Quando lessi per la prima volta Anita Desai (erano i primi anni ’80, e il libro era un suo vecchio romanzo tuttora non tradotto in italiano, Bye Bye Blackbird), fui colpita dalla lingua, un inglese molto musicale, con una strana, severa dolcezza; e dalle immagini, una messa a fuoco così nitida che non lasciava nulla all’immaginazione, semplicemente ad essa s’imponeva. Più tardi lessi Fire on the Mountain (Fuoco sulla montagna), e quelle sensazioni si acuirono. Leggevo e, senza sforzo, vedevo luoghi che non conoscevo ancora e udivo suoni e rumori di fondo insoliti. Allora non leggevo con l’orecchio assurdamente teso della traduttrice (il bizzarro mestiere si è impadronito di me alcuni anni più tardi), né dovevo scrivere una recensione. Leggevo con la gratuita passione con cui si legge solo per sé. Così mi godevo il tintinnio cristallino:
Riconoscevo anch’io un cuculo solitario e puntuale della mia infanzia. E vedevo il luogo sulle pendici dell’Himalaya, il giardino, la casa in cui Nanda Kaul, l’ormai anziana protagonista, ha deciso di ritirarsi:
Quando in seguito lessi Clear Light of Day (Chiara luce del giorno), le cose presero dentro di me un’altra piega. Innanzitutto perché ero in India e avevo cominciato a conoscere i paesaggi, o almeno alcuni degli innumerevoli paesaggi del subcontinente; mi muovevo tra le vocali delle lingue indiane e riconoscevo i volti che avevo visto nei film di Satyajit Ray; i suoni cominciavano a suonarmi famigliari, i rumori rumoreggiavano vicini:
E le immagini macro di Anita Desai erano lì, reali:
Finalmente riconoscevo le ragioni della musica che fin dalla prima lettura dei suoi libri mi aveva colpita. Quell’inglese perfetto, quel ritmo… woolfiano, avevo pensato per un po’, ma camminando nella vecchia Delhi – nel labirinto di vicoli dove vive il grande poeta urdu protagonista di On Custody (In custodia) lungo le rive della Yamuna e in Civil Lines, sotto gli alberi frondosi che tuttora riparano e in parte nascondono le vecchie dimore che lei descrive e racconta – capivo che era una scorciatoia troppo facile, comoda, probabilmente sbagliata. Desai riconosce un debito nei confronti dell’autrice di Una stanza tutta per sé, condivide il suo ostinarsi sulla lingua per distillarne, nell’economicità, un’esattezza assoluta, ma la sua scrittura ha una classicità che viene da più lontano, è il legato della sua profonda conoscenza della poesia urdu e della poesia romantica inglese, ed è la somma dei suoni di molte lingue.
Il titolo che le cade in testa, d’altronde, è di per sé trama e ordito: Baum – albero, Garten – giardino. Il luogo in cui si svolge il romanzo e si compie il destino del protagonista è la Bombay di colui che, in quanto «giardino d’alberi», porta nel nome il simbolo stesso della propria origine, il bosco tedesco, e che, in quanto ebreo, quel bosco ha dovuto lasciare, come si vedrà, per sempre.
Muovendosi tra India, Inghilterra, Stati Uniti e Messico, Anita Desai non ha mai interrotto questa tessitura di parole portatrici di immagini… Meine Kleine Maus, mein Häschen, Liebchen… kem cho, sahib… der Jude… firanghi… pa-pa-ga-yò, pa-pa-gà-yo… baba-ji… los muertitos… los angelitos… E ha ribadito in mille occasioni il ruolo vitale della lingua, il reciproco nutrirsi e nutrirci delle lingue. Hugo Baumgartner, intorno al quale le lingue hanno germogliato per decenni («e lui coglieva vocaboli senza sapere se fossero inglesi, hindi o bengali, erano semplicemente parole che gli occorrevano»), comincia a perdere la vita quando comincia a perdere le parole:
È un’esplicita dichiarazione di poetica, quella che la scrittrice fa attraverso un personaggio cui la accomunano le radici materne e l’appartenenza a un universo linguistico plurale. Del resto, per poter descrivere un paese con tutte le sue immagini, i suoi paesaggi, i suoi specifici silenzi ed echi, ci dice ancora Desai, «una lingua deve raggiungere la trasparenza del vetro»9. Restando a questa metafora, vale la pena di osservare che la trasparenza del vetro è frutto della sua duttilità, del suo sapersi piegare, connettere in miscele ardenti, come accade appunto alle lingue che si riforgiano a contatto con altre lingue, altri suoni. Se la lingua si irrigidisce, precipita in una cieca sordità che è tutt’altra cosa dal generoso frantumarsi prismatico del vetro.
Ho sempre pensato che nella poesia, ma anche nei romanzi e nei racconti, si debba entrare scalzi, per leggerli davvero, per non fare troppo rumore, ma in quelli di Anita Desai credo si debba entrare proprio a piedi nudi, per non alterare una sintassi e una grammatica che sono pura musica. Della quale si arriva poco a poco a riconoscere i diversi elementi. La mite sonorità di una lingua che osserva, descrive e racconta, di e da luoghi diversi, tra est e ovest. La lingua come un sole, e una luna, illuminante e illuminata.
In India arrivai a comprendere appieno il senso di un’affermazione di Desai in una vecchia intervista, che avevo trascritto al fondo di un suo libro: «Scrivere è uno sforzo di scoprire, e poi di sottolineare e infine di comunicare il significato intrinseco delle cose».
La scrittura diventa così uno strumento per tenere insieme la realtà, per connettere le persone alle cose e al paesaggio, il passato al presente. «La pagina è un momento per rileggere il passato, per tornare in un luogo», precisava la scrittrice qualche mese fa, conversando sulle rive dell’Arno, a Pisa. Ascoltandola pensavo che la fluida pacatezza della sua voce è la stessa dei fiumi – non era la prima volta che camminavamo insieme su un argine – e mi è sembrato finalmente di scoprire l’origine di quel senso di continuità che la sua opera comunica, sebbene le storie siano molto diverse, diversi i contesti, i luoghi, i protagonisti e le comparse. Ho pensato che, sì, è una continuità della voce che afferra un’immagine e la sviluppa. Dandole una misura compositiva sonora.
Fu questa la seconda ragione per cui, dopo la lettura di A Clear Light of Day, le cose presero dentro di me un’altra piega. Pensai infatti che mi sarebbe piaciuto tradurre quel libro straordinario, mi sarebbe piaciuto riscrivere nella mia lingua quegli squarci in un orizzonte temporale dilatato dall’acribia di una cocciuta memoria femminile. Il bizzarro mestiere si stava impadronendo di me… Sarebbero passati alcuni anni prima che tale progetto editoriale diventasse realtà, ma nel frattempo custodivo e scomponevo lo spartito verbale che mi aveva così colpita. C’erano rumori e suoni e trilli, molteplici sfumature di voce e vocii sommessi, l’abbaiare lontano di un cane che riporta a un abbaiare dimenticato. Non a caso Desai mette in epigrafe al romanzo due versi di Emily Dickinson: « La memoria è una strana campana / Giubilo e rintocco funebre». C’era la poesia, urdu e inglese, c’erano i protagonisti, c’erano le case. «Ecco, ora svaniscono, / i volti e i luoghi, con quella parte di noi che li amava, come poteva. / Per rinnovarsi, trasfigurati, in un’altra trama». È la seconda citazione, questa da T.S. Eliot, che Desai pone in epigrafe.
Tra quella strana campana che è la memoria e un’altra possibile trama sta un lungo adagio, prima sostenuto poi appassionato, fino al crescendo finale che risuona dalla pagina. Chiusa narrativa in cui la musica diventa letteralmente ciò che è per Desai: «uno strumento di conciliazione, di riscatto, di riconoscimento». Cito ancora una volta l’originale perché se ne possano cogliere le note, di cui la traduzione cerca di restituire il ritmo.
Acknowledgment, riconoscimento. Direi che questa è la parola chiave per leggere – e per tradurre – l’universo narrativo di Anita Desai. E il passaggio obbligato sono le case, luoghi di memoria per antonomasia, a qualunque latitudine o longitudine si trovino. Vecchie dimore segnate dal tempo, giardini silenziosi e arruffati, baracche miserabili, modeste case a schiera in insediamenti urbani ancora privi di storia, le case offrono l’incipit a tutti i romanzi e i racconti di Anita Desai, con rare eccezioni. Dimore dove si è molto vissuto, dove talora non si riesce più a vivere per il peso eccessivamente doloroso dei ricordi, o dove si riprende a vivere perché un’immagine fulminea ricompone un tessuto lacerato da tragici conflitti collettivi e/o da contrasti, incomprensioni, silenzi privati.
Se ogni incipit è per sua natura una soglia, nell’opera di Desai esso è piuttosto un sipario che si apre lentamente, ammettendoci a quello che appare come un palcoscenico. Dove i personaggi – e le figure evocate – passano dall’immobilità al movimento, dal silenzio al discorso, o al balbettìo, secondo una logica rigorosamente teatrale. Con un’organizzazione drammaturgica che si discosta dalle tre unità classiche solo in quanto il lavorìo della memoria azzera il tempo lineare, in un incessante va e vieni tra passato e presente, o duplici presenti che si snodano a distanza ma lì si connettono, ed è un interrogarsi continuo, indagando sulle ragioni dei propri gesti e sui propri sentimenti.
Ogni libro appare come un tassello nell’insieme di un’opera che è connotata da uno sforzo meticoloso e lucido di ricomposizione e riconoscimento. Se dalle fronde degli alberi possono cadere titoli, dal cielo buio può cadere il significato di un verso – non un verso, mi preme sottolinearlo, bensì il significato di un verso, e l’interpretazione è sempre inevitabilmente soggettiva. È ciò che accade alla maggiore delle due sorelle protagoniste di Chiara luce del giorno, quando, sollecitata dalla musica, a un tratto ricorda un verso: «Il tempo che distrugge è il tempo che conserva». Nel rammentare il verso, Bim rivede con l’occhio della mente la copia sdrucita dei Quartetti di T.S. Eliot che l’amatissimo fratello Raja teneva sempre con sé, e intuisce il senso profondo del proprio attaccamento alla casa in cui è rimasta a vivere: «Quel terreno conteneva passato e futuro, conteneva tutto il tempo. Era scuro di tempo, ricco di tempo»11.
Un terreno scuro e ricco di passato, reso fertile dai ricordi e dissodato dalla memoria. Quella che Desai mette in campo non è mai una memoria univoca, bensì il prodotto di un confronto serrato dei personaggi, con se stessi e tra loro. Una memoria che non si sottrae alle contraddizioni, alla tentazione di dimenticare, alle lusinghe della revisione e dell’oblio. Al contrario, si mette alla prova, sfida la molteplicità e la soggettività dei ricordi, mira a riconoscere ciò che è stato dilaniato dalla storia e fratturato dalle scelte individuali, così ricomponendo un quadro che altrimenti andrebbe perduto. Un terreno scuro e ricco dunque anche di futuro. Che nei romanzi e nei racconti recenti di Desai si proietta oltremare e riesce ad avvolgere in un abbraccio rassicurante ciò che appare lontanissimo, altro, perfino alieno. Creando un terreno di continuità che mi sentirei di definire un passaggio a ovest che non pregiudica il ritorno a est. Nella distanza, nella separazione – anche in quella ultima, tra i vivi e i morti, «quelli che ci camminano sempre accanto», coprotagonisti del suo romanzo The zigzag way (Un percorso a zigzag) – Desai stabilisce legami inequivocabili, una connessione duratura nel tempo di ciò che nello spazio è stato diviso. Ricomponendo universi umani affettuosi là dove tutto farebbe pensare a un’insuperabile incomunicabilità, Desai si sottrae a una lettura in chiave strettamente postcoloniale suggerendo «che la dedizione alla letteratura sia, in definitiva, seppure paradossalmente, una forza anticoloniale di straordinaria potenza»12.
Da questo punto di vista vale la pena di rileggere Fasting and Feasting (Digiunare, divorare), un romanzo nel quale parte della critica ha ravvisato un certo schematismo.
L’incipit, di nuovo una casa:
Di nuovo un palcoscenico. Un’immobilità contagiosa e irritante alterata solo – di tanto in tanto – dall’entrata in scena della figlia Uma, una donna non più giovane che ha vissuto e subìto le scelte dei genitori, le imposizioni di casta e le umiliazioni di genere, e tuttavia ha mantenuto una sua strana, muta indipendenza. A lei, alla sua ingrigita solitudine, la narrazione affida il complesso ruolo della mediazione affettiva, della tessitura dei ricordi, del riconoscimento.
A Uma, fin dalle prime pagine del romanzo, viene dato il compito di preparare un pacco per il fratello Arun, che studia negli Stati Uniti.
Per quel lontano paese che Uma stenta a immaginare, Desai allestisce un secondo palcoscenico, e secondo incipit del romanzo, nel quale il giovane Arun si muove con guardinga circospezione:
In questo sconosciuto quartiere residenziale occidentale, Arun avanza «con il mento basso» e «il nervosismo di chi si avventura da solo oltre un confine». Nessun rumore, nella geometria di giardini dal disegno perfetto, costellati di oggetti ma così deserti che «sembra esserci più vita nelle stanze buie dove la luce incerta del televisore manda improvvisi bagliori». Al silenzio abitato delle case del subcontinente a cui Desai ci ha abituato – e con cui Arun ha famigliarità – si sostituisce qui un silenzio vuoto, una preoccupante assenza di voci, e su tutto aleggia l’odore acre della carne che arrostisce sulla brace dei barbecue.
Arun si guarda intorno in cerca di impronte, tracce, esploratore in un mondo che infine gli si spalanca davanti con le sue cucine supertecnologiche, i frigoriferi stracolmi, le dispense dove si accumulano quantità altrove impensabili di cibi in scatola per esseri umani e animali. Un universo carnivoro e bulimico che si rivela inquietante non luogo dei sentimenti.
Sarebbe facile, e questo sì schematico, leggere il romanzo solo in termini di contrapposizione tra il paesaggio sfilacciato e dolente dell’India e l’opulenza plastificata degli Stati Uniti. Desai al contrario coglie le debolezze e i pericoli di entrambi i paesi, individua le diverse forme di ribellione e sceglie di ricomporre il cerchio degli affetti spostandone l’asse, in un doppio movimento narrativo che rinsalda il legame di Arun con il paese da cui viene, ma soprattutto lo emancipa, mettendolo soggettivamente in relazione con due diverse realtà, dandogli la consapevolezza di appartenere a entrambe e di essere, proprio per questo, altro ancora. Ennesimo personaggio in cerca di sé, e di una non precostituita appartenenza, nell’opera di Desai.
Nel simbolico pacco che ha scavalcato due oceani e tre continenti, tenuto insieme da metri di spago e numerosi strati di carta, Desai ha scelto di mettere due cose, una grossa confezione di tè e uno scialle di lana marrone.
Punto che, significativamente, Arun trova nel donare il contenuto del pacco alla madre bionda e fino a qualche tempo prima insopportabilmente ciarliera della famiglia americana di cui è stato ospite durante l’estate. Non può esserci altro punto di equilibrio per un dono sbilanciato se non il dono del dono stesso.
Lei lo guarda, dapprima senza capire, poi si lascia sopraffare dal calore, dall’odore di un’altra casa. E da una specie di gratitudine su cui la scrittrice tuttavia non si sofferma. Sarebbe un’altra storia.
Con ciò Arun non abbandona il campo che ha contribuito a sgombrare di molti equivoci, torna semplicemente al college dove sta per iniziare il nuovo anno accademico. Il romanzo di formazione è concluso. L’adolescente indiano che rimuginava assorto sui presagi e i segnali di un universo alieno si defila lasciando spazio a un’eventuale nuova narrazione. Adulto alleggerito, non spogliato di sé. Potenziale cittadino di uno spazio più vasto, al quale la memoria degli oggetti non fa ombra.
Passaggi non indolori, sarebbe impossibile, ma praticabili, tra oriente e occidente. Andate e ritorni: per poter vivere, per cercare un senso, per dare nomi alle cose, per fare conoscenza. Proprio il desiderio di rivedere il figlio-nipote e conoscere la sua piccola, nuova famiglia spinge a partire le due anziane protagoniste di uno dei più bei racconti della produzione recente di Anita Desai. Racconto di un viaggio di andata e ritorno, in un lungo, «niveo» flashback.
Due figure evanescenti fotografate a loro insaputa mentre scrutano un paesaggio che le ammutolisce, «una piccola scena immobile, completa e fragile». Traccia di un passaggio in Canada e riconoscimento di un legame la cui durata si allunga nello spazio. Nel candore di questa inquadratura, nel rigore di questo vero e proprio close-up, affiora il «terreno scuro e ricco di passato» e si pongono le premesse di un’altra storia. Che appare imminente, già in qualche modo nell’aria. Non una proiezione di desiderio, ma un occhio che concretamente si posa su un’immagine, la cattura e la disloca là dove è possibile toccarla con un dito, darle un nome e raggiungerla.
Argine memorioso, quello che Anita Desai consapevolmente costruisce, parola su parola, strati leggeri di silenzio per compattarle, punteggiatura rarefatta, nessuna enfasi, nessun grido.
Prima apparizione in Anna Nadotti (a cura di), Dedica ad Anita Desai, Pordenone Dedica 2006.
Anita Desai è nata a Mussoorie in India nel 1937 da madre tedesca e padre bengalese. È cresciuta e ha studiato a Delhi. Vive tra l’India, gli Stati Uniti e il Messico ed è la piú importante scrittrice indiana. Nel 2005 ha ricevuto il Premio Internazionale Grinzane Cavour. Della sua opera Einaudi ha pubblicato: In custodia, Chiara luce del giorno, Digiunare, divorare (tutti e tre finalisti al Booker Prize), Notte e nebbia a Bombay, Fuoco sulla montagna, Il villaggio sul mare, Viaggio a Itaca, Polvere di Diamante e altri racconti, Un percorso a zigzag, L’artista della sparizione e la raccolta Tutti i racconti.
Anna Nadotti è traduttrice dall’inglese e critica letteraria. Collabora con numerose testate e con la Scuola Holden. Fra gli autori da lei tradotti A. S. Byatt, Amitav Ghosh, Anita Desai, Rachel Cusk, Hisham Matar, Tash Haw, Maaza Mengiste e Virginia Woolf.
I libri sono tavole apparecchiate per molti commensali. Tradurre e ritradurre, il sedimentarsi della memoria e la scelta delle parole, la minaccia e la seduzione delle icone: uno sguardo sul «campo lontano». Un dialogo tra Anna Nadotti e Chiara Valerio.
Tradurre Il ritorno di Hisham Matar ha significato per Anna Nadotti prestare l’orecchio, prima ancora che le parole, alle voci che intrecciano il racconto di una famiglia e di una nazione.