Leggere il presente

La città delle donne. Intervista a Elena Granata

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Giulia Priore 15 Febbraio 2024 7 min

Il senso delle donne per la città è quello spirito che scoperchia, che ribalta, che sconvolge i vecchi schemi e che apre lo spazio per idee nuove. Elena Granata, docente di Urbanistica al Politecnico di Milano, ci spiega in cosa consiste questa aria di cambiamento.

Come si possono riassumere le principali qualità per cui le donne hanno un senso per la città?

Può sembrare un paradosso ma la qualità più importante del pensiero delle donne sulla città nasce dalla loro storica esclusione dai processi di produzione urbana. Le donne non hanno progettato città, scritto regolamenti urbani, non hanno costruito edifici e grattacieli, non hanno definito piani del traffico e firmato piani regolatori (salvo rare eccezioni, ovviamente). Non potendo fare tutte queste cose “normalmente” ascritte al maschile, si sono dedicate ad altro. Sono state più giardiniere e paesaggiste che urbaniste, si sono dedicate alla fotografia e al progetto degli spazi minuti e granulari, gli spazi interni alle case e gli spazi pubblici; quando hanno potuto hanno scritto, raccontato, documentato. La loro esperienza quotidiana, che nasce dall’avere ancora sulle spalle le pratiche quotidiane della cura, ha accumulato una conoscenza tacita sui luoghi in cui vivono, camminano, fanno la spesa, lavorano, crescono i figli, studiano, cercano di sopravvivere alle insidie dello spazio urbano. Questa prospettiva decentrata e marginale – guardare il mondo dall’esperienza quotidiana e da fuori rispetto alle strutture di potere – costituisce oggi un punto di vista privilegiato perché solo da lì può nascere quel cambiamento radicale delle città di cui abbiamo bisogno.

Oggi ci è richiesto collettivamente di passare da una visione del mondo (solo) eco-nomica a una visione eco-logica, capace cioè di tenere insieme in modo nuovo le complesse dimensioni della vita quotidiana, con particolare attenzione ai beni comuni dal cui destino dipendiamo tutti (l’acqua, il suolo, l’aria, la luce e il cielo, ma anche l’educazione, l’accesso al web, le competenze digitali, i servizi al cittadino).

In questa radicale, definitiva, ultima crisi dell’architettura e dell’idea stessa di città che ha messo al centro – da qualche decina d’anni – gli edifici, le regole, i piani, le norme, le proporzioni, le misure, le geometrie, si fa urgente una domanda di pensiero e di visioni nuove che valorizzino le relazioni umane, i nessi tra le cose, il senso, l’immateriale, le connessioni tra saperi e discipline, gli ecosistemi, le reti, la biologia, i sensi.

È questo il passaggio fondamentale: dalla città come macchina (macchina per l’abitare, macchina come ingranaggio, macchina per altre macchine) che ha informato tutti i modelli urbani del Novecento, alla città come organismo vivente, da ripensare nelle sue connessioni vitali e nella sua relazione con le nostre vite. C’è ancora un riduzionismo terribilmente pervasivo nel nostro contesto culturale, che riduce tutto a forma, a ingranaggio, a profitto, a interesse di breve termine, a utilità.

Se dovesse segnalare tre proposte, che nascono da questo senso delle donne per la città, quali indicherebbe?

È ovvio che le città non possano essere demolite e ricostruite da capo, ma possiamo adottare soluzioni, trovare accorgimenti, mettere in atto cambiamenti – talvolta anche minimi – che migliorino i servizi generali, promuovano una maggior uguaglianza di genere, lavorino nell’interesse e nel benessere di più tipologie di cittadini.

Tuttavia, le donne possono dare un contributo determinante a immaginare un nuovo modello di convivenza urbana, con la forza delle loro idee, con i loro bisogni e desideri, mettendo a nudo quello che non funziona e che potrebbe cambiare, rivelando le asimmetrie nella ripartizione del potere e delle responsabilità.

Raccontare il mondo da questo punto di osservazione – spiegandolo agli uomini – non significa contrapporre una città delle donne ad una città degli uomini, ma mettere in discussione che ci sia un solo, giusto, definitivo modo di pensare la realtà.

Oggi ci è richiesto collettivamente di passare da una visione del mondo (solo) eco-nomica a una visione eco-logica, capace cioè di tenere insieme in modo nuovo le complesse dimensioni della vita quotidiana, con particolare attenzione ai beni comuni dal cui destino dipendiamo tutti (l’acqua, il suolo, l’aria, la luce e il cielo, ma anche l’educazione, l’accesso al web, le competenze digitali, i servizi al cittadino). Sarah Robinson parla di “relazioni intime, empatiche ed ecologiche con questo mondo di legno, pietra, ossa e pelle” descrivendo la natura corporea e affettiva di questo passaggio.

Ci sono tre temi urgenti su cui le donne, in virtù della loro posizione marginale ed eccentrica, possono dare un contributo: 1. la ridefinizione dell’intimità e dello spazio della cura (dalla casa alle scuole, dalle sale d’attesa degli ospedali alle case per gli anziani); 2. la ricostruzione della natura e del paesaggio, in un’ottica di responsabilità verso il pianeta; 3. la difesa della dimensione collettiva nella città, dello spazio pubblico e dei beni comuni come risorsa fondamentale (in questo rientrano ad esempio le sperimentazioni sulla città a 30 Km/h inaugurate in alcune città italiane). Quello che fino a ieri ci è parso un limite, un’ingiusta discriminazione che ha confinato le donne ad occuparsi della scala minore, del mondo intimo, dei dettagli, suggerisce oggi che le donne possano essere autrici di un significativo cambio di paradigma proprio in questo campo, che intanto è diventato di interesse pubblico e diffuso.

Dietro l’idea di abitare collaborativo, di abitare condiviso che ispira tante sperimentazioni di co-housing c’è una competenza che sa lavorare nello stesso tempo sugli spazi, le relazioni, i bisogni, le regole, i desideri delle persone. Sono tutti temi cruciali e condivisibili ma che ci spingono ancora a salvare dimensioni fragili come le relazioni domestiche e gli spazi della vita comune.

È corretto dire che la sensibilità delle donne per la città riguarda tutti, uomini e donne?

Il bersaglio di gran parte della letteratura di genere è la città a misura d’uomo o meglio ancora “di maschio bianco”, la cui condizione – come scrive Criado Perez ­– è silenziosa giacché non ha bisogno di essere espressa. Essere bianco ed essere maschio sono dati impliciti, non vengono messi in discussione perché sono predefiniti. Ovviamente, aggiungo io, il maschio bianco in realtà non esiste. È una semplificazione che certo esplicita l’invisibilità delle donne ma non aiuta di fatto a comprendere la galassia del maschile. Alla categoria del maschio bianco non appartiene mio padre in pensione e che cammina incerto; non vi appartengono i miei figli adolescenti e inquieti; il mio studente gay arrivato dal sud Italia perché a Milano si può vestire come vuole e neppure Amir, che sarà pure bianco di pelle ma viene dall’Algeria. La locuzione è così potente nel suo definire una posizione di potere ma così debole nel raccontare infinite forme in cui oggi maschile e femminile si danno nelle città.

Il termine rinvia più efficacemente non tanto a un target quanto ad un format, ad un’abitudine nel modo di concepire le strutture urbane, ad un’inerzia del pensiero, ad un limite della visione propria di chi è al comando. È il nome di una classe dirigente che ha occupato spazi di potere e di cultura, rappresentando il mondo a propria immagine e somiglianza. Ma non era Dio.

Quella classe dirigente, fatta di politici, amministratori, architetti, funzionari ha scritto norme e regolamenti, definito proporzioni e usi dello spazio quando ancora la città veniva vissuta soprattutto dagli uomini, quando era ancora forte una separazione abbastanza netta tra privato (delle donne) e pubblico (degli uomini) ma oggi che molto è cambiato quella struttura sociologica somiglia più a una camicia di forza che a un campo di gioco comune.

Raccontare il mondo da questo punto di osservazione – spiegandolo agli uomini – non significa contrapporre una città delle donne ad una città degli uomini, ma mettere in discussione che ci sia un solo, giusto, definitivo modo di pensare la realtà. E per prima cosa dobbiamo buttare via, una volta per tutte, il vecchio Manuale dell’Architetto.

Elena Granata

Il senso delle donne per la città. Curiosità, ingegno, apertura


Passaggi, pp.X-190