Quanti

Cos’è un corpo?

V—S
Vincenzo Santarcangelo 1 Marzo 2022 10 min

Esiste una differenza tra il nostro corpo come dato biologico e il genere come dato culturale, e come possiamo agire nello spazio di questa differenza? In che misura, ad esempio, la nostra immagine su Instagram “ci rappresenta”? È possibile essere davvero sé stessi attraverso lo specchio della tecnologia? Laura Tripaldi, autrice di Corpi ambigui, in una lunga intervista di Vincenzo Santarcangelo.

Nella quotidianità della pratica sperimentale, Laura Tripaldi, ricercatrice in Scienza e Nanotecnologia dei Materiali all’Università di Milano-Bicocca, ha intuito come la problematica profondità dell’atto di rappresentare un corpo se ne stesse nascosta tra quegli arnesi di laboratorio da cui era circondata: «a 23 anni, mentre lavoravo alla mia tesi, iniziavo a interrogarmi sull’identità sessuale del mio corpo, che mi appariva opaca come l’interiorità inaccessibile dei corpi che incontravo in laboratorio». L’identità di una particella è fragile come il vetro delle lenti, sottile come le pellicole fotografiche: le particelle non sono oggetti materiali né costruzioni culturali, ma entità ibride che, proprio come i nostri corpi, abitano l’incerto confine tra materia e linguaggio. Corpi Ambigui. Sguardi, genere, tecnologia (Einaudi 2021, pp. 51) è un breve e fulminante saggio che esce per la collana Quanti. Ad annodare considerazioni epistemologiche sulla rappresentabilità degli oggetti scientifici e interrogativi sulla natura del corpo sessuato si staglia la figura della fisica austriaca Marietta Blau, figura paradigmatica rispetto al ruolo ricoperto dalle donne nella storia della scienza del Novecento e trait d’union, nel saggio della Tripaldi, tra le considerazioni da filosofa della scienza sulla rappresentabilità degli oggetti scientifici e gli interrogativi, da scienziata e da donna, sulla natura del corpo sessuato.

Cosa ha significato per lei il primo incontro con Marietta Blau? Perché ha identificato proprio in lei – nella sua «distanza dal mito della grande scienza», nella sua capacità di concepire il processo scientifico come «un’operazione incessante di traduzione dei corpi in nuovi significati e dei nuovi significati in nuovi corpi» – la guida di questo viaggio tra sguardi, genere e tecnologia?

È grazie a mia madre, con cui ho condiviso da sempre l’amore per la scienza, che mi sono imbattuta nella storia di questa scienziata. Un libro che mi ha regalato, Chimica al femminile di Rinaldo Cervellati, raccoglie una collezione di biografie di donne che hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo della chimica e della fisica nel Novecento. La prima cosa che mi ha colpita è stato l’aspetto scientifico della ricerca di Marietta Blau. L’idea, cioè, di osservare un corpo invisibile, come una particella subatomica, utilizzando un materiale chimicamente e tecnologicamente complesso come l’emulsione fotografica. Da diverso tempo mi stavo interrogando sul problema dell’identità degli oggetti della scienza: in che modo si arriva a dire di un corpo che “è” qualcosa? Problema che, in realtà, riguarda tutti i corpi, ma diventa particolarmente evidente quando si ha a che fare con oggetti, come le particelle subatomiche, che sfuggono al nostro modo usuale di guardare il mondo. Nel corso del mio lavoro scientifico mi sono accorta che, molto spesso, l’azione di “guardare” e “identificare” un corpo è decisamente meno immediata di quanto possa sembrare, anche se nel racconto pubblico della scienza la complessità di questo processo emerge molto raramente. Sentiamo spesso parlare di “scoperte” scientifiche, ma in realtà la scienza è piuttosto una lenta e laboriosa costruzione, anche se questo lavoro, che poi è il lavoro quotidiano del laboratorio, resta troppo spesso lontano dai riflettori. In questo senso anche l’aspetto biografico della figura di Marietta Blau mi ha affascinata particolarmente, perché paradigmatico del ruolo ricoperto dalle donne nella storia della scienza e della tecnologia. Molto spesso la partecipazione femminile al processo scientifico è stata confinata agli aspetti più operativi e materiali della pratica sperimentale. È il caso della fisica delle particelle ma anche, ad esempio, della nascita dell’informatica. Credo che rendere conto di questa marginalizzazione possa offrirci l’opportunità di raccontare un altro lato, più complesso ma più autentico, del lavoro scientifico, rivelando la costruzione della scienza in tutta la sua profondità.

«L’azione di “guardare” e “identificare” un corpo è decisamente meno immediata di quanto possa sembrare, anche se nel racconto pubblico della scienza la complessità di questo processo emerge molto raramente».

Ha misurato i segni culturalmente intellegibili con cui identifichiamo ogni corpo, tra cui la sua stessa sessualità, con gli strumenti di laboratorio che la circondavano. Ma come si può diventare consapevoli di questo processo? Cosa significa, fattivamente, diventarne partecipi, da donne e scienziate?

Dal mio punto di vista, la scienza e il femminismo sono due mondi che, nonostante la loro distanza, condividono molte domande comuni. Sicuramente il problema centrale del femminismo è quello di attribuire a un corpo una certa identità: che cosa significa dire “io sono una donna”? In che senso un corpo “è” la sua identità sessuale? Forse questa domanda sarebbe apparsa un po’ insolita qualche decennio fa, quando la visibilità delle questioni di genere e la rappresentazione delle soggettività di genere “non conformi” non erano così diffuse. In realtà si tratta di un problema che è sempre stato al centro della riflessione femminista, da quando Simone de Beauvoir nel 1949 scriveva che “donna non si nasce”. Per moltissimo tempo, infatti, siamo stati abituati a pensare al sesso come a un dato naturale immutabile. Ma questa prospettiva sta lentamente cambiando. Come il femminismo, anche la scienza ha rivelato quanto sia difficile tracciare i confini di ciò che è naturale e ciò che è artificiale. Se l’osservazione e l’identificazione di una particella richiedono l’utilizzo di un apparato strumentale così ampio e complesso, come possiamo continuare a ritenere le particelle dei fenomeni puramente “naturali”? Credo che la polarità tra natura e cultura non si possa risolvere semplicemente tracciando una linea: bisogna provare a costruire uno spazio in cui natura e cultura possano mescolarsi e influenzarsi a vicenda. Nella mia esperienza di scienziata, il laboratorio ha rappresentato uno spazio di questo tipo. Uno degli aspetti più belli del lavoro scientifico per me è stato rendermi conto che in laboratorio non esistono identità rigide, ma ogni oggetto e ogni corpo devono essere interpretati come una storia. Non può esistere alcuna oggettività scientifica senza tenere conto di ogni aspetto del processo che ha portato alla produzione della verità, dallo sguardo dello scienziato agli strumenti e ai materiali che ha utilizzato. Prendere coscienza del fatto che tutti i corpi sono il risultato di processi materiali e culturali apre uno spazio di azione e trasformazione delle identità.

Particelle e corpi sono mediati dalle tracce e dalle rappresentazioni che ne abbiamo. Che cosa significa, dunque, essere un corpo? Come accediamo al che cos’è dei corpi sessuati? E che ruolo svolge, nella ridefinizione del concetto di “corpo”, il femminismo, il cui territorio è proprio la fabbrica di queste rappresentazioni?

La domanda spontanea che ci poniamo davanti a un corpo è “che cos’è”: il nostro primo impulso è quello di provare ad attribuirgli un’identità. Il lavoro scientifico, ad esempio quello di Marietta Blau sulle particelle, rivela che questa operazione non è così immediata come possa sembrare. Spesso non è possibile “catturare” un corpo nella sua immediata presenza, ma il lavoro per ricostruirne l’identità viene fatto a partire dalle tracce che questo si lascia alle spalle. Nel caso degli studi di Marietta Blau, erano le traiettorie delle particelle intrappolate nella lastra fotografica a permettere di identificarne la natura, ma queste tracce erano a loro volta evanescenti e mutevoli, e non potevano essere separate dal supporto materiale su cui erano scritte. In un certo senso, la domanda “che cos’è” è una domanda che rivolgiamo continuamente anche sui nostri corpi: ancora prima di essere nati, siamo indentificati con un sesso e “siamo” maschi o femmine. Come per le particelle, però, questa operazione di identificazione è spesso problematica, soprattutto quando il sesso che ci viene assegnato non corrisponde con la nostra esperienza della realtà o con la nostra espressione culturale e sociale. Il femminismo, dal mio punto di vista, si occupa precisamente di questo, cioè dello spazio che si apre tra un corpo e la sua immagine: in che modo un corpo acquisisce un significato culturale e sociale? Quali sono le “tracce” che i nostri corpi sessuati si lasciano alle spalle? Esiste una differenza tra il nostro corpo come dato biologico e il genere come dato culturale, e come possiamo agire nello spazio di questa differenza? Dal mio punto di vista, la tecnologia può offrirci molte opportunità inesplorate per trasformare e rappresentare le nostre identità di genere al di fuori del binarismo maschile/femminile.

«Bisogna provare a costruire uno spazio in cui natura e cultura possano mescolarsi e influenzarsi a vicenda».

Da un lato l’emulsione fotografica che è specchio scientifico dei corpi, dall’altro la responsabilità del corpo stesso di offrirsi in tutta la propria autenticità all’occhio fotografico. Se soddisfare queste condizioni è necessario perché il corpo meriti di esistere, possiamo identificare delle conclusioni di natura etica a partire dall’intersezione tra storia della scienza e tecnologia e riflessione sul corpo proprio?

Nella scrittura del saggio ho riflettuto a lungo sulla tendenza a rendere ogni corpo “fotografabile”. Vediamo questa tendenza in azione, ad esempio, nel tentativo di fornire una rappresentazione “fotografica” anche a oggetti che per loro stessa natura sono al di fuori del dominio della nostra visione, come i virus, gli atomi o i buchi neri. Naturalmente, per rappresentare visivamente questi corpi non si può fare ricorso alla fotografia in senso stretto, ma è necessario inventare modi sempre nuovi per rappresentare le informazioni che otteniamo su un corpo sotto forma di un’immagine. Trovo che questa tendenza sia molto affascinante, così come trovo affascinante la varietà di tecnologie che abbiamo prodotto per acquisire una così vasta capacità di visione e rappresentazione. Il rischio che vedo in questa tendenza, d’altra parte, è che nell’immediatezza della rappresentazione fotografica si perda la coscienza della complessità dei processi tecnologici che la rendono possibile. È molto facile, una volta che si possiede un’immagine di un corpo, far coincidere quell’immagine con la sua identità, dimenticando che una rappresentazione non può mai essere un processo “innocente”, ma è sempre determinata da fattori culturali e materiali. Questo stesso problema, così evidente nell’ambito scientifico, vale anche per le immagini di noi stessi che produciamo attraverso la tecnologia. In che misura, ad esempio, la nostra immagine su Instagram “ci rappresenta”? È possibile essere davvero sé stessi attraverso lo specchio della tecnologia? Davanti a questo problema, possiamo scegliere di rinunciare del tutto alla rappresentazione, consapevoli che le tecnologie che abbiamo a disposizione non potranno mai catturare del tutto la nostra identità profonda. Oppure possiamo riconoscere che la nostra identità è necessariamente vincolata ai supporti tecnologici che utilizziamo per rappresentarla, acquisire coscienza del loro funzionamento, imparare a usarli con maggiore consapevolezza e, se necessario, provare a inventarne di nuovi.

Laura Tripaldi

Corpi ambigui


Quanti Einaudi, vol. 7