Narrativa straniera e Frontiere

Il percorso inquieto di Marilynne Robinson

P—G
Paolo Giordano 26 Gennaio 2016 9 min

Come i suoi personaggi, anche Marilynne Robinson non rinuncia a fare le domande più difficili. La grazia, la colpa, il perdono sono i grandi temi intorno a cui ruotano le sue storie.

Tanto vale che mi costituisca subito: la passione che ho per i libri di Marilynne Robinson ha pochi precedenti nella mia vita di lettore, la mia ammirazione per lei è all’incirca smisurata. Ho scoperto i suoi romanzi solo di recente, in maniera quasi fortuita, perché in Italia Marilynne Robinson non ha ancora ricevuto l’attenzione che le è invece tributata da tempo negli Stati Uniti, dove siede senza imbarazzo nel consesso dei massimi autori contemporanei, insieme a Philip Roth, Joyce Carol Oates, Cormac McCarthy e Toni Morrison. Forse, questa negligenza è dovuta anche al fatto che, al contrario di loro, Marilynne Robinson si è finora dimostrata un’autrice di straordinaria parsimonia. A settantun anni ha pubblicato appena quattro romanzi e alcune raccolte di saggi di una severità scoraggiante. Il suo primo libro, Housekeeping, uscì nel 1980 e fu un successo, ma gli seguì un silenzio di ventiquattro anni. Poi arrivò Gilead, che vinse il premio Pulitzer nel 2005. Da quel momento Marilynne Robinson non si è più allontanata dagli stessi personaggi – pochi, una decina appena – e dallo stesso luogo: Gilead per l’appunto, una cittadina perfettamente anonima nelle pianure dell’Iowa, a una settantina di chilometri da Des Moines.

Se non è questo il Grande Romanzo che l’America invoca per sé a intervalli regolari, allora non so davvero che cosa possa essere

Dopo Gilead arrivò Casa, nel 2005, e adesso esce Lila, il terzo episodio che prosegue (e forse conclude, chi può dirlo?) questa originale e lentissima saga. Ognuno dei tre romanzi si sofferma sulla prospettiva di un personaggio, e dietro le loro vicende scorrono i fondali della storia americana contemporanea, dalla Guerra di Secessione agli anni della Depressione, fino all’avvento della modernità. Prima di Marilynne Robinson, soltanto Faulkner nell’impronunciabile Yoknapatawpha e Roth a Newark erano riusciti a racchiudere una tale vastità in un luogo tanto circoscritto. Se non è questo il Grande Romanzo che l’America invoca per sé a intervalli regolari, allora non so davvero che cosa possa essere.

E tuttavia, non si deve pensare che Gilead, Casa e Lila siano romanzi che hanno necessità assoluta l’uno dell’altro, né che sia obbligatorio leggerli nell’ordine in cui sono stati concepiti. Benché la continuità tra i libri sia forte, vi sono differenze profonde di trama e soprattutto di stile, quasi che ognuno costituisse per Marilynne Robinson l’esplorazione di una forma narrativa specifica. Gilead era la lunga lettera-testamento che il reverendo John Ames scriveva al figlio avuto in tarda età, perché egli potesse conoscere qualcosa in più della vita del padre che avrebbe perso troppo presto. Ames raccontava della morte della prima moglie e dell’incontro con la seconda, la selvatica Lila, madre del bambino al quale la lettera era rivolta. Il reverendo Ames esprimeva poi preoccupazione per l’amicizia che Lila aveva stretto con Jack, il figlio del suo migliore amico Robert Boughton. Fin da bambino, Jack era stato un dissidente, un escluso, e aveva causato intorno a sé disastri e dolori non ancora curati dopo decenni. La figura di Jack Boughton è tra le più vive e struggenti che io abbia mai incontrato, e il secondo romanzo, Casa, era dedicato tutto a lui, al suo ritorno nelle stanze dove il padre viveva accudito dalla figlia Glory. Casa si muoveva in una manciata di ambienti e attraverso i dialoghi difficili fra i tre famigliari, costretti dopo tanto tempo a fare i conti con il risentimento e la sofferenza. In certe parti assomigliava perfino a un testo teatrale.

Lila è il più avventuroso dei tre libri

E adesso, finalmente, arriva Lila. La moglie di John Ames, che in Gilead e Casa appariva schiva ed enigmatica, quasi imprendibile per il lettore, ha dovuto aspettare dieci anni perché la sua storia venisse svelata. Lila è il più avventuroso dei tre libri, perché la sua protagonista ha avuto una vita tutt’altro che tranquilla, una vita che teneva ben nascosta dietro l’apparente compostezza. Figlia di nessuno, è stata sottratta da piccola dalla casa dove veniva trascurata e maltrattata. Doll, una ragazza con il viso sfregiato e in costante fuga da qualcosa o da qualcuno, l’ha presa con sé, rapita, e poi accudita come una figlia. Per sopravvivere, insieme si sono unite a una compagnia di lavoratori vagabondi guidata da un tale Doane. Lila è cresciuta all’aria aperta, esposta alle intemperie, al freddo, alla siccità e alla miseria irredimibile degli anni della Depressione. Non ha avuto alcuna istruzione e, ormai adulta, ignora ancora certi fatti essenziali del mondo, fra cui ogni concetto astratto. Non sa, per esempio, che cosa significhi «esistenza». Ne ha sentito parlare, ma senza mai capire di che cosa si trattasse.

È questa sua purezza arcaica ad attrarre il reverendo John Ames, che in un giorno di pioggia battente vede Lila entrare nella chiesa di Gilead in cerca di riparo. Lila è arrivata quasi per caso. Gilead era solo un’altra tappa del suo peregrinare inquieto, una cittadina dove aveva trovato una baracca abbandonata in cui dormire. Ma non se ne andrà più da lì e diverrà la moglie del reverendo. Una alla volta, imparerà ad allentare le sue resistenze contro gli uomini e gli esseri umani in genere, fino ad abbandonarsi a una storia d’amore asimmetrica in tutto, nell’età come nelle esperienze. Da quella storia nascerà un bambino, al quale un giorno il padre dedicherà una lunga lettera-testamento.

Lila si muove con un’agilità mai meccanica fra il passato della protagonista e il suo presente insieme al reverendo Ames. Intorno a loro, fugacemente, compaiono i personaggi che forse abbiamo già amato in precedenza, in particolare Robert, Jack e Glory Boughton.

Ma il vero collante fra i libri della saga di Gilead non è la riproposizione degli ambienti e dei caratteri. Il collante è semmai il ritorno costante di Marilynne Robinson ai temi che la tormentano dall’inizio, anche nei saggi, e che riguardano il rapporto fra l’uomo e il Dio cristiano. Non per niente, i due decani del ciclo sono entrambi pastori, John Ames e Robert Boughton. Se Gilead affrontava la difficoltà del perdono e il concetto forse più affascinante e scivoloso dell’intera dottrina cristiana, la grazia, in Casa la ricomparsa di Jack Boughton altro non era che un’espansione assai problematica della parabola del figliol prodigo.

In Lila, invece, i protagonisti mai nominati sono il Male, la Perdizione, l’Ingiustizia e l’impossibilità di conciliarli con l’amore compassionevole di Dio. Dov’è la possibilità di redenzione per gli emarginati come Lila e Doll e Doane, per chi non sa nulla e può sopravvivere solo attraverso gli espedienti e talvolta la violenza? «Non ho mai avuto intenzione di restare ignorante per tutta la vita», dice Lila, «ma non ho potuto farci granché.» Tutto ciò che lei rappresenta in carne e ossa mette in crisi le convinzioni religiose radicate fin dalla nascita in John Ames. I dubbi di Lila lo disarmano, fino a fargli confessare che, forse, ciò che ha capito in tanti anni di studi e sermoni e preghiere è praticamente nulla. «‘Cosa succede se sei perduto?’. Lui rispose: ‘Lila, tu fai sempre le domande più difficili’».

Come Lila, anche Marilynne Robinson non rinuncia a fare le domande più difficili

Come Lila, anche Marilynne Robinson non rinuncia a fare le domande più difficili, le sue pagine ne sono addirittura intrise. Si può decidere di soffermarcisi o le si può trascurare per non interrompere il racconto, ma affioreranno comunque al momento opportuno. Sono domande che non hanno un tempo, non appartengono al passato né all’oggi, perché risiedono intatte nell’uomo dal momento in cui ha considerato la possibilità del divino. Marilynne Robinson sembra avere fatto proprio il monito che Faulkner mosse a scrittori e poeti al conferimento del premio Nobel, quando li esortò a occuparsi delle «antiche verità universali, senza le quali ogni storia è effimera e fallimentare». Per lei, tali verità si chiamano grazia, peccato, compassione, perdono, dolore. Schiacciati sotto il loro peso, ci muoviamo a stento tutti noi, con la nostra piccola sopravvivenza, i nostri riti quotidiani, la nostra folle e inguaribile speranza di essere infine salvati.

Articolo apparso originariamente sul Corriere della sera. Ringraziamo l’autore e il giornale.

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Paolo Giordano è uno scrittore. Il suo ultimo libro è Il nero e l’argento (Einaudi). Collabora con Il Corriere della Sera.