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Migramorfosi. Intervista a Ferruccio Pastore

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Giulia Priore 22 Novembre 2023 7 min

L'Italia è un paese migramorfico, e per fortuna. Ferruccio Pastore, direttore del Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull'Immigrazione propone questo neologismo, migramorfosi, per descrivere un fenomeno che riguarda da vicino l'Italia e che, volenti o nolenti, la sta cambiando in meglio.

Cos’è la migramorfosi? Cosa sta mutando e cosa rimarrà uguale al passato?

Migramorfosi è la grande trasformazione che l’immigrazione straniera di massa cominciata negli anni Ottanta del secolo scorso ha indotto nella società italiana. Volenti o nolenti, consapevoli o meno, questo gigantesco fenomeno ci ha cambiati in profondità. Dal punto di vista demografico, ovviamente; ma poi anche da quello economico, politico, culturale.

...quello di immigrazione clandestina è il classico reato senza vittima.

La migramorfosi è un processo straordinariamente complesso, disomogeneo, discontinuo. Una mutazione a macchia di leopardo, con battute d’arresto e regressioni. È impossibile fare un bilancio unitario e oggettivo. Nel libro cerco di farne di parziali, guardando ai diversi ambiti in cui la migramorfosi ha prodotto i suoi effetti.

Nel complesso, tuttavia, credo che l’afflusso di milioni di persone dall’estero ci abbia reso una società più forte. O meglio, se non ci fosse stata l’immigrazione, dobbiamo avere il coraggio di ammettere collettivamente, che oggi saremmo una collettività più vecchia, sclerotizzata e debole.

Ma, specialmente nell’ultima dozzina di anni, quelli delle tante crisi a cascata che si sono susseguite (crisi finanziaria, crisi dello spread, pandemia, guerra), la migramorfosi all’italiana ha preso una piega bruttissima. Una tendenza regressiva che ha portato a una crescita marcata delle disuguaglianze legate all’origine e al colore della pelle, in un quadro di polarizzazione crescente che riduce gli spazi del dialogo e della democrazia.

Eppure, se guardiamo avanti, la migramorfosi è una sfida ancora apertissima. Persino i partigiani più accesi di politiche per promuovere le nascite, si rendono conto che, anche in caso di successo pieno, queste politiche richiedono due o tre decenni prima di dare frutti in termini di risorse umane e di energie collettive. Nel frattempo, è davvero difficile negare che continueremo ad avere bisogno di nuovi, robusti e costanti apporti di popolazione straniera. Ma perché questo avvenga senza fratture e con vantaggi reali per tutti, dobbiamo appunto riprendere in mano la migramorfosi, investendoci di più, con maggiore consapevolezza, isolando chi la strumentalizza per scopi di parte, danneggiandoci tutti.

Le politiche di migrazione sono ancora di sinistra? O è al contrario la destra che se ne è appropriata, nella retorica e nelle misure concrete?

Se definiamo canonicamente la sinistra come una parte politica particolarmente attenta al valore dell’uguaglianza, non solo all’interno dei confini ma anche a livello internazionale, allora sì, un atteggiamento di tendenziale apertura verso l’immigrazione e verso le persone immigrate rimane di sinistra. Senza dimenticare, però, che su questo terreno possono convergere posizioni classicamente liberali e altre di matrice cristiana. Nella ormai lunga storia delle politiche migratorie in Italia, queste ultime, in particolare, hanno svolto un ruolo importantissimo.

Nel complesso, comunque, si può certamente dire che l’atteggiamento verso l’immigrazione e verso le persone immigrate (non è la stessa cosa: si può essere a favore di un’ampia immigrazione legale, ma solo a condizione che si concedano pochi diritti ai singoli immigrati) rimane un parametro decisivo per distinguere tra destra e sinistra. E rimane un cardine identitario per molti, sia da una parte sia dall’altra.

Se però guardiamo al sistema politico e in particolare ai partiti, constatiamo una dinamica strana. Nell’arco di un terzo di secolo, quello a cui guardo nel mio libro, è indiscutibile che sul terreno dell’immigrazione la destra abbia seguito una parabola di radicalizzazione, caratterizzata da una strumentalizzazione sempre più spregiudicata della xenofobia (purtroppo sempre latente) per fini elettorali.

Dall’altra parte, la sinistra moderata, che negli anni Novanta era stata protagonista di una stagione riformista segnata da profonde ambiguità ma significativa, anche in prospettiva comparata, a un certo punto si è arenata. Di fronte all’aggressività e all’assertività crescenti della destra, le forze di centrosinistra hanno sviluppato atteggiamenti sempre più remissivi e rinunciatari. Percependo il terreno dell’immigrazione come un campo minato, in cui si può solo perdere consenso e non guadagnarlo, hanno oscillato tra un basso profilo ammantato di tecnocrazia e occasionali rincorse alla destra sul terreno del populismo securitario. Inutile dire che queste rincorse non hanno mai pagato, anzi sono state controproducenti, per non dire suicide.

Cosa pensa delle politiche sul rimpatrio e sul trattenimento del governo Meloni? Penso soprattutto alla questione di questi giorni sull’allungamento da tre a 18 mesi dei tempi di detenzione amministrativa nei Cpr.

In teoria, un divieto senza sanzione non ha senso. Quindi un regime di frontiere chiuse – o aperte solo a categorie e individui selezionati, come in tutti gli stati contemporanei – esige sanzioni verso chi entra senza autorizzazione. L’unica, decisiva eccezione, in stati che si vogliono democrazie liberali, è l’ingresso di chi fugge e cerca asilo.

Quindi non esiste uno stato che sulla carta non abbia norme e procedure per rimandare indietro chi è entrato illegalmente. In pratica, però, in nessuna democrazia avanzata le politiche di espulsione funzionano davvero. In particolare, nell’Unione europea, i tassi di rimpatrio effettivo (cioè la quota dei destinatari di un provvedimento di espulsione che vengono effettivamente ricondotti nel paese di origine o eventualmente in un un altro paese disposto ad accoglierli) sono dappertutto assai bassi.

Le ragioni sono molteplici: vincoli internazionali e costituzionali che vietano deportazioni di massa; ostacoli economici e logistici; vincoli internazionali. Quest’ultimo è un fattore decisivo, perché a nessun governo al mondo fa piacere riammettere sul proprio territorio cittadini che avevano investito tutto per lasciarlo. A nessun governo al mondo piace, né conviene, trasformarsi in carceriere dei propri cittadini. Per questo è così difficile firmare – e poi soprattutto far funzionare in pratica – accordi di riammissione (si chiamano così, tecnicamente) con paesi come la Nigeria, il Marocco o il Pakistan.

Detto questo, credo che risulti chiaro quanto sia inutile aumentare a dismisura il tempo massimo di detenzione delle persone in attesa di rimpatrio forzato. Qualunque esperto vero, qualunque addetto ai lavori sa benissimo che il tasso di rimpatrio effettivo non dipende dalla durata della detenzione. O il canale di riammissione è oliato e funzionante, e allora questa triste procedura si può compiere in tempi rapidi. Oppure non sono sei mesi di detenzione in più che cambiano le cose.

Tutti lo sanno. Eppure, da vent’anni a questa parte, osserviamo un’altalena grottesca, tra governi di destra che aumentano il tempo massimo di trattenimento forzato e governi di centrosinistra che li ritoccano verso il basso. È un ping-pong meramente simbolico, che purtroppo si gioca sulla pelle di persone che non hanno fatto del male a nessuno (quello di immigrazione clandestina è il classico reato senza vittima). Purtroppo, questo gioco assurdo la politica italiana non riesce a smettere di giocarlo. Mentre quelli che oggi si chiamano Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) rimangono spazi senza legge, ben peggiori di un carcere; mentre le procedure di rimpatrio volontario assistito (accompagnate da incentivi), che la pratica internazionale dimostra essere assai più efficaci di quelle coatte, in Italia sostanzialmente non esistono.

Ferruccio Pastore

Migramorfosi. Apertura o declino


Vele, pp. 160