Leggere il presente

Wasteocene. Intervista a Marco Armiero

G—P
Giulia Priore 13 Dicembre 2021 7 min

Poco prima delle feste abbiamo posto tre domande a Marco Armiero sul suo libro sul Wasteocene, l'era degli scarti. E abbiamo scoperto che noi esseri umani non solo siamo dei grandissimi consumatori di rifiuti materiali ma soprattutto produciamo wasting relationships, relazioni di nullo valore.

Wasteocene: questo è un termine che ha coniato lei nel suo libro L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale e che rischia di sostituire il più noto Antropocene. Nel momento in cui abbiamo tentato di trovare una traduzione appropriata in italiano ci siamo resi conto di quanto l’area semantica del termine “waste” sia ampia nella lingua italiana. Rifiuto, scarto prima di tutto, ma anche immondizia, spazzatura, discarica e ancora tossicità. Già solo questo indica quanto il termine Wasteocene sia adatto a definire la nostra era. Quanto pensa che definire i tempi in cui si vive sia d’aiuto per cambiare gli aspetti più dannosi della nostra società? 

Sì, non è stato facile tradurre questo termine e forse anche altre cose nel libro non si sono prestate facilmente alla traduzione italiana; pensi ad esempio alle wasting relationships e al commoning, che sono due concetti chiave del volume.  Sono davvero molto grato alla traduttrice, Maria Lorenza Chiesara, che ha fatto un ottimo lavoro. Gli anglismi sono spesso un vezzo, a volte anche un tic sintomatico della nostra condizione di periferia dell’impero intellettuale nord americano. Nel mio caso sono anche il frutto di una lunga esperienza di emigrazione che spesso mi fa essere più a mio agio con l’inglese accademico. Ma in questo caso davvero il Wasteocene si prestava bene ad esprimere ciò che desideravo comunicare. In particolare, il fatto che in inglese “waste” sia tanto un sostantivo che un verbo è un elemento fondamentale per la costruzione della mia tesi: il Wasteocene non è tanto una questione di rifiuti in quanto oggetti, ma piuttosto di relazioni di scarto. Il mio tentativo, insomma, era evitare la reificazione della questione ecologica – sia essa il rifiuto, le emissione di CO2 o la contaminazione – e ragionare invece delle relazioni socio-ecologiche che producono comunità di scarto. Il Wasteocene, poi, è ovviamente una narrativa contro-egemonica che si pone in polemica con il discorso contemporaneo dell’Antropocene. Come spiego nel libro, non mi convince l’universalismo di specie dell’Antropocene che sembra considerare tutti gli umani responsabili della crisi ecologica, come se le diseguaglianze e le storie di colonialismo e espropriazione non fossero mai esistite. Nondimeno, capisco molto bene la sua domanda sulla potenza trasformatrice delle parole. Negli ultimi tempi anche a me è sembrato che spesso tutto si sia ridotto ad un mero esercizio retorico; ci siamo accontentati spesso di rivoluzioni grammaticali. Ora mi lasci dire che come studioso di humanities credo fermamente nel potere performativo delle parole e delle narrazioni; è facile per chi è dentro le norme maggioritarie ironizzare sulla richiesta di un linguaggio più inclusivo. Iniziare a riconoscere che il mondo è pensato e raccontato al maschile – almeno in molte lingue – può essere uno strumento utile per cambiare molto di più che solo il nostro modo di parlare. Nel libro sono chiaro: la questione non è screditare chiunque adoperi l’etichetta Antropocene. Cito, ad esempio, un bellissimo saggio di Laura Pulido nel quale la studiosa adopera il lemma Antropocene e ne svela il contenuto razzista. Insomma, le parole da sole non ci liberano ma certo possono aiutarci a liberarci, a svelare l’ingiustizia, oppure a tenerci schiavi, magari inconsapevoli.


Racism and the Anthropocene di Laura Pulido

Ma a pensarci bene, se davvero volessimo cambiare prospettiva, non dovremmo dare nessun nome alla nuova epoca. Dovremmo smettere come umani di essere e crederci al centro del mondo, ritrovarci più umili e magari permettere ad un altra specie di nominare l’epoca che verrà.   

Cerco sempre di avere uno sguardo al futuro e, soprattutto in concomitanza con il COP26 a Glasgow, mi stavo chiedendo quale sarà invece la prossima era e come si chiamerà secondo lei, nel momento in cui il rifiuto (inteso anche come wasting relationships, quindi come relazioni in cui il consumo e l’interesse personale sono al centro delle interazioni umane) non sarà più così determinante?

È triste ma quando chiedo alle mie studentesse e ai miei studenti di immaginare il futuro, quasi sempre pensano ad una qualche apocalisse. È la distopia la cifra dominante del loro immaginario. Con il mio laboratorio a Stoccolma stiamo disegnando un Atlante degli altri mondi raccogliendo brevi storie di climate fiction e praticamente è solo la mia ad essere piuttosto ottimista.  Un mio studente di Roma ha proposto come nome per la nuova epoca che verrà il Rifugiatocene, immaginando che sarà una tragica stratigrafia di cadaveri il segno distintivo della nostra epoca nel Mediterraneo. Insomma, i nuovi nomi sono piuttosto in linea con il Wasteocene. Se invece dovessi provare ad immaginare un futuro diverso, positivo, forse mi piacerebbe chiamare la nuova epoca il Commonsocene, l’età delle relazioni di solidarietà, cura e condivisione. Ma a pensarci bene, se davvero volessimo cambiare prospettiva, non dovremmo dare nessun nome alla nuova epoca. Dovremmo smettere come umani di essere e crederci al centro del mondo, ritrovarci più umili e magari permettere ad un altra specie di nominare l’epoca che verrà.


Wasteocene, Rifugiatocene, Commonsocene: come si chiamerà l'era che verrà?

Nell’ultimo capitolo del libro lei cita la famosa frase di Margaret Thatcher: «Non esiste una cosa come la società: esistono singoli uomini e singole donne, ed esistono le loro famiglie». Ecco, lei pensa che il concetto di comunità, o il commoning come dice lei nel suo libro, possano contrapporsi con forza al presente? E può invece la mutualità (intesa come aiuto scambievole basato sulla volontarietà e sull’assenza di fine di lucro) affiancarvisi?

Penso che il commoning, inteso come infrastruttura socio-ecologica che (re)produce commons, sia il vero antidoto alle wasting relationships. Se queste ultime producono profitto per pochi attraverso l’alterizzazione e l’estrazione di valore, il commoning riproduce comunità attraverso la cura e la condivisione. Il commoning è qualcosa di più dei beni comuni, perché è l’insieme delle relazioni che permettono ai commons di esistere. Fare commoning è diverso da trasformare tutto in valore. Ad esempio, aree in rovina e persino i rifiuti possono essere messi a valore ma questo non trasforma le relazioni di scarto del Wasteocene. Occorre inventare altre relazioni e non semplicemente estrarre valore da ciò che prima si riteneva solo scarto. Il commoning produce comunità laddove c’erano discariche socio-ecologiche. Il commoning è anche mutualismo – nel libro racconto delle brigate della solidarietà nate durante la pandemia – ma non è solo questo. Commoning è una pratica performativa che non rimanda ad un futuro a venire la realizzazione del mondo che vogliamo, ma inizia a sperimentarla qui, tra mille limiti e contraddizioni. Le alternative non sono solo possibili, ma ci sono già. Non ci resta che raccontarle.


Cos'è il commoning?

Marco Armiero

L'era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale


Passaggi, pp. 136