Leggere il presente

La cancel culture e le sue insidie. Intervista a Maurizio Bettini

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Giulia Priore 11 Gennaio 2024 7 min

La cancel culture ci rende più fragili, indebolisce il nostro sistema immunitario intellettuale rendendoci tutti dipendenti da dispositivi di difesa e controllo della cultura. La cultura non è nostra nemica e l'unico modo per poter leggere, anche i classici del passato, è aprirsi al dialogo, al confronto e, perché no, anche allo scontro.

Decolonizing classics è un fenomeno di origine statunitense che mira a eliminare dalle opere dell’antichità classica greca e romana tutti gli elementi derivanti dalla cultura occidentale, quindi nello specifico razzismo, misoginia, suprematismo bianco e imperialismo. Di cosa hanno realmente paura le persone che portano avanti una politica estrema di decolonizing classics?

Questo movimento chiede in primo luogo di smantellare, ovvero di riscrivere, il canone degli autori classici, in quanto la sua stessa struttura sarebbe inestricabilmente legata all’imperialismo, al sessismo, al razzismo e al colonialismo dell’occidente.

In questo spirito vengono individuati testi che, come si diceva, in qualche modo “fanno paura”, la cui lettura cioè, nelle scuole e nelle università, dovrebbe essere abolita, limitata o comunque preceduta da un trigger warning: ossia un avviso che la tale opera può provocare ansietà, pena, dolore, in quanto caratterizzata da contenuti razzisti, schiavisti, colonialisti, soprattutto sessisti.

È questo il caso, ad esempio, delle Metamorfosi di Ovidio, in cui sono presenti episodi di stupro. A tale proposito si possono anzi leggere le interessanti (talora sconcertanti) reazioni di alcune studentesse americane alla lettura del poema in un libro che si intitola significativamente Perché stiamo leggendo un manuale sullo stupro?.

Mentre qualche tempo fa alla Columbia University si era aperto un dibattito fra gli studenti – che chiedevano di accrescere il numero dei trigger warning premessi ai testi classici – e alcuni professori, i quali si opponevano invece a questa prassi in quanto minaccia per la libertà intellettuale.

Posizioni di questo tipo sono comprensibili nel contesto sociale e culturale americano. Si tratta infatti di una cultura e di una società segnate da profonde fratture, che vengono dal passato, come la schiavitù o la distruzione dei nativi. Quindi non dobbiamo reagire con un’alzata di spalle – i soliti americani! – ma cercando di capire situazioni e contesti. Resta però il fatto che reazioni di questo tipo hanno il sapore della censura, della morte del dialogo, della fine del dibattito, e tutto questo non fa bene né alla formazione degli studenti né allo sviluppo della cultura in generale.

Il ricorso ai trigger warning suscita una riflessione riguardo agli studenti. I quali vengono concepiti come persone fragili, da proteggere, ritenute cioè incapaci di reagire con le proprie risorse morali e intellettuali qualora debbano ingaggiare un dialogo con testi che presentino aspetti critici o spiacevoli.

Ciò che occorre fare, di fronte ad aspetti della cultura classica che oggi ci mettono in imbarazzo, è sforzarsi di aprire, contestualizzare, storicizzare. Altrimenti è proprio la storia che ci va di mezzo, ed è la prima vittima di una lotta che ha anche motivazioni comprensibili.

Nel suo libro cita un episodio avvenuto qualche anno fa durante una sua lezione sul De divinatione di Cicerone. In classe si scatenò un vivace dibattito che lei definisce un esempio calzante di dialogo, perché il ragionamento si è svolto tra opinioni differenti. Dialogo e differenza sono quindi la soluzione per affrontare la paura dei classici?

Sì, assolutamente. Basta pensare all’origine della parola “dialogo”. Una magnifica parola greca, come spesso accade, quand’è in gioco il lessico linguistico o filosofico, in cui si riconosce subito un termine di enorme importanza e significato: lógos. Ora lógos per i Greci designa propriamente sia la “parola” – è infatti un derivato dal verbo légo, “dire” “parlare” – sia più in generale il “discorso”, il “racconto”: con lógos però, e questo costituisce il passaggio più interessante, si designa anche quella facoltà che sta dietro alla parola o il discorso, ossia il pensiero, l’intelletto. Diciamo che il lógos per i Greci è una parola-ragione, un discorso-intelletto, una dimensione in cui il pensiero si fa parola e viceversa. In effetti quando si parla, o si racconta qualcosa, si mettono contemporaneamente in moto i nostri processi mentali – mentre il pensiero, la ragione, trovano il modo di estrinsecarsi, e anche di organizzarsi, proprio attraverso il linguaggio. Ma se il lógos è un discorso-ragione, che cos’è allora un diá-logos?

Come si vede, a questo punto entra in gioco un preverbio, dia-, una particella che indica prima di tutto una “divisione”. Per lo stesso motivo, però, dia- designa anche un movimento attraverso qualcosa, in senso spaziale; mentre in senso temporale implica una “durata” (quando si va ‘attraverso’ il tempo), un “intervallo” (quando il tempo ‘si divide’), una “successione” (quando il tempo si articola in tante porzioni). Questo è il significato di dia- per i Greci. Di conseguenza, preceduto da questa particella il lógos diventa un discorso-ragione che procede attraverso, in successione, per intervalli, “diviso” fra due o più agenti che lo mettono in movimento. Riportato alle sue origini etimologiche un dialogo/diálogos si presenta dunque come un movimento di discorso e di pensiero che procede attraverso, con interruzioni, intervalli, successioni, in una sorta di polifonia nella quale i lógoi dei singoli agenti si vengono man mano componendo.

Ecco. Già solo questa riflessione etimologica fa capire – come spesso accade – la natura e l’importanza della pratica del dialogo. Di fronte a quegli aspetti dei classici che possono oggi risultare più sgradevoli, duri, e che in alcuni generano addirittura timore, non bisogna rifiutarli e chiudere il libro: al contrario, occorre mettersi in dialogo con la schiavitù, il ruolo marginale delle donne, l’emarginazione dell’omosessuale – tutti aspetti della cultura e dei testi classici che oggi possono crearci imbarazzo – per capire dialetticamente perché questi fenomeni si sono verificati, quali riflessioni nascono se paragoniamo questi aspetti della cultura antica alla nostra, se da queste riflessioni possiamo trarre conclusioni che servano a renderci più umani e civili, e così via. Il dialogo storico, il dialogo antropologico con il passato, ecco ciò che occorre.

In ambito accademico è sempre più diffuso l’uso del trigger warning, (le dichiarazioni inserite all’inizio di un testo o di un video per avvisare della possibilità che alcuni fruitori di quel contenuto possano rimanere turbati a causa dei particolari temi trattati, come per esempio lo stupro, i disturbi alimentari o il suicidio). Cosa ne pensa?

Il ricorso ai trigger warning suscita una riflessione riguardo agli studenti. I quali vengono concepiti come persone fragili, da proteggere, ritenuti cioè incapaci di reagire con le proprie risorse morali e intellettuali qualora debbano ingaggiare un dialogo con testi che presentino aspetti critici o spiacevoli. I giovani sono visti un po’ come dei bambini. Siamo di fronte a una pedagogia della protezione morale a tutti i costi – e fa davvero una strana impressione, perché suona come un ritorno ai libri solo per grandi, ai testi espurgati, alle pellicole tagliate, al “vietato ai minori di”.

Questo vale in particolare per le studentesse, che debbono essere protette di fronte a letture caratterizzate da contenuti sessuali particolarmente forti, come molestie, violenza, stupro, assoggettamento e così via. Si dimentica insomma che leggere non significa accettare, e soprattutto che la lettura non è una malattia contagiosa. Se solo si pensa alla costruzione della donna quale veniva propugnata dai movimenti femministi del passato – al loro reclamare per lei una forte agency individuale – qui siamo davvero agli antipodi, con il ritorno a una figura femminile debole e facilmente scalfibile.

Maurizio Bettini

Chi ha paura dei Greci e dei Romani


Vele, pp. 184