L’essere umano è un animale sociale, dice Hannah Arendt. Cosa succede quando si lascia il proprio paese e vengono recisi per sempre i legami sociali? Cosa ne è dell’identità?
Arendt denuncia anzitutto la tendenza di coloro che interpretavano quel che avveniva come una disgrazia personale – e perciò finivano spesso per cercare una soluzione altrettanto personale, come il suicidio. Lei stessa era passata per questa esperienza quando era stata internata nel campo di Gurs, nella Francia meridionale. Solo di recente sono emersi documenti e testimonianze al riguardo.
Nel mio saggio ho ricostruito questa sua tentazione che mi ha profondamente colpito. Era, dunque, necessario leggere la persecuzione, l’esilio, la mancata accoglienza nella terra d’approdo, con lenti politiche, senza dimenticare la dimensione esistenziale. L’indice è puntato contro coloro che cercano un inserimento e un’assimilazione a tutti i costi, che inseguono il mito dell’identità.
Valga per tutti il personaggio di Mister Cohn, l’ebreo berlinese, il «superpatriota tedesco» che, dopo il 1933, era pronto a diventare rapidamente un praghese al 150 per cento, un viennese al 150 per cento, e infine un vero francese. Mister Cohn è quell’«immigrato ideale» che, malgrado tutti gli sforzi per cancellare il proprio ebraismo, agli occhi degli altri resta un ebreo. Grottescamente si illude di trovare scampo da solo, adattandosi ogni volta a una nuova nazionalità.
La via alternativa, che Arendt disegna, è quella del “noi” di quei rifugiati che, anziché rifiutare l’esilio, la marginalità, l’estraneità irriducibile, se ne fanno carico rivendicando apertamente la propria condizione. A questi si riferisce il we refugees del titolo. È il vertice politico del saggio: i rifugiati rappresentano «l’avanguardia dei loro popoli». Non il resto assimilabile del popolo ebraico, bensì la sola figura in cui può scorgersi una comunità politica a venire.
Lei ha scelto il testo di Hannah Arendt e lo ha commentato. Ha lavorato quindi su un testo del 1943 con gli occhi del 2022. Cosa è cambiato?
Sono passati ormai quasi ottant’anni da quando Arendt ha scritto questo saggio che è insieme una testimonianza esistenziale e un vero e proprio manifesto politico. Anziché migliorare, le cose sono perfino peggiorate. Non solo in termini quantitativi, ossia perché il numero dei rifugiati nel mondo è andato aumentando in misura esponenziale, ma perché i rifugiati sono circondati da un deserto di ostilità, dove la protezione è un miraggio, l’accoglienza un abbaglio. Gli Stati nazionali, in cui il mondo è spartito, non sono stati in grado di elaborare una politica di ospitalità.
Di più: credo che, ormai da qualche anno, gli Stati conducano una guerra non dichiarata contro i rifugiati, guerra di cui i cittadini sono complici. I rifugiati sono coloro che non possono più far ritorno alla propria casa e non riescono più a trovarne una nuova. La novità non sta nel venire espulsi, bensì nel non essere più accolti.
Aveva ragione, dunque, Arendt, quando esprimeva la propria preoccupazione per la sorte riservata a quella nuova specie umana che andava emergendo nell’ordine mondiale: i «superflui». Presi tra le frontiere nazionali come corpi estranei, i rifugiati appaiono esseri inutili, rifiuti ingombranti. Lo Stato esercita la propria sovranità consegnandoli alle zone di transito e ai campi di internamento, l’unica patria che il mondo sa ancora offrire a quei paria dell’umanità. Relegati nei luoghi del bando, nelle banlieue delle metropoli, nei campi ai confini delle nazioni, oggi più che allora i rifugiati sono per definizione fuorilegge, illegali. Risiedere su un territorio senza autorizzazione diventa un delitto, a riprova che la legge dello Stato è radicata più profondamente dei diritti umani. Quando viene a contatto con l’apolidia, con quella illegalità che è solo mancanza di protezione, la politica tocca il suo limite esterno e lo Stato consegna i rifugiati all’azione della polizia, dotata di una sovranità eccezionale.
Come dare diritto a coloro che, in un’umanità globale, sempre più organizzata, vengono lasciati ai bordi, privati della possibilità di partecipare al mondo comune? Questa è la domanda che Arendt solleva e per la quale oggi l’unica risposta è la violenza con cui i rifugiati vengono a morire in mare, alle frontiere europee, o in quel terribile universo di campi a cui sono relegate le loro vite sfuggite dal groviglio inestricabile di guerre, persecuzioni, carestie, catastrofi ambientali.
«Rifugiato», «profugo», «migrante», «immigrato». Tanti sono i termini per definire persone con una necessità precisa, ovvero quella di fuggire altrove contro la propria volontà. Ognuna di queste parole ha una sfumatura diversa ma sempre tendente al negativo. Cambierà mai questo aspetto?
Penso che sia sbagliato parlare di «fuga», o di «fuggire», come spesso avviene nel contesto italiano. Così come temo sia riduttivo vedere nel migrare un mero diritto alla libera circolazione, quasi in continuità antropologica con il passato. Non basta rivendicare perciò una generica mobilità.
Già alla sua radice etimologica il verbo «migrare» indica lo scambio complesso di luogo, e rinvia al paesaggio in cui si incontra l’altro, un incontro che, per via del luogo, potrebbe sempre precipitare in uno scontro. Migrare è un atto esistenziale e politico. Solo considerando l’orizzonte di un mondo spartito tra Stati nazionali è possibile mettere a fuoco la crisi migratoria e affrontare la questione dei diritti umani.
Sin dalla «crisi migratoria» del 2015 sono state elaborate etichette capaci di arrestare, o almeno di ridurre i cosiddetti «flussi migratori». Per questo è stata affermata la necessità di distinguere tra coloro che, fuggendo per motivi politici, dovrebbero essere accolti, e coloro che, avendo lasciato il loro paese spinti da «mire economiche», o «dall’ambizione di migliorare la loro vita», andrebbero incontro a un «legittimo rifiuto». Ai primi viene attribuita l’etichetta di «rifugiati», agli ultimi quella di «migranti». Se il termine «rifugiato» corrisponde quasi a una forma di redenzione, «migrante» è una etichetta-frontiera. Da una parte i «buoni», dall’altra i «cattivi», da una parte i «veri», dall’altra i «falsi».
Se «rifugiato» è una categoria giuridica, «migrante» non è che il participio presente del verbo migrare. Sembrerebbe un termine neutro. Ma da tempo ha assunto un significato spregiativo. Proprio l’impossibilità di definirlo, se non per quel suo colpevole muoversi, lo espone al sospetto e lo rinvia all’attesa del «richiedente». Non è un perseguitato, non è una vittima, per cui si possa provare compassione, e tanto meno solidarietà. Al contrario, il persecutore potrebbe essere lui. Perché ha le sembianze tetre dell’avversario, del rivale, del «nemico» subdolo e nascosto. Di qui la retorica del «clandestino».
Meno bianco, meno istruito, meno ricco, gettato sulle vie dell’emigrazione da motivi al contempo più complessi e più triviali, viene tacciato di essere un «falso rifugiato», sia perché non corrisponde al dissidente, al «vero rifugiato», sia perché vorrebbe contrabbandare volgari cause economiche per nobili ragioni politiche.
Eppure questo nuovo povero, cui è stata tolta anche l’antica dignità del povero, avrebbe mille motivi da far valere, mille ragioni che lo hanno costretto a partire. L’UNHCR parla già da tempo di «flussi misti» per indicare l’arrivo di migranti che fuggono da guerra, violenza, fame. In quella formula si ammette l’impossibilità di applicare rigide e obsolete categorie. Nei nuovi, innumerevoli conflitti politici, etnici, religiosi, la persecuzione può avere il volto della siccità, oppure quello del gruppo semiterroristico che scaccia da un villaggio i contadini; se questi lasciano la loro terra, potrebbero, a torto, essere considerati migranti economici.
La distinzione tra perseguitati politici e migranti economici non regge. Sarebbe come sostenere che l’impoverimento di interi continenti non abbia cause politiche. La guerra civile globale non viene condotta solo con le bombe. Sfruttamento, crisi finanziarie, fuga dei capitali, corruzione, catastrofi ecologiche, fondamentalismo non sono motivi meno rilevanti della minaccia personale, della tortura, dell’arresto. Quel criterio antistorico è tenuto in piedi solo dalla logica della selezione e dalla politica del respingimento.
Donatella Di Cesare
Noi rifugiati