Leggere il presente

Restare è una forma di resistenza. Intervista a Vito Teti

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Giulia Priore 28 Aprile 2022 8 min

Restare è un gesto attivo, al contrario di ciò che si pensa. E molto spesso rimanere in un luogo è l'atto più rivoluzionario che si può fare: queste e altre considerazioni sulla restanza e sulla resistenza insieme con l'antropologo Vito Teti.

Nel suo libro La restanza al centro c’è la parola “restare”, che di solito viene associata al paese, al villaggio natìo, alla campagna e alla montagna. È possibile invece essere dei restanti anche in città? E penso soprattutto alle periferie, luogo liminale in cui sembra difficile voler restare.

Negli ultimi decenni il problema dello spopolamento delle aree interne, della montagna, al Sud come al Nord, è diventato più drammatico e più vistoso. Si tratta di un processo di erosione a volte intenso – come al tempo delle ondate migratorie -, a volte a bassa intensità, ma che nel complesso sembra configurare una sorta di catastrofe dei luoghi, una demartiniana “fine del mondo”.

Da sempre cammino a piedi in un’area interna, è il luogo dove torno dopo ogni fuga, che restituisco nei miei lavori e che, in fondo, proprio per le dinamiche del radicamento, non sono mai davvero sicuro di saper raccontare.

Testimoniare, senza sconti, la storia di un abbandono significa però guardare anche tra le pieghe di questa storia, significa individuare le vicende di quelle persone che della restanza hanno fatto un progetto di vita, significa descrivere un’energia positiva, dignitosa, programmatica, che non può restare irracontata.

Negli anni della pandemia i piccoli villaggi sono velocemente riemersi dalla voragine della loro irrilevanza strategica, e a molti sono apparsi come il contraltare perfetto alla confusione, alla folla, all’anomía della metropoli. Ma non voglio cedere a questa retorica e non voglio azzardare comparazioni indiscriminate; col termine «restanza» non definisco una categoria e non alludo a un principio neutro di interpretazione applicabile a contesti diversi. La restanza è un aspetto qualitativo della vita di persone “resistenti”, di uomini e donne che ho incontrato nel mio cammino e che restano saldi in contesti in cui tutto sembra cadere a pezzi. Restanza, quindi, non è un concetto valutativo, ma è un modo di disporsi ad ascoltare storie di vita.

Non sarò dunque io a dire che nelle periferie non si possano ascoltare voci di restanze. Questo non significa non avere coscienza del fatto che le periferie metropolitane sono spesso l’esito di spostamenti recenti di popolazioni che fuggono da aree invivibili o considerate tali, che spesso sono l’unico approdo possibile per chi fugge dalla guerra, dalla fame, da condizioni di invivibilità causate dalle crisi climatiche. Luoghi da noi considerati invivibili spesso per altri sono gli unici possibili. A fronte di tutto ciò, avere la capacità di ascoltare le storie raccolte dall’interno delle periferie, anche di una singola scelta di organizzare una restanza, è un modo per uscire dalle nostre periferie mentali.

Segnalerei anche, a margine, i tanti progetti di rigenerazione delle periferie per ricordare che anche in questi casi restare non significa accettare lo stato delle cose, ma creare condizioni diverse di abitabilità, domesticità, appaesamento.  Non è senza significato che molti studiosi propongano di ripartire proprio dalle periferie e che vedano proprio nei luoghi marginali la possibilità di creare nuove comunità.

Si scelga di restare o di migrare (ma bisogna considerare restare e migrare due diritti) bisogna essere consapevoli che occorre avere cura dei luoghi in cui abitiamo. È un concetto tanto banale quanto, oggi, rivoluzionario.

«Conosco persone che hanno viaggiato molto e non hanno “visto” nulla». Questa è una sua citazione di pagina 101 del libro. Ho notato che tra le parole restare e resistere c’è una differenza di poche lettere. Cosa avvicina le due parole e cosa quindi di conseguenza significa viaggiare, partire oggi nell’epoca della solastalgia (da solace consolazione e nostalgia)?

Estratta dal contesto la frase può sembrare troppo assertiva rispetto a quello che credo sia lo spirito del libro. Il mio intento era solo quello di rimarcare una cosa ovvia, cioè che si viaggia non solo con il corpo, ma con la mente, con le sensazioni, le emozioni, le rappresentazioni del proprio luogo. Ciò che è in viaggio è il proprio mondo, e questo comporta la necessità costante di negoziare senso ad ogni nuovo incontro. Al contempo, è viaggio anche quello di chi sta fermo ed erra con la mente, con la fantasia, con i libri che legge.

In più parti di questo lavoro mi soffermo sull’idea che sia il partire sia il restare comportino forme di spaesamento, d’inquietudine, di dispersione. Lo spostamento non avviene solo nei luoghi, ma anche nel tempo, e i conti con il tempo che passa devono farlo sia quelli che restano, sia quelli che partono. A volte chi resta ad assistere al mutamento del proprio mondo, giorno dopo giorno, è tutt’altro che pacificato, ma anzi è in esilio, sradicato, si sente fuori luogo e deve compiere una continua opera di appaesamento nel luogo che più gli è familiare e che gli diventa lentamente estraneo.

La sua domanda coglie nel segno: restare in fondo è una forma di resistenza. La parola resistenza, per la nostra formazione politica e storica, ci fa venire immediatamente alla mente la Resistenza dei partigiani ai nazifascisti. Ma resistenza è anche ciò che opponiamo alle catastrofi naturali e alle catastrofi culturali, ai crimini di guerra e, non meno, ai “crimini di pace” di cui parlava Basaglia.

È Glenn Albrecht (2019) a parlare di solastalgia (una crasi fra il termine inglese solace, consolazione, e nostalgia), sentimento che si genera quando il paesaggio familiare, a causa dei mutamenti intervenuti, non è più fonte di conforto e genera invece un senso di desolazione e di smarrimento. Albrecht sostiene di aver osservato e descritto la solastalgia presso varie popolazioni in zone diverse del mondo e, in genere, in seguito a eventi distruttivi. L’attività di ricostruzione degli uomini dopo un terremoto, un’alluvione, o la rigenerazione di terreni diventati infertili per l’eccessivo sfruttamento o per l’inquinamento, vengono raccontati come forme di resistenza e di resilienza alle negatività sperimentate quotidianamente.

Restare, allora, significa cura. Si scelga di restare o di migrare (ma bisogna considerare restare e migrare due diritti) bisogna essere consapevoli che occorre avere cura dei luoghi in cui abitiamo. È un concetto tanto banale quanto, oggi, rivoluzionario.

Alla luce dei dolorosi avvenimenti delle ultime settimane in Ucraina mi sorge spontanea una domanda per lei: una cosa è restare in tempo di pace, un’altra in tempo di guerra. Cosa spinge le persone a non fuggire anche quando la loro stessa vita e quella dei loro cari viene messa in pericolo?

Credo che occorra capire meglio quello che sta succedendo prima di poter tentare una, sia pure provvisoria, risposta. Troppo dolore, troppo orrore, per guadagnare una distanza critica e ricondurre la guerra in Ucraina ai temi del mio libro. Un conflitto che, improvvisamente, sembra interrogarci anche su tutte le altre guerre che non siamo riusciti a vedere.

Anche in questo caso, tuttavia, possiamo riflettere su come le dinamiche dell’interazione tra “scelta” e “necessità” offrano un punto di vista peculiare, ogni volta diverso, sul fenomeno del restare. Per indole e per scelta, non sopporto le teorie che esaltano il mero localismo, e da antropologo quando parlo di patria parlo sempre di patria culturale, un mondo che va al di là di un mero confine geografico. Segnalare i limiti e le contraddizioni di questa globalizzazione, non può significare tornare (cosa peraltro impossibile) a nazioni autarchiche, autosufficienti, chiuse in un nazionalismo fine a se stesso.

Detto questo, resistere può significare restare per difendere il proprio villaggio, la propria storia, la propria casa, che però non devono diventare prigioni mentali, recinti chiusi, ma spazi da aprire, pacificamente, agli altri, quando pacificamente arrivano.

Vito Teti

La restanza


Vele, pp.168