Sono in piedi sulla sabbia vulcanica nera della spiaggia a 64°N vicino a casa mia a Reykjavik. Sono le due di notte del 22 giugno 2016 e tutti dormono ma io la mia vicina foca giochiamo tra le alghe. Dormono le anatre e dormono le persone. È come guardare un film muto. L’Islanda è un’isola e dall’altra parte dell’oceano, molto più a sud, c’è l’Italia. Il sole è tramontato un’ora fa ma non ha fatto buio. Sono apparse giusto due strisce arancioni a colorare il cielo. Adesso c’è di nuovo la normale luce diurna.
Rimanere sveglia durante una notte d’estate mi ricorda quando stavo scrivendo il mio primo romanzo, Il rosso vivo del rabarbaro, poco prima del 2000. All’epoca facevo l’insegnante di storia dell’arte in tre diversi istituti e avevo un bambino piccolo. È per questo motivo che non avevo altro tempo per scrivere che in vacanza d’estate, di giorno… e di notte. Il libro è ambientato intorno al 1970 in un piccolo villaggio di pescatori tenuto in piedi soprattutto dalle donne che, anche, cantano nel coro e recitano nella compagnia locale. Siamo poco dopo che il primo uomo ha camminato sulla Luna e che in Islanda sono apparsi i primi televisori. Erano in bianco e nero, i televisori, come la sabbia e il mare. Anche la Luna era in bianco e nero, a differenza della luna piena della notte scorsa che era una splendida «strawberry moon», la luna piena del mese di giugno, il mese delle fragole. Augustina, la protagonista del Rosso vivo del rabarbaro è una ragazza che non assomiglia a nessuno (conoscete qualcuno che assomiglia a tutti? Io no). Viene concepita a agosto in un giardino di rabarbaro, l’unica «foresta» della mia isola nera. L’altra protagonista del libro è la natura islandese: perché se vuoi essere uno scrittore islandese devi partire dalla natura. Da quando ho scritto Il rosso vivo del rabarbaro ho pubblicato quattro romanzi (e ho quasi finito il quinto), un libro di poesie e quattro pezzi teatrali, ma le mie radici sono qui, nel mio primo romanzo. Nel senso che nei libri successivi torneranno molti dei temi che sono già qui: il femminile, la maternità, il conflitto tra il linguaggio e il corpo, il cibo, gli uccelli, l’isola, bambini concepiti in posti strani, l’imprevedibilità della natura, e protagonisti che non assomigliano a nessuno, come una ragazza «senza gambi»… Ma la mia specialità è sempre scrivere in una lingua minore che nessuno comprende!
Lo ha promesso piú volte: non andrà mai da sola giú al molo. Con le stampelle è un attimo slittare sull’untume di pesce e finire in mare.
«E se l’onda ti prende…» dice Nína.
Cosí ha deciso per la spiaggia, la sua spiaggia. Che proprio a lei possa venire in mente di avventurarsi da quelle parti non lo crederebbe nessuno. L’impressione che dà, quando arranca tutta storta sulle stampelle, non è certamente quella di un’amante del brivido. E invece, mentre Nína sbuccia le patate senza l’ombra di un sospetto, lei non fa che giocare d’azzardo con la vita.
Il sistema che ha inventato, e che le permette di ingaggiare un corpo a corpo molto personale con l’oceano, consiste nel procedere sui ciottoli rotondi della spiaggia con movimenti ondulatori, trascinandosi sulle mani, tipo gli acrobati dei circhi equestri quando si aggrappano alla criniera dei cavalli. Le gambe, intrecciate l’una all’altra, come i tentacoli di un celenterato, seguono a strascico segnando la sabbia con un unico solco. Nína non lo capisce che lei è la foca dei faraglioni e la sabbia nera della spiaggia il suo ambiente naturale.
Una volta giunta nel suo angolino preferito, si distende pancia in su e appoggia la testa fra due rocce, in modo che la sua visuale coincida con la linea d’orizzonte che unisce cielo e mare, proprio al di sopra dell’ombelico e del bacino. L’odore è un misto di salato e di asprigno. Cosa starà facendo Nína? A quell’ora, forse, pulisce il pesce. Il procedimento è consolidato: afferrare saldamente il pesce dalla parte della coda, praticare un’incisione sottile nella carne bianca proprio all’estremità e poi strappare via la pelle in un solo colpo, rapido e sicuro.
Dalla spiaggia, la casa rosa salmone non si vede, e nessuno sa che lei è qui. Nessuno tranne Dio, che la tiene sotto mira quotidianamente, giusto giusto sulla sua traiettoria di tiro, scoperta, indifesa: vista dall’alto, un minuscolo puntino sulla spiaggia.
Ed eccolo che appare, il Creatore, sotto forma di colomba e con una cinepresa da otto millimetri in grembo. Girerà un documentario su di lei, la sua creatura (la spia lampeggia a intermittenza regolare e spande sulla scena un chiarore rosato). Veramente, a uno sguardo piú attento, quello che si libra fra terra e cielo non sembra affatto una colomba. No, è uno stercorario artico; e volteggiando in spirali sempre piú strette la incalza, per poi puntare dritto su di lei come un cacciabombardiere sull’obiettivo, nauseabondo e strepitante. Perché lei non ha gambe per poter fuggire. Ma ha le stampelle, e ne basta una, per centrare in pieno il volatile. Cosí. Saper cogliere il momento giusto per volgere in proprio favore le circostanze della vita: ecco l’importante. Oltretutto, quel tratto di costa appartiene soltanto a loro due: a lei e a Dio. È lí che i loro regni si congiungono. Secondo una certa prospettiva, poi, se lei chiude le spalle e raccoglie le ginocchia a sé, può riempire l’intero giro dell’orizzonte. Può riempire il mondo, gettare la propria ombra su tutto ciò che esiste. Che D-I-O abbia da ridire?
Infatti. L’intenzione è proprio quella di cogliere l’occasione e discutere un po’. Lei da una parte, Lui dall’altra, e in mezzo lo strato di nembi cumuliformi.
Discutere a quattr’occhi. Non per litigare come ieri, non serve a niente intestardirsi. Ad ogni modo, ricordargli che sui miracoli divini esiste tutta una tradizione storica può sempre essere utile.
Oggi, da lassú, Dio non sembra ascoltare.
«Siamo cosí pochi, cosí piccoli, – dice Nína, – e cosí lontani dal cielo».
Gli uccelli la puntano, in gara con la marea che sale.
In attesa che il mare gelido cominci a lambirla dietro le ginocchia e poi si insinui su verso le cosce e la schiena, sente che le gambe le si stanno addormentando. È rimasta stesa sulla riva quel quarto d’ora di troppo. Ma qualche chance di non arrivare in ritardo per la cena ancora ce l’ha.
Dalla tasca bagnata tira fuori la lettera, la arrotola e la spinge nel collo della bottiglia, ci fa scivolare dentro un po’ di sabbia nera, quindi mette il tappo. Non è la prima, ma l’onda successiva, a ghermire la bottiglia, che si inclina di lato e poi a testa in giú nella spuma gialla. In un attimo è già al largo, dove si aprono i grandi abissi e i cavalloni urtano vorticosi gli uni contro gli altri.
C’è il tempo per un ultimo volo di ricognizione. La mente si solleva nell’aria con lentezza, come un elicottero della protezione civile alla ricerca di una ragazzina smarrita sulla spiaggia. Dall’elicottero, l’uomo si sporge in fuori per metà e urla in un megafono: – È in tavola, Ágústína: pesce lupo fritto e budino al rabarbaro con panna.
***
La casa sorge nella zona alta del paese. Da una parte c’è l’oceano, dall’altra incombe La Montagna, ottocentoquarantaquattro metri sopra il livello della spiaggia di sabbia nera (la sua spiaggia), il punto piú alto della regione, e centro e perno del villaggio. È là che si dirigerà, fra non molto. A dare alla casa il suo aspetto particolare è senza dubbio la torre viola, la cui origine, cosí come la sua funzione, non è mai stata molto chiara. Quanto ai colori, sia la casa sia la torre dovevano essere ritinteggiate e Vermundur in magazzino aveva delle rimanenze di vernice, appunto viola e rosa salmone. E cosí…
Al piano terra ci sono la sala, la cucina e la stanza da letto di Nína. Camera sua, invece, si trova nella torre. La prima volta le vertigini l’avevano quasi fatta svenire, ma c’era riuscita. Si era arrampicata sulla scala ripida su su fino in cima e senza mai fermarsi, trascinandosi a quattro zampe sul linoleum consumato di quei tredici gradini. Cosí se l’era guadagnata: camera con vista, una vista che spazia in tutte le direzioni. Oltre i tetti in lamierino ondulato, argentati e scintillanti dopo le piogge, spiccano La Montagna e il campanile della chiesa, ovvero l’altra torre del villaggio. Stando seduti sul letto, invece, non si scorge la terraferma, come se la torre galleggiasse in pieno oceano.
Nel seminterrato c’è il laboratorio di Vermundur. In paese, le donne sono per la maggior parte del tempo vedove dei loro uomini, che sono uomini di mare. Cosí è Vermundur che in casa loro ripara e sistema un po’ di tutto: radio, sveglie, lavandini otturati, tubature; dopo il passaggio di certe perturbazioni particolarmente intense, sostituisce anche i vetri rotti. Se a casa sua e di Nína c’è bisogno di fare qualche lavoretto da uomo, la disponibilità di Vermundur è totale. In questo periodo è preso dai televisori e ha fatto presente a Nína che non gli sarebbe difficile procurarle un Blaupunkt, apparecchio di gran qualità. Ma Nína non è convinta, non saprebbe neanche dove infilarlo, nella piccola sala. E poi, ha già la radio.
– Ora non ci sono piú le guerre dei sei anni, ma le guerre dei sei giorni.
Dato che Vermundur ha un giradischi, dal laboratorio del seminterrato sale la musica. Kinks: You really got me. Girl, you really got me now….
Auður Ava Ólafsdóttir, Il rosso vivo del rabarbaro, Einaudi 2016. Traduzione di Stefano Rosatti.
Auður Ava Ólafsdóttir è nata a Reykjavík nel 1958. È l’autrice di Rosa candida e La donna è un’isola e L’eccezione. Di lei Paolo Giordano ha scritto: «Rosa candida ubbidisce al tempo sospeso delle fiabe come se fosse stato scritto da un’eremita riparata per anni in un fiordo, senza radio, giornali o televisione: una bella boccata di ossigeno».