Monaco e poi soldato. Filosofo e attivista politico. Esiliato e imprigionato. Irriverente e insostituibile voce della letteratura contemporanea, Hwang Sŏk-yong rappresenta un lucido testimone delle più significative vicende che nel secolo scorso hanno segnato la storia delle due Coree e dell’Asia Orientale. Nato nel 1943 a Changchun, in Manciuria, all’epoca sotto il controllo giapponese, solo al termine della Seconda Guerra Mondiale poté fare ritorno in patria, presso la famiglia della madre. Il destino, però, lo costrinse a continue migrazioni, prima a Seoul e poi – durante gli anni della Guerra di Corea – nei campi profughi allestiti nel sud est della Penisola dopo l’invasione dell’esercito del Nord. Nei mesi e nelle vicende che seguirono lo scoppio del conflitto, nell’animo del giovane Hwang sedimentò la tragica esperienza della guerra, dell’abbandono e della separazione che diventarono i motivi principali del suo Il signor Han, la storia di un medico di P’yŏngyang costretto a fuggire al sud dopo lo scoppio del conflitto. Sono gli stessi motivi che d’ora in avanti avrebbero aleggiato immancabilmente in molte delle pagine della sua produzione letteraria.
Agli inizi degli anni ’60, Hwang abbracciò la vita monastica entrando nel tempio di Changch’un, da cui uscì per volontà della madre. Il suo esordio come scrittore coincide con questa fase della sua vita: meritò i suoi primi riconoscimenti nel mondo della letteratura con due racconti Nei paraggi del menhir (1962) e poi Pagoda (1970). Dopo la salita al potere del presidente Pak cui corrispose un’impennata della crescita economica, il suo sguardo si rivolse alla società sudcoreana, all’alienazione dell’urbanizzazione e alla frantumazione dei valori tradizionali innescate dall’industrializzazione. In questi temi trovò lo spunto per due racconti che decretarono il suo successo nazionale come scrittore: Terra Straniera e La via per Samp’o. È sempre in quegli anni che intraprese la stesura di un romanzo storico, Changgilsan (1974-84) – un Robin Hood in versione coreana – che lo avrebbe impegnato nei successivi dieci anni, consentendogli di affermarsi come una delle grandi voci della letteratura contemporanea anche in Corea del Nord.
Arruolato forzatamente nella Marina Militare, partì per il Vietnam dove rischiò ripetutamente la vita e si confrontò nuovamente con la dolorosa esperienza della guerra, che poi avrebbe ricostruito nel suo romanzo di più ampio respiro: All’ombra delle Armi, pubblicato nel 1989. Proprio nel marzo di quell’anno, l’invito da parte della Lega Generale della Letteratura e dell’Arte di Chosŏn (Corea del Nord) rappresentò nel suo percorso umano e letterario una via di non ritorno. Desideroso di contribuire in prima persona al dialogo fra le due Coree e forte del clima di distensione tra Seoul e P’yŏngyang – Hwang infranse la Legge di Sicurezza Nazionale che impediva ai Sudcoreani di recarsi al Nord e salì su un aereo che lo avrebbe portato al di sopra del trentottesimo parallelo, dove avrebbe incontrato scrittori nord coreani e il leader Kim Ilsŏng. Al termine della sua missione, per evitare la condanna, optò per un esilio volontario in Germania, dove fu invitato come autore presso la Universität der Künste di Berlino.
Quando, però, alla fine di quest’esperienza fece ritorno in patria, le autorità gli comminarono ben sette anni da scontare in carcere, ridotti poi a cinque per merito dell’amnistia del premio Nobel per la pace, il presidente Kim Daejung. Fu solo la sua tenacia e la sua tempra che gli consentirono di resistere all’improba esperienza dell’isolamento e, una volta libero, di ritornare a una frenetica e costante attività di scrittura che gli permisero ben presto di affermarsi come uno degli autori più prolifici e seguiti nel panorama letterario coreano contemporaneo.
A dispetto dei tanti anni vissuti all’estero e della lunga parentesi del carcere, Hwang ha avuto il merito di mantenere intatto e profondo il suo legame con la cultura e la tradizione coreana che rappresentano ancora oggi la fonte più ricca d’ispirazione delle sue opere. I lettori italiani hanno già avuto modo di constatarlo nella lettura di Come l’acqua sul fiore di loto (Einaudi, 2007), una rivisitazione in chiave moderna del racconto classico di una fanciulla, Shim Ch’ŏng, che arrischia la sua vita per aiutare il padre.
A cavallo tra autore di romanzi storici e di fiction postmoderne, Hwang in Bianca come la luna ha attinto ancora – a piene mani – dal repertorio più antico della tradizione coreana: questa volta quello dello sciamanesimo. Lo aveva già fatto nel L’Ospite, che aveva come sfondo un massacro in Nord Corea durante la guerra coreana e che era impostato come un vero e proprio kut (rito sciamanico). In Bianca come la luna l’autore rievoca la storia della principessa Bari abbandonata dai suoi genitori e poi partita alla volta dell’aldilà per recuperare un elisir di lunga vita per salvare il padre. Questa trama si riveste nel romanzo dell’esperienza del tutto fantasiosa di una bimba nord coreana che, diventata orfana nelle prime pagine del romanzo, scappa prima in Cina e poi a Londra, dove trova lavoro come massaggiatrice e sposa poi il nipote pakistano del suo capo-condomino. In tutte le pagine dell’opera ogni felicità che sembra affacciarsi alla vita della piccola Bari è puntualmente turbata da immancabili episodi di disperazione: la crisi economica in Corea del Nord degli anni ’90 e l’attentato dell’11 settembre, tanto per citarne alcuni. Stremata da una vita di sfortune, ma fortemente arroccata al desiderio di vivere e di ricominciare, Bari parte come nel racconto sciamanico in un viaggio mistico verso il Cielo d’Occidente alla ricerca di un elisir di lunga vita, che possa fornire a lei e al mondo che la circonda risposte ai problemi che li attanagliano. In questo viaggio testimonia di nuovo il dolore e la disgrazia dell’essere umano, ma così facendo riesce a sublimare la sua sofferenza e a trovare la forza del perdono e della speranza, rievocata in un passo del romanzo nelle parole del suocero Abdul.
«Io non so cosa sia quest’elisir di cui tu parli… ma sappi che anche quando le persone vogliono aiutare se stesse, devono sempre versare lacrime per gli altri. Per quanto dolorosa sia la disgrazia che ci potrà capitare, non dovremo mai abbandonare la speranza verso gli altri e verso il mondo».Attraverso un intreccio audace tra i temi della fame, della guerra e della globalizzazione, questo romanzo rilancia in una dimensione globale il tema dei profughi nord coreani, senza pregiudizi, senza demonizzazioni, ma piuttosto con l’umanità di un scrittore che dal profondo della sua esperienza di vita riesce a confrontare il destino della piccola Bari a quelli più disparati di uomini come lei; destini difficili, tragici e disperati, ma dietro i quali si cela – in ultimo – un senso di profonda e incontaminabile speranza.
Andrea de Benedittis insegna Lingua e Storia della Corea presso il Dipartimento di Studi sull’Asia e Africa del Mediterraneo, Ca’ Foscari di Venezia.