Leggere il presente

Vajont, un disastro che si poteva prevedere. Intervista a Marco Armiero

G—P
Giulia Priore 3 Ottobre 2023 7 min

Il 9 ottobre 1963 avvenne la tragedia del Vajont. Pubblichiamo questa intervista a Marco Armiero che nel suo libro, oltre a raccontare cosa avvenne sessant'anni fa, ci spiega perché è accaduto e che cosa si poteva fare per evitare un disastro che, nel frattempo, è diventato un triste simbolo di come ecologia e politica siano strettamente collegate.

Che cos’è l’ecologia politica e in che modo il Vajont ne è diventato il simbolo?

L’ecologia politica è un campo di studi multidisciplinare – o, come l’ho definito in altre occasioni, indisciplinato – che studia la natura e le sue relazioni con le società umane senza ignorare il potere e le ineguaglianze. Come ha spiegato bene lo studioso statunitense Paul Robbins, l’ecologia politica è la risposta a un’idea e una pratica dell’ecologia come se fosse e dovesse essere uno spazio apolitico. Nel discorso mainstream, la scienza e la natura non hanno né ideologie né agende politiche. Se è vero che la forza di gravità non dipende dalle proprie convinzioni ideologiche e neppure dalla classe sociale, è altrettanto vero che la costruzione e legittimazione dei saperi hanno a che fare con le strutture sociali, in altri termini con il potere. 

Il Vajont, infatti, è una grande lezione sul potere, il suo rapporto con la scienza, il ruolo dell’informazione e della politica, e infine la ricerca della giustizia, tanto nelle aule dei tribunali quanto nelle memoria collettiva del Paese.

Non so se il Vajont sia un simbolo dell’ecologia politica – a volte trasformare qualcosa in un simbolo rischia di cancellarne la materialità – ma di certo l’ecologia politica può contribuire a rileggere quella storia mettendo al centro la questione del potere e dell’ingiustizia ambientale, intesa come asimmetrica distribuzione di rischi. Il Vajont, infatti, è una grande lezione sul potere, il suo rapporto con la scienza, il ruolo dell’informazione e della politica, e infine la ricerca della giustizia, tanto nelle aule dei tribunali quanto nelle memoria collettiva del Paese.

Studiare oggi il Vajont con gli strumenti analitici e concettuali dell’ecologia politica significa, ad esempio, interrogarsi sul rapporto tra scienza, tecnologia e crisi socioecologica. Si può interpretare il Vajont come un fallimento tecno-scientifico, magari come la prova di una mancata multidisciplinarietà tra ingegneri e geologi; su questo aspetto insiste l’UNESCO che ha inserito il disastro tra le storie esemplari per evitare futuri disastri. Sebbene l’appello ad un approccio più olistico mi trovi d’accordo, credo che il Vajont non sia solo un errore scientifico-tecnologico. I 2000 morti della strage non sono stati uccisi dalla mancanza di multidisciplinarietà ma da un sistema che ha privilegiato il profitto sulla precauzione, scegliendo di delegittimare saperi e preoccupazioni che non servivano ai suoi interessi. 

Cos’ha in comune e in cosa si distingue il disastro del Vajont del 1963 con i disastri ecologici di oggi, come per esempio la valanga della Marmolada? Come si può inserire il discorso ecologico politico all’interno della questione climatica?

La vicenda del Vajont sembra davvero una tragedia classica, così ricca di presagi da rendere l’epilogo drammatico solo una questione di tempo e forse di dimensioni della strage. Il ruolo della giornalista e scrittrice Tina Merlin, che denunciò i rischi derivanti dalla diga con grande anticipo rispetto al disastro, è stato fondamentale nel rendere visibili preoccupazioni e timori diffusi tra gli abitanti della valle. Ad un giornalista francese che all’indomani del disastro le chiedeva come facesse a sapere dei pericoli dell’invaso, Tina Merlin rispondeva con una semplicità disarmante che le era bastato ascoltare chi quei pericoli li viveva ogni giorno. La questione della prevedibilità è il cuore di ogni dibattito sui rischi e troppo spesso sui disastri ambientali. La previsione ha a che fare con un groviglio di questioni che attengono al principio di precauzione, all’onere della prova, alla legittimazione del sapere e all’iniqua distribuzione delle risorse tra i soggetti in campo.

Insomma, spetta ad una piccola comunità di montagna dimostrare che un invaso idroelettrico è pericoloso oppure tocca alla corporation dimostrare che non lo sia? Come possono competere ad armi pari dei montanari preoccupati da una diga, una comunità operaia all’ombra di un petrolchimico, o le lavoratrici esposte ad agenti chimici, e le grandi corporations che procurano queste fonti di rischio?

La storia del Vajont racconta anche di questa enorme asimmetria di risorse, prima per affermare il diritto a vivere senza rischi e poi per assicurare giustizia per le vittime. Tanto per essere chiari: avvocati, esperti, prove di laboratorio e altre risorse non sono distribuite in maniera equa tra le parti. Se è vero che spesso all’indomani di disastri ambientali si ribadisce la loro frequenza, l’eventuale prevedibilità non è sempre così chiara come al Vajont. Credo che questa storia ci interroghi su cosa fare dei saperi dal basso, non ufficiali, delle paure e delle richieste di precauzione. Ci ponga il problema degli organi di controllo e della loro autonomia dagli interessi economici. Alla fine, in modo più radicale, credo che il Vajont metta in discussione la depoliticizzazione della scienza: è scegliere di stare dalla parte dei marginali, di quelli senza potere che produce il sapere che può scongiurare l’apocalisse.

«Le memorie ribelli non possono che essere partigiane» (p.113) Lei scrive questa frase alla fine dell’ultimo capitolo ed è quindi quasi una conclusione di un ragionamento sulla responsabilità della memoria. Che cos’è una memoria ribelle e che cos’è una memoria partigiana?

Spesso si dice che la memoria dei disastri è l’antidoto perfetto per evitare di ripeterli. C’è molto di vero in questa affermazione; anche dal punto di vista strettamente tecnico considerare i disastri passati e più in generale la storia dei luoghi dovrebbe far parte di qualunque valutazione di impatto ambientale. La sismicità storica di un territorio, la frequenza di inondazioni, i tracciati di corsi d’acqua, magari ormai invisibili, sono solo alcuni degli esempi di questa memoria preventiva che può aiutare a pianificare il rischio.

Tuttavia, c’è qualcosa che mi lascia insoddisfatto con questa idea strumentale della memoria. Il caso del Vajont spiega chiaramente che le memorie di un disastro così tragico sono sempre plurali, spesso conflittuali. Invocare il ricordo del disastro assume che esista una memoria condivisa, ma spesso questa attitudine si traduce nell’imposizione di un regime memoriale ufficiale che non necessariamente costruisce comunità più sicure. Nel mio volume L’era degli scarti (Einaudi 2021) ho parlato di una infrastruttura narrativa tossica che invisibilizza, naturalizza o normalizza la produzione continua di comunità umane e non umane di scarto.

E come esempio di questa infrastruttura narrativa tossica avevo proprio utilizzato il caso della memoria del Vajont, schiacciata tra l’invisibilizzazione del disastro e il lutto addomesticato che rifiuta la richiesta di giustizia. Le memorie ribelli sono parte di quella guerriglia narrativa che mira a sabotare l’infrastruttura narrativa tossica. In un saggio a quattro mani scritto con Sergio Ruiz Cayuela definivamo la guerriglia narrativa come l’insieme di pratiche che resistono alle narrazioni tossiche mentre propongono storie e identità alternative. Similmente, la memoria ribelle non è semplicemente la storia inascoltata dell’oppressione, recuperata dal dimenticatoio della memoria; piuttosto, la memoria ribelle è una pratica di guerriglia narrativa che consente di immaginare e raccontare in modo nuovo le storie subalterne e allo stesso tempo creare identità collettive.

Marco Armiero

La tragedia del Vajont. Ecologia politica di un disastro


Vele, pp.160