Leggere il presente

L’Otto Marzo e l’elefante nella stanza. Intervista a Daniela Brogi

G—P
Giulia Priore 8 Marzo 2022 9 min

L'Otto Marzo è la Festa della Donna ma siamo sempre più consapevoli che una giornata non basta più. Abbiamo posto tre domande a Daniela Brogi per liberare l'elefante nella stanza, ovvero lo spazio delle donne.

L’introduzione al libro Lo spazio della donne s’intitola L’elefante nella stanza e l’immagine è molto calzante per due motivi. Uno, perché fa riferimento alla grandezza spropositata che il problema dello spazio delle donne nella società ha assunto. Due, perché svela la cecità che ostentiamo pur di non prenderci l’impegno di guardare. Questa negazione da dove nasce?

La disuguaglianza e il sessismo sono forme di violenza che risalgono a tempi lontanissimi. Tuttavia, volendo ragionare in particolare di cecità e di elefante nella stanza, forse possono servire a far chiarezza altre due parole: “modernità” e “rimozione”. La prima riguarda il momento a partire dal quale la questione dello spazio delle donne ha cominciato a essere vistosamente corposa, di una «grandezza spropositata», appunto. La seconda parola ci aiuta a capire come quell’elefante abbia potuto essere trattato, anche in senso culturale, come se non ci fosse. Credo infatti che possa essere utile parlare in termini storici, oltre che simbolici, di “rimozione”, vale a dire di un meccanismo, anche psicologico volendo, ma soprattutto e in ogni caso operante a livello profondo, di allontanamento di qualcosa che non solo si dimentica, ma è vissuto come inaccettabile. 

Provo a spiegarmi meglio. La presenza delle donne, in quanto situazione “incontenibile” o indicibile è un fatto autoevidente: nella storia, nella vita pubblica, nei canoni, nei miti fondativi e identitari. Dove sono le donne? Viene da chiedersi leggendo tante ricostruzioni, guardando tanti quadri, ritratti storici, foto, anche di questi giorni, di negoziati politici, o persino locandine o spot di eventi dedicati alla festa dell’Otto Marzo presentati da un uomo. 

La rimozione è un meccanismo che il sapere novecentesco della psicanalisi ci ha insegnato a riconoscere, ma che forse diventa anche più significativo quando passiamo dall’inconscio individuale all’inconscio politico collettivo, per riconsiderare dunque grandi storie che sono state completamente ignorate non da singole persone, ma dalla coscienza pubblica. La vita al tempo del Covid, per esempio, ci sta facendo capire quanto l’Influenza Spagnola, la pandemia che tra il 1918 e il 1920 uccise milioni di persone ma che nessuno ha mai studiato a scuola, sia diventata evidentemente, nel corso del Ventesimo secolo, un grande rimosso storico, un enorme buco nero, se siamo arrivati all’epidemia recente in condizioni di così grande ignoranza. La peste, fino a due anni fa, sembrava un mito letterario boccacciano o manzoniano: figuriamoci se si poteva immaginarlo come un’esperienza possibile o famigliare. Eppure, a pensarci, è strano, perché almeno metà delle persone che sono al mondo (me compresa) potrebbe avere un nonno che è morto di Spagnola. Le grandi rimozioni storiche funzionano così: in maniera pervasiva e assoluta, producendo cecità paradossali vissute come fatti normali. Il paradosso più grande di tutti riguarda proprio lo spazio delle donne.


Rimozione

A partire dagli ultimi due secoli, la presenza delle donne è diventata particolarmente  “ingombrante” e scottante perché le donne, con la modernità, hanno cominciato a fare, a voler fare, i lavori degli uomini, o a studiare, a saper scrivere, o a votare, o a poter amministrare i propri beni o divorziare (chiedo scusa per l’elenco, ma questi dati di realtà ci aiutano ad avere ben chiaro il senso di quanto il patriarcato non sia un’opinione o una battuta spiritosa, ma un sistema storico che è stato appoggiato anche dalla legge fino a pochi decenni o anni fa). Eppure, malgrado la mole pachidermica di questa situazione, si è cercato di non vedere finché si poteva, e si continuerebbe ancora; perciò per rispondere ho usato l’espressione “rimozione”, che funziona per capire come nella cecità – persino «ostentata» come giustamente dice lei – abbiano agito e agiscano resistenze culturali profonde. 

Il tempo presente è un mondo abitato a ogni livello dalle differenze senza essere però essere abituato a gestire, anche culturalmente, queste differenze.

Nel corso del testo ha sapientemente seminato nomi di autrici, artiste, politiche e altre. Uso il verbo seminare perché mi sembra appropriato per descrivere sia l’intenzionalità, sia il risultato. Nel senso che invece di fare un elenco prescrittivo di autrici da leggere, un elenco che rimarrebbe marginale rispetto allo spazio pubblico, lei ha fatto in modo che le personalità di donne nella società risultassero inserite all’interno di un discorso, di un ragionamento che riguarda tutti. È così?

Ecco la parola giusta: seminare. Sì, ha ragione, volevo seminare o “disseminare” come nei giorni scorsi mi ha fatto notare anche un’amica studiosa, Elena Porciani, nel corso una presentazione, regalandomi un’espressione a cui non avevo pensato, pur mettendola in pratica, perché in effetti la scommessa era lavorare non sulle quantità, ma sulle prospettive, vale a dire sulla qualità dello sguardo con cui possiamo pensare e ripensare la storia, anche a partire da tutto il lavoro di studio sulle donne (le loro opere, la loro storia sociale) che è stato prodotto negli ultimi centocinquant’anni. Non intendevo dare i nomi, trattandoli come se fossero gli unici da recuperare nella lista degli invitati alla stessa tavola; bensì mostrare che si può organizzare la tavola in maniera e con domande diverse. Lo spazio delle donne, in questo senso, forse non poteva che uscire in una collana come quella delle Vele Einaudi, perché è un’imbarcazione ridotta che intende affrontare un mare aperto, vale a dire si prepara a intraprendere viaggi che poi saranno proseguiti, migliorati, ripresi anche da altre persone. Avrei potuto anche citare molte altre autrici, ma era un’imbarcazione a vela, non un battello e nemmeno un’enciclopedia. Non si trattava di fare un elenco, una lista, ma di interrogarsi su come ricostruire una profondità di campo e far vedere che il paesaggio da ripensare è una terra vasta. 

In più, sì, proprio come dice lei, ciò che per me era ed è molto importante fare è costruire narrazioni, discorsi, senso comune condivisi e capaci di riguardare, certamente anche in modo diverso, chiunque voglia provare a leggere il libro. Ciò che conta è il dialogo, il confronto, tant’è vero che il libro, anche strutturalmente e stilisticamente, è nato così: da un progetto, da un insieme di riflessioni e ricerche costruite per anni che sono diventate pronte al viaggio quando si sono organizzate in una forma, la forma dello Spazio delle donne. 

Dove sono le donne? Viene da chiedersi leggendo tante ricostruzioni, guardando tanti quadri, ritratti storici, foto, anche di questi giorni, di negoziati politici, o persino locandine o spot di eventi dedicati alla festa dell’Otto Marzo presentati da un uomo.

Quando lei dice che il discorso meritocratico non è la strada giusta per dare più spazio alle donne – o perlomeno ha qualche dubbio – cosa intende? La domanda nasce dal fatto che siamo cresciuti in un mondo in cui l’unico segnale di valore sembrava essere il merito e però questo mito inizia a creparsi.

Le retoriche di cui si servono le ideologie dominanti si decostruiscono anche lavorando di sintassi e di perché. Le frasi fatte del maschilismo benpensante, per esempio, quello con cui puntualmente si spiega alle donne che la disuguaglianza o la monocrazia maschile sono “naturali” fatti di merito, di solito lavorano grazie a motti brevi, che chiudono il discorso senza articolarlo, lavorando sugli effetti, come se fossero fuochi d’artificio, o insegne luminose che ci impressionano, ci abbagliano, ammutolendoci e disorientandoci – un po’ come accade a certi sventurati gatti che di notte, sui bordi della strada, se vedono i fari abbaglianti di una macchina le si buttano addosso, invece di scappare, perché la paura li disunisce. 


Maschilismo benpensante

Il discorso sul merito, così come di solito si impugna quando serve più che altro a difendere assetti del mondo abitati soltanto da un tipo di umanità, va disarticolato, e senza paura, perché quando si parla di merito entrano in gioco e in tensione almeno due fattori, piuttosto diversi, cioè una competenza e una possibilità. Il primo, la competenza, è ciò da cui le donne per secoli sono state tenute lontane; e che altre donne, quando hanno potuto studiare e lavorare, hanno invece conquistato. Il secondo fattore è la possibilità di essere riconosciuta; ti meriti qualcosa perché il mondo circostante ti riconosce. Ecco, a questo proposito è giusto ammetterlo una volta per tutte: anche gli uomini hanno il diritto di meritarsi le cose non solo perché sono uomini. Sembra buffo dirlo, mentre invece (quante volte) non si trova nulla di strano a dire, a rimproverare, a “spiegare” a una donna che deve meritarsi le cose e non ottenerle solo perché è una donna. Disarticolare gli stereotipi, e le ideologie che li fondano, significa rovesciarli, sottrarli alla loro pretesa di assolutezza, esporli all’esperimento del viceversa. La meritocrazia, se ci spostiamo dal non-luogo dei discorsi generici allo spazio storico delle donne, sembra funzionare molte volte come laboratorio di disuguaglianza piuttosto che come argomento reale e culturale. 

Però, grazie alla possibilità di riflettere che mi offrono queste domande, vorrei concludere aggiungendo un’altra considerazione che non ho abbastanza esplicitato nel libro. Il tempo presente è un mondo abitato a ogni livello dalle differenze senza essere però essere abituato a gestire, anche culturalmente, queste differenze. Dinanzi a questo stato di cose non ci si salva da soli, perché abbiamo bisogno, avremo sempre più bisogno di meriti e forme di “genialità” collettiva, piuttosto che individuale, e in tal senso e a maggior ragione i modi di dire del sessismo benpensante sono ciechi, oltre che ingenerosi nei confronti delle nuove generazioni. 

Daniela Brogi

Lo spazio delle donne


Vele, pp.128