Nel libro affronta il tema della semplicità. Lei invita a ridurre, a togliere, in poche parole a sfuggire alla complessità intesa come accumulo senza criterio. Cosa significa questo concretamente, anche in relazione all’antropocentrismo? Siamo noi esseri umani forse troppo ossessionati dalla nostra complessità, o meglio dal nostro apparire complessi?
Semplice non è ciò che è facile. Semplice è ciò che punta alla stesso risultato della complessità, ma lo fa cercando di arrivarvi attraverso l’uso di un minor numero di passi. Di fatto è un atteggiamento profondamente ecologico che deriva ovviamente dalla matematica anche se abbiamo degli antecedenti profondi nella filosofia. Penso ovviamente a Kant e al suo principio di semplificazione ontologica secondo cui non bisogna mai moltiplicare l’entità più del necessario quando si cerca di spiegare un qualsiasi genere di fenomeno.
In questo mio libro cerco di attuare questo principio normalmente applicato a fatti e fenomeni esterni alla nostra vita; all’idea che una delle principali cause dell’antropocentrismo sia stata quella di semplificare dove non si doveva e di complessificare dove invece non era assolutamente necessario. Una delle sfide della contemporaneità mi pare sia proprio quella di rendere più semplici molti dei processi complessi che riguardano la nostra esistenza, dalla legge normativa fino alla nostra relazione con l’ambiente.
Ed è in questo senso che intendo la semplicità, ovvero come una sorta di legge regolativa della nostra vita quotidiana che dovrebbe puntare a farci capire in modo anche logico e non soltanto mistico che lo scopo dell’esistenza sia soprattutto quello di massimizzare la felicità e diminuire il dolore; esattamente come suggeriscono i filosofi morali di matrice utilitarista. Solo che per farlo dobbiamo davvero abituarci a capire che tutto l’universo può riposare in un fiore esattamente come riposa in un complessissimo sistema di regolamentazione delle cose.
Ancora una volta penso che la filosofia sia soprattutto utile nella rimodulazione dello sguardo che abbiamo nei confronti delle cose ed è la ragione per cui la legge della semplicità come tutte le altre parole che analizzo nel libro hanno soprattutto la funzione di farci considerare in modo diverso cose che normalmente osserviamo con uno sguardo e con una postura scorretta. Che poi appunto è quella dell’antropocentrismo che ci porta a pensarci più complessi delle altre entità della natura mentre in realtà siamo tutti nella stessa identica situazione.
Lei parla della differenza tra ecologia e ambientalismo. In cosa consiste?
In letteratura distinguiamo l’ecologia dall’ambientalismo perché la prima è una parola tecnica della scienza che riguarda lo studio degli ecosistemi e dei biomi. Mentre invece la parola ambientalismo riguarda l’apparato morale attraverso il quale dobbiamo cercare di ridiscutere la relazione di superiorità che abbiamo nei confronti dell’ambiente e in generale delle altre forme di vita.
Nel mio libro provo a utilizzare la parola ecologia come una chiave di lettura per spiegare una nuova interpretazione metafisica dell’idea strutturale che abbiamo nei confronti delle entità non più intese come singolari. Questo significa, tradotto in parole semplici, che ogni entità e dunque anche ogni vita non è importante di per sé ma per le relazioni che queste singole vite possono avere tra loro. Diciamo che è un’idea di passaggio da una società o filosofia che punta a individui singoli (corpi in velocità di fuga appunto) a un’immagine di mondo che punta alle relazioni tra questi stessi individui (corpi che restano e combattono insieme). In modo ancora più semplice si tratta di applicare filosoficamente e alla quotidianità il principio fisico per cui a ogni azione corrisponde una reazione uguale contraria cercando di capire che tendenzialmente questa reazione riguarderà soprattutto l’altro che è davanti a noi – ma quest’altro non è soltanto l’umano: sono anche le foglie, i sassi, le pietre, gli animali e tutta la complessità della vita che ci circonda.
È impossibile cercare di costruire una visione ambientalista della contemporaneità senza aver cercato di risolvere il problema culturale della ecologia che ci riporta a un nuovo sguardo verso le cose della natura. Non soltanto che abbracci una nozione morale trasversale, ma anche non più discriminatoria, e ancora una volta non antropocentrica.
Come si coniugano all’interno dello stesso trattato sul presente un capitolo sull’attesa e un capitolo sull’anticipazione, poggiando la prima sulla pazienza e la seconda invece sullo slancio verso il futuro?
Attesa e anticipazione nel mio libro sono profondamente connesse perché attendere significa dare al mondo la possibilità con i suoi propri tempi di rispondere alle azioni che noi in qualche modo inneschiamo. Credo sia evidente che siamo profondamente disabituati all’attesa. Questo capita anche banalmente tutte le volte che con i nostri telefoni cellulari attiviamo processi che ci portano del cibo o che ci conducono attraverso le nostre città o che ci dicono esattamente quando pioverà o quando qualcuno legge i nostri messaggi; questo ha fatto sì che tutto il meccanismo della vita umana da sempre basato sull’attesa sia andato completamente stravolgendosi ma ha anche causato la problematica nozione filosofica che ci aspettiamo dal mondo esattamente quello che i nostri algoritmi ci diranno, minimizzando di fatto qualsiasi possibilità rivoluzionaria delle nostre stesse azioni.
Anticipare significa invece – senza forzare in alcun modo i processi del mondo – portare nel qui e ora pezzi di questa rivoluzione che i nostri algoritmi non prevedono mostrando e dimostrando che altre possibilità rispetto a quelle ordinarie sono davvero possibili; è un atteggiamento che ha conseguenze morali scientifiche e politiche fondamentali e d’altronde la filosofia è sempre servita a questo: svelare attraverso forme più o meno simboliche che altre modalità del mondo sono davvero attualizzabili.
Leonardo Caffo
Velocità di fuga. Sei parole per il contemporaneo