Jaballa Matar, militare, diplomatico, uomo d’affari e amante della poesia, è stato uno dei principali oppositori alla dittatura di Gheddafi. Esule al Cairo con la moglie e i due figli, nel marzo 1990 viene rapito dai servizi segreti egiziani e riconsegnato alla Libia, che lo rinchiude nel famigerato carcere di Abu Salim.
La prosa, nitida, quieta e insieme inesorabile, descrive con precisione i paesaggi emotivi sfumati e contraddittori delle esperienze estreme Le comunicazioni si fanno rade e incerte, fino a cessare del tutto. Il figlio minore Hisham, all’epoca dicianno-venne, ha tentato ogni strada per scoprire se fosse ancora vivo. Inglese d’adozione, romanziere affermato (Nessuno al mondo e Anatomia di una scomparsa, proprio sull’ossessione per un padre assente), dopo aver animato campagne d’opinione e appelli internazionali per suo padre e gli altri prigionieri scomparsi, quando il regime crolla, torna infine in patria, nell’estremo tentativo di scoprire la verità sulla sorte dell'”Assente-Presente”, come lo chiama la madre. Si sviluppa attorno a questo viaggio Il ritorno (Einaudi), un memoir di altissima qualità letteraria in cui le voci dei sopravvissuti alle torture nelle carceri s’intrecciano a scene di vita quotidiana, ricordi d’infanzia, epifanie artistiche e un affresco delle vicende della Libia contemporanea. «Mio padre è morto ed è anche vivo. Non possiedo una grammatica per lui». La prosa, nitida, quieta e insieme inesorabile, descrive con precisione i paesaggi emotivi sfumati e contraddittori delle esperienze estreme. Nella conversazione, Hisham Matar assomiglia alla sua scrittura. Risponde in modo meditato, pesa le parole, le misura, le precisa.
Quanto c’è voluto per scrivere Il ritorno?
Tre anni, dalla prima all’ultima frase, ma forse è servita tutta la vita. Ho cercato di essere il più paziente possibile con cose che mi rendevano molto impaziente, per poter applicare un’attiva, vigorosa curiosità a materiale che potrebbe sembrare soverchiante, per l’esperienza umana. Quando leggo un buon libro che parla di una tragedia, benché possa spezzarmi il cuore, alla fine provo una sorta di ottimismo riguardo all’esperienza umana: perché la letteratura mostra come la sensibilità di un essere umano possa catturare esperienze così schiaccianti, smisurate. È il registro che cercavo.
La scrittura, quindi, può essere una forma di riparazione?
Non userei questa parola: suggerisce che il libro abbia fatto qualcosa per me, mentre ho sempre posto la massima cura – tanto più con vicende così serie – per essere io a servizio del libro, anziché servirmene per qualsivoglia scopo, che fosse l’ambizione o la mia sensibilità. Vero è però che si può sentire ciò che definirei “il contrario dell’impotenza”, del sapere che non sei in grado di far nulla.
Dopo due romanzi, perché ha scelto la non fiction?
In realtà, la scelta è stata se scrivere o meno, più che il genere. Ogni libro comincia con un gesto, una frase, un’atmosfera, un personaggio, che ti spingono ad andare più a fondo. Qui non è stato diverso: pur ricostruendo fatti reali, dovevo scegliere come raccontarli, da dove partire, come procedere. Credo che ogni libro arrivi con un suo proprio carattere, compiuto. Il mio lavoro sta nell’usare la massima attenzione per coglierlo, mettendo me e i miei desideri da parte. Quando scrivo, voglio essere posseduto dal libro, “esserne scritto”. Quando finisci è un misto di euforia e panico, come essere gettato in strada, senza più scopo (ride). È il paradosso dello scrivere: da una parte sei solo, si investe molto l’ego, dall’altra è un esercizio di umiltà, devi arrenderti al libro.
La sua esperienza particolare si eleva a livello universale, si specchia in Telemaco, nell’Edgar di Re Lear. L’orizzonte della letteratura ha un ruolo importante.
Sono nato in una famiglia e in un tempo molto “politici”. Cose delicate che richiedono tempo e pazienza, come la letteratura o la pittura non avevano molto spazio. Il libro è uno “spazio democratico” dove tutto può coesistere allo stesso livello, i grandi eventi, come descrivi un’opera d’arte, i fatti interiori. Spesso s’invita la gente a leggere dicendo «conoscerai il mondo, cose e persone diverse». Vero. Ma per me il momento più magico non è l’incontro con il nuovo, ma quando mi imbatto in me stesso nelle vite degli altri. Posso riconoscermi in Kafka, Shakespeare, Dante. È un momento in cui si sente profondamente l’essere umani, una genuina espansione sia intellettuale che emotiva.
Cercando suo padre, si imbatte in “coincidenze significative” che mozzano il fiato: per esempio scoprire di essersi imbattuto ne
L’esecuzione di Massimiliano di Manet alla National Gallery proprio nel giorno fatale in cui 1270 oppositori del regime – tra cui forse suo padre – furono assassinati. Una parte di me è sempre stata diffidente, ma circostanze come questa mi hanno davvero sbalordito. Ho esitato a scriverne, tanto pareva incredibile. Poi ho scelto di non nascondere nemmeno questo: scrivere dell’esperienza di imbattersi in quel genere di coincidenza.
Per anni ha animato campagne internazionali per suo padre. Scrive di essere un altro, rispetto ad allora.
Ovviamente non rimpiango di aver tentato tutto il possibile. Ma ero finito in un buco nero e vuoto di pura ossessione, uno spazio tossico. In passato ho provato anche senso di colpa: sono come redini che ti trattengono, limitano lo spazio delle possibilità che ti concedi di vivere, la tua disponibilità nei confronti del mondo come dello scrivere.
Suo cugino Izzo e altri uomini della famiglia hanno preso le armi: ha mai pensato di seguirli?
Durante la rivoluzione ho pensato seriamente di deporre la penna per impugnare un’arma. Ma alla fine, ho rinnovato i miei “voti” alla scrittura: ho pensato che così potevo essere più utile. Ma nel pensare alla penna come a un’arma avevo in bocca un amaro sapore d’infedeltà: donarsi alla letteratura comporta lasciare alla porta la politica e le “cause”, anche le più nobili. Allora mi sono diviso tra il cittadino che scrive articoli e lo scrittore.
Il ritorno è anche un grande libro sul potere. Lei narra l’incontro con il figlio di Gheddafi. Mette a nudo la collusione dei governanti occidentali, Tony Blair in testa, con la feroce dittatura libica.
Queste persone agiscono nel segno di una certezza brutale, un’assenza di dubbi che trovo inquietante. Si spacciano molte bugie sulla virilità: l’idea che essere uomini, forti, significhi non avere incertezze. C’è tanta più energia e vigore nella capacità di dubitare. Sulla Libia, purtroppo pesa la maledizione del petrolio, che determina relazioni parassitarie con i paesi vicini e le grandi potenze.
Scrive in inglese, ma la sua lingua madre è l’arabo.
Con l’arabo ho una relazione educata ma un po’ formale, come con una zia con cui non sei mai del tutto a tuo agio (ride). Da giovane ho avuto la fortuna di incontrare il romanziere egiziano Nagib Mahfuz che mi disse «scrivendo in inglese, scriverai in quel fiume», e… non mi piacque! Ma aveva ragione. Con l’età ho fatto pace con questi dilemmi. E con l’inglese ho una relazione appassionata.
Pubblicato in origine su Repubblica. Ringraziamo l’autrice e il giornale.
Benedetta Tobagi, nata a Milano nel 1977, è storica e scrittice. Per Einaudi ha pubblicato Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre e Una stella incoronata di buio.
Tradurre Il ritorno di Hisham Matar ha significato per Anna Nadotti prestare l’orecchio, prima ancora che le parole, alle voci che intrecciano il racconto di una famiglia e di una nazione.
Come si sopravvive a una scomparsa così crudele da non concedere nessuna certezza? Ne Il ritorno Hisham Matar ci ricorda che, al suo meglio, l’arte di raccontare non è solo fonte d’incanto: è anche uno dei luoghi più sicuri in cui trovare consolazione.