Leggere il presente

Pianto ergo sum. Intervista a Paolo Pejrone

G—P
Giulia Priore 14 Marzo 2022 5 min

La vita delle piante in città è dura e c'è bisogno di un'intelligenza nuova per concepire la vita delle piante cittadine. Abbiamo posto alcune domande su questo a Paolo Pejrone, che ci ha dato risposte sagge e non convenzionali.

Da molti degli esempi che lei porta nel suo libro, (Garden Bridge, Sky Garden, giardini verticali) – in cui le piante vengono poste in condizioni difficili, esposte alle intemperie su terreni inadatti – mi sembra di capire che l’errore dell’essere umano cittadino è quello di sfidare le piante. Ho come l’impressione che l’umano abbia una paura ancestrale dell’elemento vegetale e che agisca secondo il motto «Mors tua, vita mea» in una continua lotta che ha come obiettivo finale la sottomissione e l’indebolimento del mondo vegetale. In questo progetto quasi del tutto inconsapevole, mascherato a volte da esperimenti urbani e design, sembra che l’intento finale sia quello di rendere le piante dipendenti dall’umano, è così?

È proprio così. Una guerra che io conduco, cercando di essere chiaro e pacato, è per la “liberazione delle piante”. Perché non siano arrischiate, usate e vessate, bensì appagate e, per l’appunto, il più possibile libere. Un muro verticale, lo si sa, è un posto “non naturale”, difficile da piantare e da mantenere, come lo sono un tetto, una terrazza, un balcone o, peggio ancora, un ponte e una passerella con struttura in ferro o cemento. Strade che tutti abbiamo creduto di percorrere negli ultimi sessant’anni e che ho capito quanto siano ardue per chi le vive e le lavora e, soprattutto, sempre un pericolo per le piante. Ben vengano, dove si può, prati e boschi, ma in orizzontale e sulla terraferma, come Madre Natura con il suo antico buon senso comanda, con l’acqua che a loro compete (sull’acqua e sulla sua sempre maggior carenza e difficoltà di reperimento si potrebbero fare ben ulteriori ragionamenti) e con un aiuto umano alla crescita e alla salute che non diventi un’assistenza continua e troppo devota (una sorta di faticoso e ininterrotto caregiving?).


L'antico buon senso di Madre Natura

Non sappiamo più dove metterli questi poveri alberi, li piantiamo per piantarli, come fossero pali, e spesso li abbandoniamo subito.

In che modo le piante di città si differenziano da quelle in natura? Lei fa l’esempio dei pini domestici che crescono spontanei in Maremma: hanno tronchi non troppo alti e molti radicati al suolo mentre gli esemplari che si vedono nelle città molto spesso hanno ben poco di stabile, al contrario hanno tronchi molto alti e slanciati, quasi come fossero esseri del cielo e non più esseri della terra. Sembra che l’estetica delle piante da città abbia definitivamente abbandonato il concetto di natura e cerchi invece di emulare il design moderno/urbano/tecnologico che punta verso l’alto, verso il leggero, l’invisibile.

Per le piante vivere in città è difficile: è il risultato di un’equazione quasi matematica, il frutto di un equilibrio (sempre) precario tra fili, tubi, tombini, fogne, strade e metropolitane. La vita di città è rischiosa e tutt’altro che facile. Eppure si continua a piantare e ad aspettarsi che gli alberi crescano forti e senza dare problemi in ogni luogo. Lo stratagemma, a questo punto (un’uscita di sicurezza a mio avviso solo apparente) sta nelle potature: i lecci vengono trattati a siepone, i platani ridotti a brioches e persino i pini, che proprio non amano venire toccati, subiscono brutali addomesticamenti e ridimensionamenti. Gli alberi a forma libera proprio non sono contemplati al di qua delle Alpi. L’abitudine all’addomesticamento genera diffidenza verso questi esseri che non si piegano mai del tutto al nostro volere e l’amore platonico per le piante si trasforma quasi in odio (viscerale?): l’albero amico diventa allora un nemico da contenere e combattere. Le amministrazioni che a suo tempo lo hanno piantato sembra che abbiano voluto farci un dispetto. Anche in questo caso la paura è davvero una pessima consigliera e va sempre a scapito della storia, vita e forma degli alberi di città.


Il palliativo della potatura

In anni in cui il fenomeno del populismo è dilagante nella politica italiana e mondiale, cosa intende nel suo libro con populismo botanico?

Piantare alberi (in teoria) è un gesto molto nobile e attira pubblico consenso: lo sa bene la gran parte o la quasi totalità dei nostri sindaci (siamo tanto bravi perché “piantiamo”). In sostanza vale il principio pianto ergo sum e così le schiere di alberi “senza terra” aumentano con spavalderia e, continuo a ripetere, con scarsa conoscenza. Non sappiamo più dove metterli questi poveri alberi, li piantiamo per piantarli, come fossero pali, e spesso li abbandoniamo subito. Dalle amministrazioni, più che bugie, sono omissioni quelle che non vengono dette… Le intenzioni talvolta, e perché no?,  possono essere buone, ma i risultati tradiscono una triste realtà: ben pochi si ricordano che le piante sono esseri viventi e hanno bisogno di protezione e, possibilmente, anche di un po’ di amore. 


Pianto ergo sum

Paolo Pejrone

I dubbi del giardiniere. Storie di slow gardening


Passaggi Einaudi, pp. 192