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Processo alle partigiane. Intervista a Michela Ponzani

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Giulia Priore 7 Novembre 2023 7 min

Cosa successe alle donne partigiane dopo la guerra? Vennero processate come i loro compagni uomini? O subirono un trattamento concretamente e moralmente diverso? Michela Ponzani nei suoi due libri sulle donne partigiane e sui processi alla Resistenza affronta la questione delle donne che combatterono contro il fascismo e, da storica, mostra quali ingiustizie abbiano vissuto, sia in guerra, sia dopo la guerra.

In che modo Guerra alle donne, il suo precedente libro per Einaudi, è collegato all’ultimo libro uscito, Processo alla Resistenza?

«Ma chi gliel’ha fatto fare di entrare nella Resistenza? Invece di andare a fare la partigiana poteva rimanere a fare il mercato nero, adesso non morirebbe di fame». È il 1951 quando la partigiana Zelinda Resca sente bisbigliare queste parole da alcune donne, sorprese a chiacchierare davanti alla vetrina del suo negozio di merceria.

Nel dopoguerra gli affari vanno male, la gente non ha denaro da spendere e l’ex partigiana vive in uno stato di abbandono e miseria. Staffetta portaordini della IV Brigata Garibaldi “Venturoli”, tra le colline della bassa modenese, ha trasportato munizioni e rivoltelle, rischiando di essere fucilata dai tedeschi.

È una giovane donna determinata e coraggiosa, e la fame la conosce fin da bambina, ultima di dodici figli di una poverissima famiglia contadina. Il paese dovrebbe a lei, e a tante donne come lei, solo riconoscenza. E invece, Zelinda viene arrestata dai carabinieri a seguito del ritrovamento di una fossa comune, dove nel ’45 sono stati gettati i corpi di alcuni fascisti. Un delitto mai commesso, che però non le risparmia anni di carcerazione preventiva (da innocente) in attesa di giudizio, e la reclusione in manicomio, usato all’epoca come sanatorio. La sua testimonianza restituisce, forse meglio di altre, quel clima di ingiustizia profonda che lacera il paese e avvelena ancora oggi il ricordo di una delle pagine più nobili della nostra storia.

«Processo alla Resistenza» è il tentativo di capire, attraverso una ricerca durata molti anni negli archivi giudiziari, cosa accadde ai partigiani dopo l’aprile 1945 e perché quella generazione che aveva disobbedito al potere fascista e scelto la strada della libertà, fu per decenni (e in parte ancora oggi) messa sotto accusa.

Ho dedicato molte pagine di Guerra alle donne a quella memoria taciuta, rimossa, sepolta tra le pareti domestiche o nel profondo della propria coscienza, di donne che avevano combattuto e vissuto indicibili violenze. Donne che, in un’Italia desiderosa di lasciarsi alle spalle i traumi e lutti della guerra, si erano autocondannate al silenzio perché nessuno era disposto ad ascoltarle.

Processo alla Resistenza è il tentativo di capire, attraverso una ricerca durata molti anni negli archivi giudiziari, cosa accadde ai partigiani dopo l’aprile 1945 e perché quella generazione che aveva disobbedito al potere fascista e scelto la strada della libertà, fu per decenni (e in parte ancora oggi) messa sotto accusa.

Le donne nel periodo subito dopo l’armistizio, quindi dopo l’8 settembre 1943, hanno subito un trattamento diverso nei processi rispetto a chi aveva fatto la Resistenza?

La magistratura che nel dopoguerra giudica i partigiani come delinquenti assetati di sangue, assassini vigliacchi o terroristi senza scrupoli, facendo della “Resistenza un’imputata a vita”, è la stessa che riabilita ex fascisti e collaborazionisti della Repubblica Sociale, colpevoli di gravi crimini di guerra contro civili. Uomini che in fondo avevano agito da soldati “costretti ad obbedire ad ordini superiori”, e nel migliore dei casi erano stati “buoni padri di famiglia”.

Alla fine degli anni ’40, lo stupro non è ancora considerato un crimine contro la persona (lo diventerà solo nel 1996) e neppure un crimine di guerra. Si parla di “offesa al pudore e all’onore della donna”, ma nella mentalità degli italiani (non solo della magistratura) le violenze sessuali sono una componente fatale (quasi necessaria) di ogni guerra.

Sono proprio le donne a pagare il prezzo più alto di questa riabilitazione. Esposte a una campagna di calunnie messa in piedi da vari organi di stampa, malgiudicate per non dire diffamate, molte ragazze che fra il 1943 e il 1945 hanno combattuto nella Resistenza, vengono ripetutamente insultate come “donne di dubbia moralità”, semplicemente perché hanno osato sovvertire l’educazione fascista e patriarcale che le voleva “spose e madri esemplari”, fuori e dentro le mura domestiche.

Appena eletta alla Camera dei deputati, Carla Capponi, medaglia d’oro al valor militare, viene insultata durante un dibattito parlamentare da onorevoli deputati della destra missina, con tanto di inequivocabili gesti osceni. “Mamma partigiana, mamma puttana”, avrebbero gridato i compagni di scuola a sua figlia Elena, nata dalla relazione con Rosario Bentivegna.

Le partigiane sono delle ribelli dal temperamento ostinato, che hanno ribaltato gli equilibri di potere fra i sessi. Sono scandalose. Ed è proprio questo che la società non perdona. Un pezzo non irrilevante dell’opinione pubblica italiana, (benpensante, moderata e per certi versi ostile a riconoscersi non solo nel carattere “rivoluzionario” della Resistenza ma pure nell’esperienza antifascista), continuerà per decenni a offenderle e irriderle, anche in sede processuale, quando molte saranno chiamate a testimoniare per gli stupri e le torture subite nelle caserme della RSI, sotto interrogatorio.

Come sono stati trattati nello specifico i reati sessuali sulle partigiane nei processi successivi alla guerra?

Celebrati a porte chiuse per non offendere la sensibilità dei giudici (non tanto il pudore delle vittime), i processi per i reati sessuali sulle partigiane sono un campionario dell’orrore.

Nel 1948 è la Cassazione a stilare un elenco degli atti «crudeli e disumani» compiuti da tedeschi e fascisti: «denudare completamente una donna e percuoterla ripetutamente con nerbate, introdurre nella vagina una bottiglia o un proiettile sino a farle uscire del sangue; bruciare i peli del pube, praticare ripetute iniezioni di benzina, congiungersi violentemente con la donna, rovesciarle le unghie degli alluci con una pinza, lacerarle l’imene, obbligarla a compiere atti di masturbazione e inghiottire lo sperma».

Alla fine degli anni ’40, lo stupro non è ancora considerato un crimine contro la persona (lo diventerà solo nel 1996) e neppure un crimine di guerra. Si parla di “offesa al pudore e all’onore della donna”, ma nella mentalità degli italiani (non solo della magistratura) le violenze sessuali sono una componente fatale (quasi necessaria) di ogni guerra.

Non a caso nel 1947 la Cassazione concede l’amnistia a un capitano delle brigate nere accusato di aver abbandonato una partigiana “in segno di sfregio, al ludibrio dei brigatisti, che la possedettero, bendata, uno dopo l’altro”. Secondo la Corte, non si era trattato di sevizie perché la vittima (una giovanissima ragazza di 16 anni) aveva “goduto di una certa libertà, essendo staffetta partigiana”.

Ci sono poi gli stupri compiuti dall’esercito tedesco, come quello subito da una giovane donna nei giorni del massacro di Marzabotto-Monte Sole, nell’autunno 1944. Rimasta sola con un figlio neonato e il marito prigioniero in Germania, è il parroco del paese a chiederle di concedersi a un gruppo di soldati tedeschi, che minacciano di uccidere gli abitanti del villaggio. «Mettiti nelle mani di Dio». Queste le parole di un uomo senza coraggio, che usa la violenza su una donna come arma di scambio per la propria salvezza.

Michela Ponzani

Processo alla Resistenza. L'eredità della guerra partigiana nella Repubblica 1945-2022


Einaudi Storia, pp. XVI - 238