Narrativa straniera e Frontiere

Il ritorno

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Livia Manera Sambuy 21 Marzo 2017 7 min

Come si sopravvive a una scomparsa così crudele da non concedere nessuna certezza? Ne Il ritorno Hisham Matar ci ricorda che, al suo meglio, l’arte di raccontare non è solo fonte d’incanto: è anche uno dei luoghi più sicuri in cui trovare consolazione.

Marzo 2012, aeroporto del Cairo, mattina presto. Hisham Matar aspetta con la madre e la moglie Diana di imbarcarsi sul volo per Bengasi. «Mia madre mi gettava di tanto in tanto un’occhiata ansiosa», scrive l’autore anglo-libico ne Il ritorno, il suo nuovo libro accolto in Gran Bretagna come una delle opere più importanti dell’anno. «Anche Diana sembrava preoccupata. Mi toccava il braccio e sorrideva. Dovrei alzarmi e fare un giro, mi dicevo. Ma il corpo rimaneva rigido. Non mi sono mai sentito più capace d’immobilità in tutta la mia vita».

Quella primavera Hisham Matar, il quarantaseienne autore di due romanzi banditi in Libia — Anatomia di una scomparsa e Nessuno al mondo (Einaudi) — stava tornando a casa dopo 33 anni di esilio. La sua famiglia aveva lasciato Tripoli nel 1979 e Hisham, che da allora ha vissuto a Nairobi, al Cairo, a Roma, a Londra e a Parigi, aveva imparato a dire di essere «di New York»: un po’ per non parlare della Libia, un po’ perché è là che è nato, quando suo padre era l’ambasciatore libico alle Nazioni Unite.

Suo padre: stiamo parlando del grande protagonista assente di questo memoir che Einaudi pubblicherà nei prossimi mesi [esce il 21 marzo 2017 NdR], e cioè di Jaballa Matar, non solo figlio di un eroe della Resistenza all’occupazione italiana, ma anche uomo influente e carismatico che ha prestato servizio sotto il re Idris, e quando nel 1969 ha appreso del colpo di Stato di Gheddafi è rientrato da Londra sperando in un futuro migliore per il Paese, ed è stato invece gettato in carcere per sei mesi. Poi, con una delle sue mosse capricciose, il dittatore aveva offerto a Jaballa Matar la libertà e il posto di diplomatico a New York, per lusingarlo e toglierselo di torno. Ma i buoni rapporti erano durati poco. Deluso da Gheddafi e orripilato dai metodi della sua dittatura, quest’uomo che era un poeta, un ufficiale, un diplomatico e un ricco uomo d’affari, si era messo a capo dell’opposizione.

Un memoir eccezionale che è anche una detective story e una riflessione sull’assenza

Negli anni Ottanta Jaballa Matar ha finanziato con 15 milioni di dollari un movimento di opposizione a Gheddafi e campi di addestramento in Ciad, per gli uomini che avrebbero dovuto liberare la Libia. Ma, scrive il figlio Hisham in questo memoir eccezionale che è anche una detective story e una riflessione sull’assenza, sull’esilio e sulla perdita, nel 1990 Jaballa Matar scomparve. Fu rapito al Cairo dai servizi segreti egiziani e consegnato ai libici. Nei sei anni successivi la famiglia ebbe da lui solo tre lettere, trafugate dal carcere libico di Abu Salim. In una scriveva: «A volte passa un intero anno senza che veda il sole o senza che mi facciano uscire da questa cella». Poi, a partire dal 1996, il silenzio.

Come si sopravvive a una scomparsa così crudele, che non concede alcuna certezza sulla vita o la morte della persona amata, nessuna data o luogo a cui fare riferimento? «Quando Gheddafi ha preso mio padre», scrive Matar che all’epoca aveva venticinque anni e il padre cinquantasette, «mi ha confinato a un luogo non molto più grande della sua cella. Per anni ho camminato avanti e indietro, rabbia in una direzione, odio nell’altra». Poi la rabbia si è trasformata in disperazione — lo scrittore confessa di aver contemplato il suicidio nel 2002, sul Pont d’Arcole a Parigi — e infine ha trovato sfogo in un attivismo ossessivo. Ha smosso il mondo, in questi anni, Hisham Matar. Non solo le associazioni umanitarie. È arrivato fino al ministro degli Esteri inglese David Miliband e alla Camera dei Lord. Ha avuto il pubblico sostegno del cardinale Desmond Tutu e il rifiuto di immischiarsi di Nelson Mandela. Ha collaborato con i giornalisti inviati in Libia; ha pubblicato pagine sul «Guardian» e sul «New Yorker»; e nel frattempo si è speso per liberare gli zii e i cugini imprigionati per 21 anni ad Abu Salim, e scampati per miracolo al massacro che vi ebbe luogo nel giugno del 1996, quando 1.270 prigionieri furono trucidati in poche ore. Ma sulla sorte di suo padre non ha scoperto nulla di certo.

C’è un momento, ne Il ritorno, in cui il lettore si chiede se sarà mai più possibile scrivere un altro libro dopo questo: tanto immensa è la tragedia personale e collettiva che lo ispira, tanto alta la qualità della scrittura che la interpreta. Ma ci sono anche pagine che sfiorano la gioia. Il ritorno a Bengasi che fa da cornice a questo racconto che oscilla tra passato e presente, tra dialogo e soliloqui, tra azioni urgenti e sentimenti contrastanti, è uno di questi momenti. Nella Libia del 2012 si è aperta «una finestra di speranza». E scendere dall’aereo significa per Matar «ritrovare profumi familiari, come una coperta di cui non sapevi di avere bisogno, ma che ti viene messa sulle spalle e di cui sei grato». Significa anche riabbracciare gli zii sopravvissuti alla prigionia e alle torture, e dormire nel letto di un cugino ucciso da un cecchino di Gheddafi.

Si prova vergogna a non sapere dove sia tuo padre, vergogna a non riuscire a smettere di cercarlo, e vergogna a desiderare di smettere di cercarlo

«Si prova vergogna a non sapere dove sia tuo padre, vergogna a non riuscire a smettere di cercarlo, e vergogna a desiderare di smettere di cercarlo», scrive Matar con la dolorosa sincerità che attraversa tutto questo libro. Ma alla fine, malgrado l’assenza di certezze, una data si impone sulle altre. 29 giugno 1996. Il giorno del massacro di Abu Salim. È allora, con ogni probabilità, che ha perso la vita Jaballa Matar. Un parente di Hisham sopravvissuto alla carneficina riferisce come si sono svolti i fatti. E la distanza tra l’abisso di orrore del suo racconto, e la scoperta di Hisham che quel giorno, mentre i soldati di Gheddafi stavano scavando fosse comuni ad Abu Salim, lui, ignaro, si trovava alla National Gallery di Londra a osservare da vicino L’esecuzione di Massimiliano di Manet, ci ricorda che, al suo meglio, l’arte di raccontare non è solo fonte d’incanto: è anche uno dei luoghi più sicuri in cui trovare consolazione.

Pubblicato sul Corriere della Sera. Ringraziamo il giornale e l’autrice.

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Livia Manera Sambuy è giornalista culturale che scrive di libri e scrittori dell’area anglo-americana sulle pagine letterarie del Corriere della Sera, autrice di due documentari su Philip Roth, e del libro Non scrivere di me (Feltrinelli, 2015).

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