Anna, inizierei questa nostra conversazione dal titolo, Noi, i sopravvissuti, e dai suoi sottintesi. Tash Aw si propone di dare voce alla classe lavoratrice della Malesia, alle sue miserie e alla sua povertà. È lo strato della società che ha permesso il forte sviluppo economico del Sud-Est asiatico tra gli anni ’70 e ’80, su cui è stata costruita un’immagine dell’Asia che si fonda su un assoluto benessere economico garantito dal libero mercato. Da tale narrazione la classe lavoratrice è stata esclusa. Tash Aw mira invece a raccontare quella realtà, a mostrare che allo sviluppo economico c’è un prezzo, e che quel prezzo si misura nelle vite dei “sopravvissuti”, o meglio, di quelli che lottano di giorno in giorno per sopravvivere e per tenere la testa sopra il livello dell’acqua, non solo metaforicamente. Mi ha colpito, leggendo il libro, una giustificata insistenza sui corpi, su cui si innesta anche una critica a quanti credono che il problema di quei lavoratori sia solo il salario: «non capivano che non era la paga a distruggere lo spirito di quegli uomini e quelle donne, bensì il lavoro, il modo in cui ne spezzava i corpi prima ancora che potessero porsi il problema del salario».
Le chiedo, quindi: cosa pensa del ruolo, direi politico, che il corpo assume nella narrazione?
Il romanzo di Tash Aw è senza dubbio un romanzo di corpi e sui corpi, lo è fin dalla citazione in exergo: «Qui ricevemmo i primi colpi: e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore… soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?» Primo Levi se lo chiese dopo Auschwitz, Tash Aw se lo chiede oggi, di fronte a uomini e donne che attraversano spazi terrestri ed equorei; ma non c’è poesia in acque buie che trasportano corpi esausti, talora spiaggiandoli senza nome su rive altrettanto buie. Corpi spinti a partire da un misto di energia, speranze e racconti altrui spesso inattendibili. C’è una parte del libro, a mio avviso bellissima, in cui vediamo Ah Hock, il protagonista, e la madre dedicarsi fino allo sfinimento, letteralmente, al loro piccolo pezzo di terra. Spostano pietre, tagliano radici, strappano all’acqua le zolle, anch’esse un corpo, finché l’acqua, che non è un mostro mitologico ma un liquido che il clima surriscalda, non se le riprenderà. Mentre scrivo mi viene in mente un’opera recente di un’artista indonesiana, Arahmaiani.
Una delle cose che Tash Aw narra magistralmente è proprio la politicità dei corpi, calati dentro la storia e la cultura, dentro un sistema economico, in fuga o in cerca di piacere e benessere, spesso illusi. Corpi sommersi e solo qualche volta salvati.
A proposito di acqua, e di terra, e di corpi: un’altra grossa questione che il libro tocca è quella climatica, a partire dal diverso rapporto che le classi sociali hanno con la natura. «Lavoravamo, – racconta Ah Hock, – alla mercé degli elementi, le burrasche, le inondazioni, i serpenti, i vermi che si rintanavano nei piedi. La natura è bella quando la guardi da lontano, o da un’auto che ci passa in mezzo coi finestrini alzati. Quando devi lavorare all’aperto non ti sembra così bella». C’è quindi, anche in questo caso, una duplice narrazione: quella di chi fa dell’ecologia una questione ideologica, etica, un principio astratto per cui combattere, perché si relaziona alla natura avendo su di sé l’armatura della tecnologia, dell’industrializzazione, del benessere economico; e poi c’è la narrazione di chi nella natura – intesa proprio come terra, radici, pietre, vermi – vive e lavora, di chi mette tutti i giorni le mani nella fanghiglia del cambiamento climatico.
Mi sembra che Tash Aw metta a nudo tutte le implicazioni di un certo sistema economico, che sfrutta fino all’osso i corpi, umani, animali, vegetali, minerali: così, la malattia dei lavoratori e l’inondazione che spazza via case e villaggi sembrano la naturale conseguenza della macchina di sfruttamento economico neoliberista. E questo, lei, che ha tradotto Ghosh lo sa bene: «Smentendo l’idea che il libero perseguimento degli interessi individuali conduca sempre al bene comune, il surriscaldamento globale mette in crisi anche il sistema di credenze su cui si fonda un’identità culturale profondamente radicata» (La grande cecità, trad. di Anna Nadotti e Norman Gobetti, Neri Pozza, 2017). E mi sembra che la scena che ha citato prima, in cui Ah Hock e la madre «spostano pietre, tagliano radici, strappano all’acqua le zolle», abbia un alto valore simbolico, di sradicamento ed estirpamento del sistema di credenze cieco di cui parla Ghosh. O no?
Grazie per aver citato il saggio di Ghosh. L’avevo costantemente accanto, mentre traducevo il romanzo di Tash Aw, il quale, a mio avviso, ha scritto il grande romanzo sull’economia tardocapitalistica e il cambiamento climatico che Ghosh auspicava. Il protagonista li sperimenta sulla propria pelle, ne è schiavo anche quando s’illude di essere diventato protagonista della propria vita. Intanto il suo luogo di lavoro, un allevamento intensivo di pesce, dove ricavi e guadagni dipendono dalla disponibilità di forza lavoro a bassissimo costo «certi operai che avevo conosciuto in passato, che lavoravano ancora in fattorie e cantieri, tutto il giorno all’aperto. Ricordavo le loro mani, ossute e forti. Gli occhi lattiginosi. Poi un giorno semplicemente sparivano. Tornati a Palembang o Sylhet o da dove diavolo venivano. O morti d’infarto a quarant’anni. Un giorno stai lavorando… alzi gli occhi e il cielo è bianco, niente foschia, un sole luminoso, e all’improvviso senti una stretta al cuore e caschi morto. Succede di continuo». Certo, è necessario anche un investimento iniziale, e una certa cura dell’immagine, e competenze tecniche per far sì che l’acqua circoli come deve, ma se la forza lavoro sparisce, decimata dal colera – «mi chiesi se ci fossero germi del colera anche sulle mie mani. Mi chiesi se mi sarei ammalato anch’io. Mi chiesi se sarebbero morti. Al gabinetto mi lavai le mani col sapone meglio che potevo, due, tre volte» – non c’è competenza che tenga, l’acqua s’intorbidisce e i pesciolini anziché guizzare riflettendo il sole galleggiano grigi in superficie. Senza operai l’intero vivaio boccheggia, come le nostre campagne quando la pandemia ha allontanato i raccoglitori stranieri… ancora non riusciamo a staccare frutti e ortaggi in remoto. Mentre racconta, Ah Hock rivede la terra e l’acqua e le nubi improvvise nel cielo, e il buio in cui aveva affannosamente cercato uomini o donne in grado di salvare il vivaio, ingenuamente sperando in un miracolo dei pesci e dei pani.
Il romanzo inizia con queste parole: «Tu vuoi che parli della vita, ma io non ho parlato d’altro che di fallimento, come se fossero la stessa cosa, o perlomeno così strettamente intrecciati che non riesco a separarli». Ah Hock parla di fallimento, e lo fa con il disincanto di chi traccia un resoconto della propria esistenza nella consapevolezza di non poter più cambiare ciò che è stato. La sua è anche una storia di disillusione progressiva: inizialmente ha fiducia in questa specie di sogno malese che ricalca quello americano, e che si fonda sullo stesso mito dell’autodeterminazione individuale, sull’idea che ognuno sia responsabile del proprio successo come del proprio fallimento – laddove successo e fallimento si misurano in termini meramente economici. Presto, però, si rende conto che un tale modo di pensare è illusorio, perché esclude dalla traiettoria della vita individuale tutte le forze che agiscono in una società, eliminando il “contesto” – origini etniche, famiglia, classe sociale, sesso.
Come si sviluppa, secondo lei, la dialettica tra destino, desideri individuali, e contesto socioeconomico, nel romanzo di Tash Aw?
Innanzitutto credo che dobbiamo capire chi è quel “tu” a cui Ah Hock racconta la sua storia. Perché il romanzo è in realtà il resoconto di quattro mesi di incontri fra una ricercatrice malese, Tan Su-Min, che sta preparando una tesi di dottorato in sociologia in un’università americana, e un operaio malese di origini cinesi, che ha scontato una pena di sei anni per “omicidio colposo”. Le ombre che gravano sul processo, la condanna, gli anni di carcere, hanno suscitato l’interesse della giovane studiosa, che fondamentalmente ascolta e registra – e appare in questo un geniale alter ego sia dei lettori, che per definizione ascoltano, sia dello scrittore, che attraverso Ah Hock dà voce a storie familiari che si porta dentro. Storie di migrazioni, di fallimenti e successi in quel particolare palcoscenico che è l’Asia degli ultimi decenni. Dove i desideri e i destini individuali si adeguano alle strette maglie di uno sviluppo capitalistico selvaggio: «In qualche complesso residenziale le case hanno tetti blu, in altri verdi. Mia madre, – racconta Ah Hock a Su-Min mentre conversano nella modesta casa dove lui ora vive, – ritagliò una pubblicità con l’immagine di una casa uguale a questa. Lontana dal mare, dove non avremmo sentito la puzza di fanghiglia salina quando la marea si ritirava, piena di pesce marcio che scivolava fuori dalle reti dei pescherecci. Una casa molto nell’interno, che non poteva essere spazzata via da correnti anomale, inondazioni o burrasche… Con uno spillo, fissò il ritaglio di giornale alla parete della stanza da letto: una macchia di colore sulla nuda asse di legno. Posti come questo, sembravano cosí nuovi. Oggi è difficile immaginare quanto…. Non so come le cose abbiano potuto cambiare tanto in trent’anni. Le case che sognavamo allora sono esattamente quelle in cui viviamo adesso, ma appartengono a un altro mondo».
È vero, il “tu” a cui si rivolge Ah Hock è anche il geniale alter ego di Tash Aw, come lei giustamente dice. E credo che lo sia nella misura in cui Ah Hock rappresenta il tipo di persona che Tash Aw avrebbe potuto diventare se fosse cresciuto in un villaggio rurale, se fosse rimasto estraneo alla cultura, se la sua infanzia avesse dovuto fare i conti con problemi economici e disgrazie climatiche – se, dunque, avesse fatto la vita di Ah Hock. Invece Tash Aw è cresciuto nella capitale, il padre era un ingegnere, e lui a vent’anni si è trasferito in Inghilterra per studiare legge a Cambridge. E questo fa parte di quel destino di cui parlavamo prima, che ha portato Tash Aw a diventare come Su-Min, invece che assomigliare ad Ah Hock. È interessante l’autocritica a cui Tash Aw si sottopone, che mi sembra lasci aperta una domanda che ora rivolgo a lei: Su-Min, che si è a tal punto emancipata dal contesto che Ah Hock racconta da apparire ormai quasi come un’estranea, quanto riesce a comprendere della storia e della vita di cui vuole farsi testimone?
Forse la risposta a questa bella domanda è proprio l’autocritica cui Tash Aw si sottopone affidandosi a Su-Min. L’idea di poter parlare per gli altri è una tremenda presunzione, molto praticata in Occidente. Io al contrario penso che le vite degli altri si possano ascoltare, raccontare, inventare, ma che non si possa parlare per gli altri, anzi proprio non si debba. Tash Aw fa un’operazione psicologica e narrativa molto sottile, s’inventa una alter ego e la fa parlare per sé. Ascoltando Ah Hock, Su-Min è sempre più coinvolta, riconosce in quel racconto parti inascoltate e forse negate della propria storia, capisce che la sua cultura e il suo successo sociale e accademico sono fondati su vite minime e calpestate come quella del suo interlocutore, il quale, a poco a poco, diventa un mentore. Smette di essere oggetto di ricerca e ne diventa il soggetto, la guida. Come a dire, tu sei qui perché ci sono io, per avere una storia tua hai bisogno della mia, ed è proprio così. Del resto lo scrittore lo ha ammesso in varie interviste. E io, mentre traducevo, avevo la sensazione fisica di un progressivo mutare dei ruoli, di un fruscio di sedie che si spostano, in quella stanza squallida. Aggiungo un particolare: quando, approfittando del momentaneo allontanarsi di Su-Min per rispondere a una chiamata della madre dall’ospedale, Ah Hock sfoglia qualche pagina dei suoi appunti, ne è sorpreso: «Ciò che mi colpisce sono gli elenchi. Ci sono elenchi di ogni tipo. Spesso dettagli noiosissimi… Non riesco a capire perché le interessi questo tipo di dettagli, o che rapporto abbiano col suo progetto di ricerca». E invece io qui vedo un indizio preciso, il rimando di Tash Aw a un libro fondativo delle culture orientali, le antiche Note del guanciale di Sei Shonagon, un meraviglioso repertorio di elenchi che la poetessa compilava per documentare, per comprendere e far comprendere. Può darsi sia un arbitrio interpretativo, il mio, ma i meticolosi elenchi di Su-Min ci permettono di vedere Tash seduto a orecchie tese su quella sedia per afferrare una realtà che altrimenti non arriverebbe a capire. Invece proprio da quelle apparenti minuzie ricava il quadro di cui ha bisogno. Non saprebbe altrimenti da quali povertà e quale tenacia abbia origine la sua vita privilegiata.
No, non credo sia un arbitrio interpretativo, fondamentalmente perché sono convinta che i libri siano fatti, oltre che da quello che scrive l’autore, anche dalle interpretazioni che ne danno i lettori. Io invece quegli elenchi li avevo interpretati come il superfluo a cui Ah Hock non è abituato: mi è sembrato un modo di mostrare che quella classe sociale, costituita da gente che passa la vita alle prese con problemi pratici, di povertà, di fatica, di denaro, non ha tempo di soffermarsi sui “dettagli noiosissimi”. Così come non ha tempo di interrogarsi sull’amore, sulle emozioni e sui sentimenti, e questo si vede da come Ah Hock racconta la relazione con la moglie: al corteggiamento segue il fidanzamento, poi lui conosce il padre di lei, poi si sposano e infine vanno a vivere insieme. Tutto è narrato in maniera molto fredda, come se questi momenti fossero passaggi obbligati: Tash Aw racconta la nuda esistenza, racconta i fatti, e questa modalità narrativa non è solo una questione stilistica. «Per gente come noi è diverso. Tuo padre e io non abbiamo tempo per quel tipo di cose», gli diceva sua madre guardando una serie tv cinese. E Ah Hock, pensandoci a distanza di anni, chiosa: «Non avevano tempo per l’amore».
In qualche modo sono passaggi obbligati, che ci piaccia o no. Io vedo nella scrittura di Tash un’etica e un’estetica precisa, che per quanto mi riguarda conosco più dal cinema che dalla letteratura. E traducendo ho cercato di assecondarla il più possibile.
A proposito di cinema: ho letto che Tash Aw cura una rubrica sulla «Paris Review», chiamata Freeze Frame, in cui parla dei capolavori del cinema asiatico. In effetti, in molte scene – inquadrature, mi verrebbe da dire – di questo romanzo, credo che un immaginario filmico sia stato messo al servizio dell’immaginario narrativo. Qui però mi fermo, e chiedo a lei, che so essere una cinefila, di ragionare su questo, e su come la sua cultura cinematografica l’ha aiutata nella traduzione.
L’ha voluto lei! Avevo visto I Don’t Want to Sleep Alone di Tsai Ming-liang, da molti considerato il maggior regista e sceneggiatore malese contemporaneo. E mentre traducevo questo libro ho visto The Face e un paio di episodi di una serie da lui girata. Mica puoi tradurre come se cinema non fosse un libro in cui alcune scene chiave si svolgono in enormi sale cinematografiche buie, dove i protagonisti del romanzo sgranocchiano melodrammi insieme ai pop corn e poi, come spesso accade nelle produzioni orientali – fra le più interessanti degli ultimi decenni, mi limito a citare Parasite del sudcoreano Bong Joon-ho, Palma d’oro a Cannes 2019 – escono e passeggiano fra insegne dai colori acidi fino a un chiosco di cibo di strada. Mica puoi tradurre come se cinema non fosse quando hai l’impressione che i dialoghi non siano premeditati bensì evolvano e si trasformino fra le mani di chi scrive per l’intervento spontaneo dei personaggi. Le cabine telefoniche sono sostituite da cellulari più o meno gracchianti, ma le dinamiche, i tempi dell’azione, i movimenti sono profondamente influenzati da un linguaggio cinematografico che Tash Aw controlla meravigliosamente, da vero cinefilo.
Non credo ci sia bisogno di aggiungere che il cinema è uno dei dizionari che più uso, mono e bilingue, tridimensionale, analogico.
Tornando a Su-Min e Ah Hock, vorrei farle una domanda sulla lingua. Il dialogo tra i due si svolge in mandarino, e non è difficile immaginarne le ragioni: Ah Hock non avrà un livello di inglese sufficiente – non può averlo, perché il suo livello d’istruzione è molto basso – ma parla correntemente il cinese; Su-Min, al contrario, parlerà un inglese perfetto, perché ha studiato in America, e conosce quel poco di mandarino che le basta per capire e farsi capire da Ah Hock. In modo estremamente sottile, Tash Aw ci fa capire che quello che stiamo leggendo è in realtà non solo una trascrizione, ma anche una traduzione, e che la negoziazione di significati tra le vite di Ah Hock e Su-Min si innesta su un’altra negoziazione, che è linguistica. In Transiti di Rachel Cusk, a un certo punto la narratrice Faye dice «Nel processo di traduzione la proprietà della storia era passata, nel bene o nel male, da me a lei» (Transiti, trad. di Anna Nadotti, Einaudi, Torino 2019). Mi viene da chiederle: di chi è la storia, in Noi, i sopravvissuti? Rimane di Ah Hock, oppure Su-Min traducendola ne diventa la vera proprietaria? E se è così, è lecito che Su-Min si impossessi di una storia e di una vita altrui, pretendendo di comprenderne tutti gli aspetti, e la riduca a una tesi di dottorato? (premetto che per varie ragioni credo di sì, che sia lecito; però la mia è una provocazione a una traduttrice – che ha tradotto una traduzione, suo malgrado).
Potrei addentrarmi in una risposta da traduttrice, ma mi pare più utile citare il conciso e bellissimo mémoir di Tash Aw, che a questo proposito scrive: «Ero tormentato da una specie di ansia, dalla paura inconscia di qualcosa che non sono riuscito ad articolare se non dopo i vent’anni: la consapevolezza di essere un impostore, che qualsiasi momento sarebbe stato buono per smascherare in me lo straniero. Il sofisticato ragazzino di città. Il secchione. Lo snob. Un estraneo alla sua stessa famiglia. […] Imitare il lessico e il gergo delle campagne diventava sempre più complicato. Le idee nella mia testa iniziavano a farsi inesprimibili nelle lingue che sapevo di dover usare per mimetizzarmi» (Stranieri su un molo, trad. di Martina Prosperi, add editore, To, 2017). E nel mémoir, nella realtà dunque, è una giovane donna, la sorella, quella che con maggiore decisione, «pur parlando ancora hokkien e mandarino, si separa, per formare il proprio continente». Parafrasando Rachel Cusk, visto che l’ha citata, direi che nella messa a punto narrativa di una storia è lecito che la proprietà della storia stessa passi a chi meglio è in grado di trascriverla e trasmetterla.
Da ultimo, vorrei parlare del razzismo. Ah Hock presto si rende conto che la piramide sociale, in Malesia, è una piramide razziale, e che risalirla significa prendere coscienza che a ogni livello corrisponde un certo potere, e che quel potere è sempre potere su, oltre che potere di: implica imporre la propria autorità su altri esseri umani, su altri corpi, «dei quali non solo conoscevo ma condividevo la gioia e la disperazione».
«Forse c’è stato, in qualche momento della storia, un grande potere la cui affermazione è stata esente dallo sfruttamento violento di altri corpi umani. Se c’è stato, io non l’ho ancora trovato», scrive Ta-Nehisi Coates (Tra me e il mondo, trad. di Chiara Stangalino, Codice editore, Torino 2016). Nella piramide razziale malese, lo scarto tra i due livelli più bassi – quello degli indiani delle piantagioni e quello degli operai cinesi immigrati – è fondato su un divario ideologico, che poggia sulla paura e si tramuta in razzismo reciproco: «Sono cresciuto condividendo con la gente del villaggio una sensazione di paura degli indiani delle piantagioni, paura che ci contagiassero con la loro povertà. […] Ripensandoci adesso, credo che l’unica ragione fosse che ci costringevano a vedere che non eravamo tanto diversi», dice Ah Hock. Le somiglianze con il razzismo sistemico americano mi sembrano evidenti, e credo che Tash Aw si sia rifatto anche al pensiero di molti scrittori afroamericani – penso, oltre a Ta-Nehisi Coates, a Baldwin, Morrison, Walker. Lei ha riscontrato simili influenze?
Direi che nell’intervista di Ilaria Benini che correda il mémoir che ho già citato, Tash Aw, rispondendo a una domanda sull’uso della parola “razza”, risponde alla sua domanda «Quello che dobbiamo fare è riconoscere e in qualche modo essere a nostro agio con il fatto che siamo diversi… Gli scrittori che hanno contato di più per me, da James Baldwin a Chimamanda Ngozi Adichie, sono stati coloro che hanno illuminato la verità di queste differenze: il vero ruolo dello scrittore è usare le parole per farci vedere quello che non vogliamo vedere». Premesso che Baldwin è uno degli scrittori che più amo e rileggo, trovo che nel suo nuovo romanzo Tash Aw fa un uso delle parole davvero eccezionale costringendoci a vedere ciò che non vorremmo vedere. E con ciò non mi riferisco all’omicidio, di cui scopriremo la natura e la dinamica nelle ultime pagine, bensì a tutte le vite e non-vite di questo romanzo, che a me pare teso come un filo metallico e insieme trasparente. Non c’è contraddizione etnica, sociale, culturale che non venga inquadrata, con panoramiche sapienti, «Visitammo una fabbrica di profilati metallici, poi un impianto di lavorazione nel cuore di una piantagione di palme da olio, poi un altro cantiere edile: una schiera di piccole unità commerciali ai margini delle risaie. Poi un’altra piantagione dove trenta o quaranta operai, bangladesi e indonesiani, stavano tornando ai loro alloggi: un basso edificio di cemento col tetto di lamiera arrugginito. Era quasi il tramonto, e la luce cominciava a perdere la sua brillantezza, facendosi pastosa e arancione sopra le cime degli alberi», o improvvisi close up, «Alzo gli occhi e vedo mia madre sull’orlo delle peschiere. Accovacciata per essere piú vicina al terreno, intenta a riparare le piccole reti che presto getterà sull’acqua per intrappolare la pesca della settimana. Il suo apparecchio acustico non funziona bene, crepita per le interferenze ed emette il suo stridulo gemito. Non so perché sorrido».
Mentre conversiamo, rifletto per l’ennesima volta su quanto la scrittura debba alle immagini, fisse o in movimento, interiori ed esterne. E quanto le immagini debbano alle parole. È l’indisciplina ardita, coerente, matura e poliglotta della letteratura, capace di raccogliere senza batter ciglio ogni sillaba di realtà o d’irrealtà. Guardi questa scena, all’inizio del romanzo. Il primo incontro di Ah Hock con un coetaneo arrivato dalla città, Keong, ovvero il suo destino: «La prima volta che vidi Keong, stava picchiando un altro ragazzino. Il labbro del ragazzino era spaccato e gonfio, e sulla sua t-shirt c’era una striscia di sangue rosso vivo, dello stesso colore di due segni rabbiosi su una gamba, linee parallele che andavano dal ginocchio alla caviglia… Keong gli stringeva il polso con una mano, e con l’altra reggeva un bastone lungo circa un metro. Alzarono gli occhi tutti e due quando mi videro nel vano della porta. Un attimo di pausa. Poi Keong sferrò un altro colpo, e un altro ancora, come se io non ci fossi, come se la mia comparsa fosse stata un’illusione, un trucco della luce… La zuffa avveniva dentro un capanno in disuso sull’orlo di un’insenatura dov’erano ormeggiate le barche più piccole, al riparo dalle burrasche che soffiavano dal mare aperto. C’era bassa marea, e io gironzolavo fra le mangrovie nella speranza di cavare un granchio dal fango – ammazzavo il tempo, come al solito. Avevo dodici anni, stavo in giro tutto il giorno. Una volta il capanno veniva usato per riporre le reti e i fusti di birra, ma era stato svuotato quando le nostre barche più piccole erano diventate inutili, dopo l’arrivo di grossi pescherecci capaci di battute a raggio decisamente maggiore».
In poche efficacissime righe, Tash Aw descrive tutto, i protagonisti, il villaggio, la violenza di chi viene dalla città, un’economia che cambia abbandonando detriti e scheletri.
Tash Aw
Noi, i sopravvissuti