Leggere il presente

Insultare è un comportamento umano. Intervista a Filippo Domaneschi

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Giulia Priore 11 Gennaio 2023 7 min

L'insulto fa parte della nostra cultura e non dobbiamo vergognarcene, anzi fa di noi persone migliori. Intervista al filosofo della lingua Filippo Domaneschi sul suo libro «Insultare gli altri».

Lei nel libro cita la famosa frase di Sigmund Freud «Il primo umano che scagliò un insulto al posto di una pietra fu il fondatore della civiltà». Come si può adattare questa verità alla società di oggi, che invece sembra diventare sempre più incivile?

L’idea che nella comunicazione quotidiana un ricorso sempre più frequente a termini offensivi e discriminatori ci stia trascinando con un effetto a palla di neve verso un baratro di inciviltà è tutta da dimostrare. Gli esseri umani si insultano, da sempre, e sarebbe ingenuo guardare al passato rimpiangendo un piccolo mondo antico in cui le conversazioni erano scandite da complimenti e ossequi. Eppure, abbiamo la sensazione di vivere nell’epoca d’oro dell’ingiuria. Forse, una delle ragioni a monte di questa diffusa percezione risiede là dove oramai tutti puntano lo sguardo: i social media. Vi sono, credo, due principali motivi per ritenere che i social media cotituiscano un terreno particolarmente fertile per la proliferazione del linguaggio d’odio. Innanzitutto, banalmente, la condizione di anonimato che i social conferiscono agli utenti concede loro una condizione di agevole deresponsabilizzazione rispetto al contenuto delle loro affermazioni: chi produce ingiurie o offese sui social è spesso mosso e incentivato dalla rassicurante garanzia di non poter essere facilmente riconosciuto, identificato ed eventualmente sanzionato. Inoltre, sui social media la comunicazione è essenzialmente caratterizzata da un certo grado di “cecità perlocutoria” (per parafrasare un termine di John Austin), ossia, dall’impossibilità, a differenza delle conversazioni faccia a faccia, di assistere in modo immediato alle conseguenze che un insulto o un atto linguistico cagiona nel destinatario dell’offesa (sofferenza, umiliazione, dispiacere, ecc.). Una certa miopia rispetto agli effetti che il proprio parlare può produrre negli altri può essere in tal senso un altro aspetto che favorisce una certa disinibizione da parte degli utenti dei social media nell’uso di termini spregiativi e ingiuriosi.

Pur ammettendo che i social favoriscano effettivamente la diffusione di un linguaggio violento e conflittuale, da questo ne segue logicamente che ciò ci renderà più violenti e incivili? Il passaggio è più controverso di come appare; poiché controversa e complessa è la relazione tra linguaggio, pensiero e mondo. Di fatto, non vi sono solidi argomenti per ritenere che il ricorso a parole incivili provochi deterministicamente una maggiore inclinazione ad atti incivili. Raramente chi si abbandona a raffiche di offese e insulti nella rete traduce concretamente quella violenza verbale in gesti e azioni violente. Anzi, in un certo senso, potremmo addirittura ipotizzare che i social possano fungere in una certa misura da valvola di sfogo. È proprio questo che suggerisce la citazione di Freud: un insulto è anche uno strumento di ritualizzazione dell’aggressività. Spesso il ricorso a un termine offensivo è un modo per procrastinare lo scontro fisico, traslando la violenza dal piano materiale del conflitto corpo a corpo a quello simbolico della violenza verbale.

Perché la maggior parte delle volte riusciamo a riconoscere un insulto anche a occhi chiusi? Quello dell’insulto sembra essere un patrimonio linguistico e culturale che si tramanda se non geneticamente, almeno fin dai primi anni di età. È così? E se sì, riguarda anche altre culture?

Così come tutte le comunità di parlanti dispongono di mezzi linguistici utili a favorire una comunicazione cooperativa, civile e cortese (si veda il saggio classico di Penelope Brown e Stephen C. Levinson Politeness. Some universals in language usage – Cambridge University Press 1987), allo stesso modo vi sono strumenti verbali predisposti ad alimentare il conflitto tra i parlanti e a produrre sentimenti d’offesa. L’insulto è in tal senso un comportamento tipicamente umano, proprio della nostra specie. L’uso di un linguaggio espressivo è talmente tanto connaturato nel nostro agire sociale che, come spiega Timothy Jay nel suo celebre saggio Why we curse (John Benjamins Publishing 1999), è tra i comportamenti verbali che per primi emergono in fase di acquisizione del linguaggio e tra le ultime forme verbali a venir meno quando la competenza linguistica è compromessa in particolari condizioni cliniche. Di lingua in lingua, gli insulti variano in modo significativo ma non del tutto casuale e arbitrario. Il linguista americano Ken Bergen, ad esempio, ipotizza che al variare delle lingue, il repertorio di espressioni volgari e offensive usate per profanare l’onore di una persona attinge con maggiore o minore voracità ad una delle seguenti aree concettuali: religione, sesso, secrezioni corporee e discriminazione, secondo quello che egli definisce l’Holy, Fucking, Shit, Nigger Principle. Vi sono tuttavia senz’altro lingue più votate all’ingiuria e altre in cui il dizionario degli insulti si esaurisce in una sparuta manciata di lemmi (come il giapponese). In tal senso, la proliferazione delle parole d’odio in una lingua può essere considerata in qualche modo anche il riflesso della propensione al conflitto e della tendenza all’aggressività di una certa comunità di parlanti.

È uno degli ambiti in cui si usa di più: la politica. Anche in maniera sottile come nel caso dei nomignoli ridicolizzanti o con le gaffes involontarie ma molto efficaci. Come se l’arena politica fosse un po’ un ring di boxe: regole chiare e insulto libero. Cosa dice questo di noi e dei nostri politici?

Nell’arena politica, l’insulto è uno dei più efficaci strumenti di delegittimazione dell’avversario, capace di squalificare e irridere il contendente, screditandolo agli occhi dell’elettorato e minando la sua capacità di attrarre consenso. Insulti e offese sono oggi più che mai efficaci attrezzi retorici di delegittimazione dell’avversario e di costruzione del consenso politico – basti pensare che qualche anno fa il «The New York Times» ha stilato una lista delle 598 persone, luoghi e cose insultati da Trump su Twitter. Il potenziale retorico che l’insulto esercita nella cornice della propaganda politica dipende da due aspetti. Innanzitutto, denigrare un avversario politico è un modo per invocare una scelta di campo; ovvero, esortare chi ascolta a manifestare la propria estraneità nei confronti dell’insultato, nonché la volontà di appartenenza al gruppo di colui o colei che insulta. In tal senso, l’insulto si configura come uno strumento particolarmente utile ad alimentare le logiche di polarizzazione ideologica delle quali la nuova retorica populista spesso si nutre. Ma vi è un’altra ragione per la quale disporre di un linguaggio abusivo può aiutare a riscuotere consenso politico. Il politico che esibisce imprecazioni, volgarità e offese scurrili trae beneficio da un meccanismo che William Labov, uno dei padri della sociolinguistica, definiva di covert prestige. L’idea è che alcune forme espressive, come ad esempio i dialetti, sebbene screditate e stigmatizzate dal sistema educativo, continuano a godere di prestigio nascosto entro certi gruppi sociali, fungendo da segnali identitari. Ebbene, a modo suo, anche un linguaggio scurrile e offensivo nasconde una forma di prestigio: insultare e imprecare sono comportamenti che, seppur biasimati, possono essere recepiti come indizi di autenticità e di vicinanza al linguaggio istintivo, autentico, genuino e senza fronzoli del popolo verace.

Filippo Domaneschi

Insultare gli altri


Vele, pp. 176