osserva, ragiona, parla, mettendo a frutto intuizioni fiabesche. A Flax Hill trova una stanza, delle amiche, qualche lavoro precario, dei pretendenti. Possiede un solo vestito, di shantung rosso, ma si concede molti balli. E non deve neppure rientrare prima dello scoccare della mezzanotte. Ogni tanto rallenta, perfetta figurina biondissima e bidimensionale, si dà il tempo di crescere, scioglie un indovinello e, come sempre nelle fiabe, compie un rito di passaggio – «… camminai verso lo specchio, senza troppa fretta, dandomi il tempo di fermarmi, se la cosa diventava troppo bizzarra. Baciai lo specchio premendo i pugni contro la lastra… il punto in cui la mia bocca incontrava la mia bocca sapeva di sangue, come se le nostre labbra fossero lame» –, e incontra il principe azzurro.

«Il punto in cui la mia bocca incontrava la mia bocca sapeva di sangue, come se le nostre labbra fossero lame»

Insegnava storia all’università, Arturo Whitman, poi, rimasto precocemente vedovo, si è messo a fabbricare gioielli che sembrano ispirati alle fiabe norrene; ha una figlia di sette anni, Snow; una madre, Olivia, e se è per questo anche una suocera, per non dire d’altre parentele che a poco a poco affollano lo schermo, ognuna col suo segreto, che scopriremo essere un segreto condiviso. Da questo momento Oyeyemi rimescola i ruoli e i riferimenti fiabeschi – un sottotesto per nulla accademico che induce e in un certo senso sfida chi legge a un gioco d’individuazione che diventa parte integrante e molto godibile della lettura. Perché il bello delle fiabe è che si possono riraccontare all’infinito, smentendone gli assunti o riassemblandone gli elementi narrativi.

Del resto si sa, nei giochi di specchi i fantasmi sono di casa. E nella vita di Boy le superfici riflettenti sono le più varie, specchi, vetri, caraffe, perfino i cucchiai, con l’ambiguo alternarsi di immagini concave e convesse che ne viene. Così, quando dal matrimonio di Arthur Whitman e Boy Novak (una vertigine di rimandi letterari e cinematografici nei loro nomi e nelle loro storie) nasce Bird, una bambina anche lei, ma sorprendentemente diversa da quell’altra, la storia che pensavamo di conoscere diventa un’altra storia: una meditazione sulla razza, il genere, l’amore. E solo ora ci accorgiamo del gioco di prestigio di Oyeyemi, perché neppure per un attimo ci siamo resi conto, e abbiamo già letto un quarto del romanzo, che la vicenda è ambientata tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. E la storia non è quella di Cenerentola, né quella di Biancaneve; e Alice non è sola dietro lo specchio.

Ciò che segue è da un lato il racconto della vita dei neri negli Stati Uniti in quegli anni – per capirci, nel 1955 Rosa Parks viene arrestata per aver rifiutato di cedere a un bianco il posto sul bus –, dall’altro quello dell’evoluzione del rapporto di Boy con Snow, e del rapporto fra Snow e Bird. E del rapporto di ognuna di loro con se stessa. Vanno d’amore e d’accordo. Ma le due sorelle sono destinate a crescere lontane, separate per volontà di Boy. Una decisione apparentemente inspiegabile. Si direbbe un inutile esperimento da parte di una donna che non ha mai conosciuto sua madre, e per questo incerta fra l’essere doppiamente madre o doppiamente matrigna. Per tutto il resto Boy è quella di prima, lavora come commessa nella libreria di Mrs Fletcher (che sembra quella di 84, Charing Cross Road, e dove passano ore i brillanti adolescenti bigiatori di scuola Sidonie, Phoebe e Kazim – chi ha orecchie per intendere, intenda! sembra dire Oyeyemi snocciolandone i nomi), e continua la sua vita specchiata. Eppure.

Ci sono pagine che rimandano alla poesia dei film di Miyazaki e pagine, le ultime, che sembrano uscite da un incubo hitchokiano

Imprimendo continue svolte alla narrazione, cambiando il ritmo e la voce narrante – prima Boy, poi Bird, poi di nuovo Boy, ma anche le lettere di Snow a Bird sono una voce, solo un po’ in sordina, come in una jam session di solisti affiatati –, Oyeyemi cambia le carte in tavola, è chiaro che ci vuole parlare d’altro. Perché le due sorelle, nel loro diverso colore, hanno in comune una pelle che resiste agli specchi: «A volte gli specchi non riescono a trovarmi… non succede sempre, ma piuttosto spesso… è come se prendessi lo specchio alla sprovvista», dice Bird, che ormai ha tredici anni, è innamorata di Louis Chen con il suo colore ancora diverso e, per ragioni sue, prende nota del comportamento della gente davanti allo specchio. Vorrebbe «prendere in castagna il proprio riflesso, come augurandosi che faccia un passo falso», che si facesse vedere, una volta per tutte, perché essere invisibili è come stare in mezzo al niente, o equivalere a un vuoto. Il compito di rassicurarla spetterebbe a una madre, «ma una sorella o un’amica, o un misto delle due, va bene uguale». E quando Snow le confessa che anche a lei succede la stessa cosa, lo specchio scompare. Il problema infatti non è incrinarlo per forzare una soglia, ma condividere un segreto, sostituire il riflesso con lo sguardo diretto, gestire la prossimità corpi, sperimentando la porosità delle barriere che separano una persona dall’altra. Sembra essere questo ciò che veramente interessa a Oyeyemi, e a cui lei piega sapientemente la narrazione. Mettendo chi legge di fronte all’ambiguità degli specchi. Si vede, nel suo raccontare, la frequentazione assidua del cinema, della musica, di universi visivi che rimescolano i miti e le immagini. Ci sono pagine che rimandano alla poesia dei film di Miyazaki e pagine, le ultime, che sembrano uscite da un incubo hitchokiano, con relativa colonna sonora. Non so se sia vero, come scrivono alcuni critici anglosassoni, che alla fine le identità si configurano trovando un loro assestamento coerente. A me sembra invece che Oyeyemi, così consapevole delle conseguenze sociali delle gradazioni cromatiche, non voglia assestare proprio nulla, che si diverta a tessere arazzi in technicolor, altri pastello, altri di una cupezza pari a certi giorni del presente. Meglio dar retta ai ragni, per dirla con Bird.

Ma la storia non finisce qui. Mentre i riflessi di Boy, Snow e Bird «si increspano sul pelo dell’acqua» e il lettore si appresta a farsi congedare, Mia, la migliore amica di Boy, che per mestiere raccoglie storie vere, allestisce un colpo di scena inatteso, come tutte le cose sotterraneamente annunciate, e a tutta prima incongruo, se non che invece ti resta dentro, o cucito addosso, se preferite. Ma questo Boy ce lo «spiegherà meglio quando saremo sul pullman».

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Anna Nadotti, lettrice per passione e per professione; traduttrice; editor e consulente editoriale. Ha tradotto, tra gli altri, A.S.Byatt, Anita Desai, Amitav Ghosh, e curato la nuova traduzione di Mrs Dalloway e Gita al faro di  Virginia Woolf. Scrive per «Leggendaria»,  «l’Indice» e «www.einaudi.it».