Narrativa straniera e Frontiere

Purity, Chip e io

S—P
Silvia Pareschi 11 Marzo 2016 6 min

Franzen, la sua traduttrice e gli imprevedibili rischi che si possono correre traducendo.

Con Franzen, per me, è sempre stata una questione di identificazione. Identificazione con il suo stile, con quei periodi lunghi e complessi, piuttosto atipici per uno scrittore americano, che ogni volta affronto con un gusto quasi enigmistico per la ricomposizione della sintassi all’interno del senso. Con le sue parole nitide, mai scelte a caso (– Come hai reso quel «Pussycat» all’inizio di Purity? – mi ha chiesto mentre stavo lavorando alla traduzione. – Micetta, – gli ho risposto. E lui: – Suona un po’ strano in italiano? – Sì. Non sono molte le madri che chiamano la figlia «micetta». – Bene. Lo stesso vale per «pussycat» –. Sollievo. La prima parola del libro aveva ricevuto la sua approvazione). Con le sue idee che ormai, dopo tanti libri tradotti e tante conversazioni, mi scivolano addosso come un vestito comodo, in cui mi sento a mio agio (grazie a lui sono anche diventata ornitofila. Birdwatcher no, bisogna alzarsi troppo presto).

Questo processo di identificazione si è verificato in varia misura con altri autori che ho tradotto, ma in genere si è limitato all’ambito dello stile: mentre traducevo un libro scoprivo che la mia scrittura personale veniva influenzata da quella dell’autore che stavo traducendo, una presenza invisibile ma assidua che mi sussurrava all’orecchio la scelta delle parole e la forma dei paragrafi. Nel caso di Franzen, invece, è capitato che la letteratura si mescolasse alla vita in forme sorprendenti.

Per un po’ ho continuato a cercare Pip in tutte le ragazze che vedevo girare in bicicletta per la città

Oggi vivo parte dell’anno a San Francisco, e la protagonista di Purity vive a Oakland, a venti chilometri da qui. Conosco bene quella nebbia che «si riversava giù dalle colline di San Francisco come un liquido, e quasi lo era. In giornate migliori si spandeva sulla baia e conquistava Oakland strada dopo strada, una cosa che guardavi arrivare, un cambiamento che vedevi su di te, una stagione in movimento». Quello che ogni traduttore deve sforzarsi di fare, vedere quello che l’autore descrive per poi ridescriverlo nella propria lingua, io ho avuto la fortuna di farlo semplicemente uscendo di casa e alzando lo sguardo, o ricorrendo alle immagini di prima mano che conservo nella memoria. Con l’emozione di rivedere quelle stesse immagini con gli occhi dell’autore e tradurle con le mie parole. Poi Franzen mi ha accompagnata a Felton, il paese sulle Santa Cruz Mountains dove si trova – esiste davvero – il New Leaf Market, il piccolo supermercato dove lavora la madre di Pip. E ha voluto mostrarmi la pozza dove Pip nuota insieme alla madre, che nella realtà si trova all’interno dell’Henry Cowell State Park. Il creatore di quei personaggi mi stava indicando i luoghi veri dove li aveva immaginati vivere, parlare, lavorare, e la sovrapposizione di realtà e letteratura è diventata così intensa che per un po’ ho continuato a cercare Pip in tutte le ragazze che vedevo girare in bicicletta per la città.

All’origine di tutto ci sono Le correzioni

All’origine di tutto ci sono Le correzioni. Io e Marisa Caramella, l’editor con cui lavorai a quel libro, giocavamo a immedesimarci nei personaggi. Lei era a tratti Chip e a tratti Enid, io ero decisamente Chip. Probabilmente lo dissi a Franzen, perché riguardando l’intensa corrispondenza a tre che ci scambiammo durante la traduzione ho trovato una sua e-mail del gennaio 2002 che ha come soggetto: I love Chip, too. Poco dopo avrei scoperto che Le correzioni faceva lo stesso effetto a chiunque lo leggesse, e credo che questa sia una delle principali ragioni del suo successo. Lo stesso Franzen racconta che tantissimi lettori gli hanno parlato della loro identificazione con i personaggi del romanzo: molti si sono immedesimati in Chip, molti in Enid, alcuni in Denise, qualcuno persino in Gary; l’unico in cui nessuno si è mai immedesimato è Alfred, il padre antiquato e severo.

Un giorno, molti anni dopo Le correzioni, entrai in un piccolo supermercato newyorkese dell’Upper East Side, con l’intenzione di fare la spesa per la cena di quella sera. Gli ospiti erano proprio Franzen e la sua compagna Kathy. Non conoscevo quel supermercato, lo avevo scelto a caso, e siccome ero di fretta non controllai bene i prezzi di quello che compravo. In fin dei conti erano poche cose per una cena semplice. Quando la cassiera pronunciò la cifra esorbitante che dovevo pagare, mi tornò in mente l’episodio in cui Chip «si ritrovò davanti al nuovo Incubo del Consumo. […] Chip s’insinuò […] fino al banco del pesce, dove, come in un sogno, trovò SALMONE NORVEGESE PESCATO ALL’AMO in vendita a un prezzo ragionevole. […] Il prezzo del bel pacchetto che gli fu consegnato era di $78.40. Per fortuna quella scoperta lo lasciò senza fiato, altrimenti avrebbe potuto protestare prima di accorgersi, come fece in un istante, che i prezzi dell’Incubo erano all’etto. […] – Ha, ha! – disse, tenendo in mano il filetto da settantotto dollari come un guantone da baseball. Piegò un ginocchio a terra, si toccò i lacci delle scarpe, fece scivolare il salmone dentro il giubbotto di pelle e sotto il maglione, si infilò il maglione nei calzoni e si rialzò in piedi».

Quella sera, durante la cena, Franzen mi chiese dove avessi comprato quelle ottime mozzarelline. – Da Eli’s, – gli risposi. E lui, impassibile: – Oh. That’s the Nightmare of Consumption.
Senza saperlo avevo fatto la spesa all’Incubo del Consumo. Se lo avessi saputo prima, mi sarei infilata le mozzarelline sotto il maglione.

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Silvia Pareschi è traduttrice e scrittrice. Ha tradotto, oltre a quelli di Jonathan Franzen, i libri di Zadie Smith, Denis Johnson, David Means, Nathan Englander e molti altri. Il suo primo libro si intitola I jeans di Bruce Springsteen – e altri sogni americani: uscirà a maggio per Giunti. Il suo blog è Nine hours of separation.