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Cos’è l’omo-lesbo-bi-transfobia? Intervista a Maya De Leo

G—P
Giulia Priore 24 Luglio 2021 7 min

Abbiamo posto tre domande a Maya De Leo sull’omo-lesbo-bi-transfobia e sulla paura della diversità. Ecco le tre risposte che nascono dai suoi studi sulla storia culturale della comunità LGBT+ e dal suo libro Queer. Storia culturale della comunità LGBT+.

Cos’è la paura? Alla luce dei tuoi studi sulla storia culturale della comunità LGBT+ qual è la risposta a questa domanda molto generica, in teoria, ma che tocca da vicino le vittime della paura, in ogni sua forma?

Attorno alla parola omo(-lesbo-bi-trans)fobia sono sorte nel tempo diverse discussioni e si sono levate voci critiche che ne hanno sottolineato i limiti e gli aspetti più controversi. Alcuni dei dubbi sollevati sono relativi alla presenza, nella scelta di questo suffisso, di un’eco patologizzante che, come in un gioco di riflessi, in risposta alla lunga storia di patologizzazione delle sessualità queer, sembrerebbe quasi alludere all’esistenza di un disturbo, sia esso di carattere psichico, in analogia con altri termini come agorafobia, claustrofobia, ecc., che anche immediatamente “fisiologico” (come in fotofobia, idrofobia, ecc.). Un po’ come se si trattasse di una repulsione istintiva che genera una risposta incontrollata e quindi – e qui sta il nocciolo di molte critiche ­– non imputabile direttamente alla responsabilità di chi la prova. Altre voci hanno sottolineato il carattere fuorviante di un suffisso che rinvia alla paura da parte di chi agisce l’aggressione, quando invece la paura e tutto il portato di sofferenza da essa derivato sarebbero principalmente prerogativa di chi di questa “fobia” è la “vittima”, ovvero il bersaglio.


la fobia

Nella mia ricostruzione storica, mostro certamente come la “paura”, l’allarme sociale, attorno alle persone che scartano delle norme sul genere e la sessualità, venga costruita e alimentata da retoriche politiche, rappresentazioni mediatiche, narrazioni pubbliche. Sebbene i toni e le immagini utilizzati siano ricorrenti e spesso trasversali a epoche e contesti, d’altra parte le preoccupazioni e le implicazioni politiche che a questo allarme sociale fanno da sfondo sono sempre diverse: ad esempio, con l’affermarsi delle nuove entità degli stati-nazione tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, l’imperativo della difesa dei confini della comunità, rivolto ai cittadini maschi, e quello della riproduzione del corpo sociale, rivolto alle cittadine femmine, disegnano profili di maschilità e femminilità prepotentemente incentrati sul virilismo guerriero dei primi, chiamati alla leva di massa, e sulla fertilità e sulla cura della prole delle seconde, chiamate al ruolo di “madri” della nazione. Nel corso del XIX secolo il sapere medico, mentre consolida il proprio statuto di moderna disciplina scientifica, contribuisce fortemente a radicare in una presunta matrice biologica la “naturalità” di questi imperativi politici, risospingendo chi non vi si conforma in uno spazio che è, al tempo stesso, quello della mostruosità/patologia e della minaccia al cuore stesso della comunità nazionale.

La popolazione LGBT+ viene così investita dei tratti spaventosi di uno “spettro” che viene agitato in occasioni e contesti diversi. L’operazione risulta efficace proprio perché questo “fantasma” viene descritto come una presenza subdola e insinuante, forse anche contagiosa, dal cui effetto nessuno è in linea di principio immune. Possiamo rintracciare echi di questa percezione ancora nel corso di tutto il XX secolo: nella persecuzione nazifascista delle identità e sessualità LGBT+, nella “caccia alle streghe” di McCarthy negli Stati Uniti, nell’offensiva omotransfobica che caratterizza, a livello globale, la narrazione mediatica e la gestione istituzionale dell’epidemia di HIV.

La parola omofobia (così come lesbo-bi-transfobia,) è formata da due parti distinte. La prima che riguarda l’omosessualità, la bisessualità, il transgenderismo, ecc., e che è anche quella che di solito è al centro dell’attenzione e che riguarda le vittime di violenza omolesbobitransfobica. La seconda parte della parola, fobia, rimane sempre un po’ in ombra, ma forse è il nocciolo della faccenda. Perché riguarda chi la prova e anche chi, quindi, esercita la violenza. Tu cosa ne pensi?

In questo senso, mi sembra importante sottolineare come le radici della violenza omo-lesbo-bi-transfobica siano da ricercarsi al di fuori della “psicologia” del soggetto che la agisce, la violenza, e costituiscano invece parte integrante della cornice valoriale in cui quest’ultimo si trova a vivere.

Alla luce delle considerazioni che facevo più sopra, uno dei volti più terribili della “paura” omo-lesbo-bi-transfobica è quello di ciascun individuo suscettibile di scoprire in se stesso le tracce del “contagio”, i tratti stessi di questa insinuante “mostruosità”. In questo senso, il termine omo(-lesbo-bi-trans)fobia acquista a mio avviso il suo significato più pregnante: quello della paura, magari inconscia, che una camicia dai colori pastello o una stretta di mano troppo (o troppo poco) energica, un abbraccio troppo prolungato, un’intimità sospetta, rivelino appunto queste tracce, questi tratti anche nei soggetti più insospettabili. Chi esercita la violenza omo-lesbo-bi-transfobica mira proprio ad allontanare da sé ogni possibile associazione o sovrapposizione con il bersaglio della violenza. In questo senso, mi sembra importante sottolineare come le radici della violenza omo-lesbo-bi-transfobica siano da ricercarsi al di fuori della “psicologia” del soggetto che la agisce, la violenza, e costituiscano invece parte integrante della cornice valoriale in cui quest’ultimo si trova a vivere. Questa dinamica è facilmente osservabile al livello più macroscopico della violenza omo-lesbo-bi-transfobica: quello delle aggressioni fisiche e verbali. Questa dimensione, per quanto riguarda il caso italiano, sta acquistando un minimo di visibilità nei media e sta guadagnando un posto nel dibattito pubblico, ottenendo altresì una condanna – almeno formale – pressoché unanime, che non sembra però abbastanza decisa da spingere all’introduzione immediata di norme e azioni di contrasto, come quelle previste ad esempio dal DDL Zan. La stessa violenza omo-lesbo-bi-transfobica agisce però anche su altri livelli più impalpabili: la discriminazione subita in termini di diritto al lavoro, al riconoscimento della vita affettiva e genitoriale, all’autodeterminazione sul proprio corpo. Questo secondo livello comprende tutte le innumerevoli vessazioni che costellano la vita quotidiana della popolazione LGBT+, un minority stress invisibilizzato dalla concezione della cis-eterosessualità come orizzonte unico delle istituzioni politiche e simboliche di una comunità – penso qui ancora al contesto italiano – che di questo orizzonte ristretto non è disposta mettere in discussione la “naturalità”.


Cos'è il minority stress? Una discrimanzione indiretta e poco visibile

La legge contro l’omosessualità in Ungheria e le LGBT free zones in Polonia sono sintomi di una recrudescenza omofobica o pensi che sia sempre stato così solo che ora se ne parla di più?

Esempi come quelli dell’Ungheria e della Polonia mostrano bene quanto i riferimenti alle questioni LGBT+ siano utilizzati efficacemente come strumenti di mobilitazione politica nel fronte conservatore

Credo che le violenze e le discriminazioni omo-lesbo-bi-transfobiche siano ora registrate e denunciate con maggiore puntualità rispetto al passato, e, soprattutto, che suscitino una condanna, se non altro a livello formale, più trasversale e condivisa nell’opinione pubblica rispetto al passato. D’altra parte, proprio la crescente visibilità e centralità nel dibattito pubblico delle questioni LGBT+ ne ha fatto un oggetto di polarizzazione per gli schieramenti politici. Esempi come quelli dell’Ungheria e della Polonia mostrano bene quanto i riferimenti alle questioni LGBT+ siano utilizzati efficacemente come strumenti di mobilitazione politica nel fronte conservatore: più in generale, a livello internazionale, notiamo come le critiche alle rivendicazioni della comunità LGBT+, ai saperi di genere (indicati erroneamente come “teoria-del-gender”), alla visibilità dei soggetti queer sia in grado di inquinare il dibattito pubblico attraverso la disinformazione e l’allarmismo, anche nel contesto italiano.

Inoltre, in questo clima, le persone LGBT+ si ritrovano ancora più esposte a microaggressioni quotidiane causate dalla più ampia diffusione di narrazioni “tossiche” errate e fuorvianti proposte dai media. Narrazioni che possono, a loro volta, causare una recrudescenza omo-lesbo-bi-transfobica. Ovviamente è un bene che se ne parli di più, ma è urgente che se parli nei termini giusti, attraverso un dibattito informato, un linguaggio corretto e rispettoso delle persone LGBT+, e soprattutto che siano stesse persone LGBT+ protagoniste del dibattito.

Maya De Leo

Queer. Storia culturale della comunità LGBT+


Einaudi Storia, pp. XII - 260