Leggere il presente

Il passato non si perdona. Intervista a Walter Barberis

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Giulia Priore 23 Gennaio 2023 6 min

Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria e Walter Barberis, storico, autore di «Storia senza perdono» e presidente della casa editrice Einaudi, ragiona sulla memoria e dice con forza che il perdono non riguarda la storia, che invece va studiata e rammentata.

In un momento storico in cui la riscrittura della storia è uno strumento di potere (mi riferisco soprattutto al presidente russo Vladimir Putin) che valore ha la storia dei vinti, dei vincitori e dei sopravvissuti?

Vincitori e vinti hanno sempre usato la storia come strumento di potere, di propaganda, di rivendicazione di diritti di dominio o di indipendenza. È successo nei secoli scorsi, in Europa e nelle Americhe, nel medio ed estremo Oriente. Con maggiore evidenza nel corso del Novecento, quando le spinte nazionaliste hanno toccato l’apice di due guerre mondiali, seminando milioni di morti, ovvero di memorie separate dall’odio ideologico, politico e razziale. Putin è oggi il terminale persino banale, per quanto tragico, di questo uso strumentale della storia. Si dice che la storia la scrivano i vincitori a ridosso degli avvenimenti e la riscrivano i vinti a distanza di tempo.

Ciò è vero nella misura in cui la retorica dei primi e il gusto di rivincita dei secondi non siano stati superati da una educazione alla storia intesa come lezione e prova di ciò che nel passato ha ammorbato e ucciso intere società; ovvero di ciò che sarebbe da evitare nel presente e nel futuro. Il nazionalismo è sempre, sempre, un fattore disgregante e conflittuale.

Si dice che la storia la scrivano i vincitori a ridosso degli avvenimenti e la riscrivano i vinti a distanza di tempo.

Esiste una sola storia, complessa, spesso contraddittoria, segnata da episodi controversi e di difficile interpretazione: ma lo studio della storia ha lo scopo di dare spiegazioni e queste dovrebbero valere per tutti, per i vincitori e per i vinti, e soprattutto per i loro eredi e discendenti.

Siamo costretti a constatare che non è così in Italia, con una difficile resistenza delle ragioni dell’antifascismo di fronte alle nostalgie neofasciste e alla indifferenza dei più; non è così nel mondo, dove l’ambiguo fascino della figura autoritaria attrae sempre le masse più ignoranti, e lascia indifferenti le generazioni che non hanno visto o patito l’esperienza dei totalitarismi. È così che la storia, quella documentata, rimane spesso senza udienza, isolata nella lotta di sempre contro le false notizie, le lusinghe della demagogia o il desiderio di non fare i conti col passato.

In cosa consiste la differenza tra memoria individuale e memoria collettiva? O ancora, qual è la differenza tra memoria e storia?

In linea di massima la memoria è sempre individuale; lo sguardo e il modo di tenere a mente i fatti, soprattutto quando tragici e traumatici, sono particolari di ciascuno. Sappiamo che anche l’esperienza di chi fu deportato nei Lager e assistette alla morte di migliaia di persone fu personale: simile a quella di tanti altri, ma inevitabilmente fatta di elementi specifici.

Solo coloro che hanno provato le camere a gas potrebbero condividere una memoria senza distinzioni; ma quelli sono tutti morti. E poi la memoria dei sopravvissuti, per quanto fondamentale e preziosa, spesso non riesce a dirci perché è successo quel genocidio.

I ricordi ci raccontano quando e come, ma non perché. Questo ce lo può dire soltanto la storia, il lavoro paziente di ricognizione delle cause. La memoria collettiva, quella che si è diffusa sui territori toccati dalle tragedie della guerra, è utile; spesso costituisce un corpo reattivo contro i pericoli di ricaduta nel male.

E tuttavia, anche questa memoria, come quella individuale, è destinata ad affievolirsi; la trasmissione del ricordo non avviene per trasfusione. Si può soltanto lavorare a una educazione civile, che fissi regole di convivenza a partire dalla scuola primaria. Peraltro, i nemici della memoria sono sempre tra noi, e non sempre sono riconoscibili dai loro stivali lucidi e dalle loro uniformi; gli indifferenti sono più pericolosi dei nostalgici, proprio perché invisibili, virali e contagiosi.

Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria e il messaggio del libro è chiaro: non può esserci spazio per l’oblio, perché amnesia significa amnistia. Ma la domanda è: come facciamo a ricordare senza che il tempo allontani e distorca la memoria?

Perché il passato non anneghi completamente con le sue dure lezioni, non c’è che un addestramento continuo alle buone regole di convivenza. Che sono poche, ma essenziali: non trasformare in un nemico chi ha abitudini, origini o idee diverse dalle nostre, diffidare di ogni deriva nazionalista o sovranista, combattere l’illusione che si possa godere di un benessere tutto nostro a spese di altri, e riflettere sempre sugli errori del passato.

Certo, sono in molti a desiderare di chiudere i conti con il passato, soprattutto coloro che portano il peso di responsabilità enormi: sono sempre gli assassini che vogliono la conciliazione con le vittime, che ne chiedono il perdono, che vogliono azzerare i conti.

Certo, sono in molti a desiderare di chiudere i conti con il passato, soprattutto coloro che portano il peso di responsabilità enormi: sono sempre gli assassini che vogliono la conciliazione con le vittime, che ne chiedono il perdono, che vogliono azzerare i conti. Sono loro che dicono che i morti sono tutti uguali, da ogni parte. Ed è vero: ma non sono uguali le idee per cui sono morti. Il perdono non c’entra.

Il passato non si perdona, si studia e si rammenta. I conflitti, talvolta, non si possono evitare; ma anche quelli in nome di una giusta causa devono avere come fine la convivenza e l’inclusione. Ricordiamo, la storia ce lo insegna: se avessero vinto quelli che ora lamentano di essere stati vinti, non avremmo libertà di parola, di opinione, di stampa, di associazione e di rappresentanza politica. La democrazia è una conquista quotidiana, che non ammette deleghe, che richiede l’impegno di tutti.

Walter Barberis

Storia senza perdono


Vele, pp. 96