Narrativa straniera e Frontiere

Sui sentieri di Lonesome Dove

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Tommaso Pincio 29 Dicembre 2017 13 min

Il 1985 è stato un anno fondamentale per la letteratura americana: tra gli altri, uscirono a distanza di poche settimane anche due tra i più importanti romanzi western mai scritti, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy e Lonesome Dove di Larry McMurtry.

Il 1985 fu un anno miliare per l’America delle lettere. Fu difatti in quell’anno che Breat Easton Ellis debuttò con Meno di zero. E fu ancora in quell’anno che Don DeLillo raggiunse la maturità con Rumore Bianco. E fu sempre in quell’anno che videro le stampe libri significativi rimasti a lungo inediti: Queer di William Burroughs, una sorta di seguito della Scimmia sulla schienaLa strada per Los Angeles, primo romanzo di John Fante nonché primo capitolo della saga di Arturo Bandini; un paio dei tanti romanzi «seri» che Philip K. Dick si era visto rifiutare dagli editori negli anni Cinquanta. Per un interessante scherzo del destino, nel 1985, a distanza di poche settimane uscirono anche due tra i più importanti romanzi western mai scritti, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy e Lonesome Dove di Larry McMurtry. La rarità della coincidenza appare ancor più eccezionale se si considera che, malgrado la grande popolarità goduta per quarti del Novecento dal western, le opere davvero importanti erano transitate sul grande schermo, non nelle librerie. In ambito letterario, il genere era rimasto perlopiù confinato alle edicole, senza mai affrancarsi dagli stereotipi confezionati per il grande pubblico nella seconda metà dell’Ottocento, quando le storie più o meno autentiche del selvaggio West vennero trasformate, quasi sul nascere, in leggenda.

Non aveva tutti i torti Jorge Luis Borges nel sentenziare che il western era un genere tardivo e secondario rispetto alla poesia guachesca. A parte fenomeni pittoreschi come Louis L’Amour, quali titoli avrebbero meritato davvero una qualche memoria? Molto pochi. Il romanzo di esordio di Doctorow. Il grande cielo di Guthrie, che per Hemingway costituiva una vetta non superabile. Il Grinta di Charles Portis, addattato due volte per il cinema, prima nel 1969 con John Wayne e in seguito dai fratelli Coen. Le vicende della banda Dalton e dell’assassinio di Jesse James rivisitate in due diversi romanzi da Ron Hansen. E poi Il piccolo grande uomo di Thomas Berger, ovviamente. Poca roba, ma soprattutto roba tardiva, proprio come diceva Borges, perché quei libri risalivano tutti agli anni Sessanta e Settanta ovvero a un periodo in cui i vecchi miti del West, per molti aspetti incompatibili con la controcultura di allora, avevano imboccato il viale del tramonto e potevano riacquistare vigore solo se ridiscussi, se trasformati in un nuovo genere, il western revisionista o anti-western.

La tipica formazione di una squadra di commercianti di bestiame. Questa foto risale al 1904 ma mantiene molte delle caratteristiche della banda di Gus e Call

La tipica formazione di una squadra di commercianti di bestiame. Questa foto risale al 1904 ma mantiene molte delle caratteristiche della banda di Gus e Call

La grande letteratura non precorre affatto i tempi, bensì gli corre dietro e spesso si getta al loro inseguimento quando di essi non resta più nulla Del resto, il romanzo che nel 1958 aveva anticipato questa nuova tendenza, Warlock di Oakley Hall, potrebbe essere considerato un antesignano del postmoderno. Raccontava una storia vera, quella della sparatoria all’Ok Corral, ma intrecciandola così strettamente con la leggenda che la finzione risultava più vera del vero, salvo poi scoprire che perfino il teatro immaginario degli eventi narrati era una città fantasma. Quel romanzo confermava, insomma, che la grande letteratura non precorre affatto i tempi, bensì gli corre dietro e spesso si getta al loro inseguimento quando di essi non resta più nulla, se non appunto il fantasma.

Se il western è un genere tardivo non è però per un altro motivo: perché in esso la malinconia del tramonto e il rosso del sangue sparso con violenza sono un tutt’uno. Non a caso il sottotitolo di Meridiano di sangue è «Rosso di sera nel West». Parole molto in sintonia con quelle che fanno da epigrafe a Lonesome Dove: «Tutta l’America si trova in fondo a una strada selvaggia, e il nostro passato non è morto ma vive ancora in noi. I nostri avi avevano la civiltà dentro; fuori, la natura selvaggia. Noi viviamo nella civiltà che loro hanno creato, ma in cuor nostro quel mondo selvaggio perdura. Viviamo ciò che sognarono e ciò che loro vissero, noi lo sogniamo». Si potrebbe speculare sul fatto che questi due romanzi siano apparsi proprio nel 1985, nel mezzo dell’era reaganiana; ma limitiamoci a osservarli in quanto oggetti letterari, anzi in quanto gemelli mancati, perché malgrado affrontino la stessa materia la trattano in modi opposti, così come opposto è il profilo dei loro autori. McCarthy appartiene al canone occidentale: Harold Bloom ve lo ha inserito proprio in virtù di Meridiano di sangue. Il canone di McMurtry è invece quello popolare, tanto che lo vediamo comparire insieme a Carrie di Stephen King e Il grande nulla di James Ellroy in una lista di dieci titoli da supermercato che David Foster Wallace proponeva come indespensabili per il suo corso di prosa narrativa, avvertendo gli studenti di non prenderli sottogamba perché si sarebbero rivelati, a una lettura critica, più ostici di opere convenzionalmente inserite in un canone alto. In effetti, di quella lista, Lonesome Dove era il più letterario. Il romanzo aveva sì generato una miniserie televisiva e indotto McMurtry a ricavarne una saga composta di un sequel e ben due prequel, ma allora aveva anche già vinto un Pulitzer, e meritava lo statuto di «classico».

Il West tragico, visionario e gnostico di Meridiano di sangue sta infatti a quello ben più drammatico, realistico e umano di Lonesome Dove come la preistoria e l’apocalisse stanno alla storia Certo, tutto impallidisce al confronto con Cormac McCarthy, che Bloom riconduce direttamente a Shakespeare, vedendo nel giudice Holden, il capo della feroce banda paramilitare di Meridiano di sangue, una emazione americana di Iago. Quando poi affronta la qualità della prosa di McCarthy, il paragone di Bloom è addirittura omerico: la definisce più prossima all’epica che al romanzo, collocandola su piani lontanissimi dalla scrittura di McMurtry. Eppure, tra i due libri corre comunque un filo. Il West tragico, visionario e gnostico di Meridiano di sangue sta infatti a quello ben più drammatico, realistico e umano di Lonesome Dove come la preistoria e l’apocalisse stanno alla storia. Allo stesso modo, i discorsi del giudice Holden – questo dio della guerra che parla tutte le lingue e padroneggia ogni arte e ogni scienza – trovano un’eco addolcita nella filosofia assai più spiccia di Augustus McCrae detto Gus: «Se era la civiltà che cercavo, restavo nel Tennessee a guadagnarmi da vivere scrivendo poesie». Non che in Lonesome Dove non ci si ammazzi; violenza e morte sono presenti anche qui, ma con accenti attenuati, sono parte della vita e non più emanazioni di una metafisica che impregna ogni cosa.

L'odissea di Gus e Call in un appunto della produzione della serie televisiva tratta da Lonesome Dove.

L’odissea di Gus e Call in un appunto della produzione della serie televisiva tratta da Lonesome Dove.

Curiosamente, il romanzo di McMurtry si accoda a Meridiano di sangue anche sul piano storico. Se l’epica cruenta del giudice Holden si svolge tra Messico e Texas, vertendo sullo sterminio dei nativi del Sudovest, Gus e il suo socio Woodrow Call sono due ex ranger diventati mandriani. Ormai non più giovani, si sono ritirati a vivere nelle stesse zone, in Texas, in uno sputo di paese non lontano dal confine con il Messico. I tempi sono cambiati, la guerra civile è finita da un pezzo; banditi e indiani non rappresentano più un pericolo, perlomeno non come in passato. «Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che aveva visto un indiano veramente pericoloso che se all’improvviso se ne fosse presentato uno al guado, in groppa al suo cavallo, con ogni probabilità Call sarebbe stato troppo sorpreso per sparare». Quanto al resto, «di fatto in sei mesi di guardia al fiume, aveva snidato in solo bandito, che poi forse era soltanto un vaqueto con un cavallo assetato». Del resto, che siamo lontani dalla grande epica del West cruento e selvaggio è chiaro fin dall’incipit dove ci viene offerta l’ironica quanto emblematica scena di due maiali, una scrofa e il suo piccolo, che si avventano su un serpente a sonagli, «non molto grosso» però. Tutto è ridimensionato, sicché ciò che alla fine terrorizza davvero i cowboy di Lonesome Dove è parlare una donna, ne hanno un bisogno tremendo ma non hanno idea di come farlo. Nel porre l’accento su problemi di tal genere McMurtry raffigura un western molto più reale dell’universo di McCarthy dove il femminile è un’entità remota, quando non del tutto assente.

In questo scenario compare un bel giorno un vecchio amico, Jake Spoon, che parla ai due ex ranger dei pascoli del Montana e della fortuna che ci si potrebbe fare portandoci una mandria. McMurtry racconta appunto una nuova e breve fase del West, quella dei bovini guidati per centinaia e centinaia di miglia dal Texas al nord, verso praterie con erba alta e acqua in abbondanza. Un West più quieto e destinato a finire con la diffusione del filo spinato, il West che Peter Bogdanovich voleva portare sul grande schermo con John Wayne e James Stewart nella parte dei ranger in pensione. Il regista aveva già lavorato con McMurtry nel 1971 ricavando un film da un suo romanzo, L’ultimo spettacolo, e pensava di affidargli la sceneggiatura. Il progetto non decollò perché Wayne rifiutò la parte, a quanto pare imbeccato da John Ford che gli sconsigliò di recitare in un western dal sapore elegiaco.

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È il West che Peter Bogdanovich voleva portare sul grande schermo con John Wayne e James Stewart nella parte dei ranger in pensioneLonesome Dove nasce proprio dal soggetto abbozzato per Bogdanovich, e anche su questo si potrebbe speculare all’infinito: uno dei pochi grandi romanzi che raccontano il vero West scritto grazie alla contrarietà dei due mostri sacri del cinema, Wayne e Ford, che più di chiunque altro costruirono attorno al West un mito. La vividezza con cui McMurtry ricostruisce la verità di un’epoca, di un modo di vivere e di parlare non è mai freddo realismo, perché sempre velata dalla nostalgia per il tempo perduto, com’è giusto che sia perché anche il vero West era un laboratorio di leggende più o meno fondate: «Quella storia del pistolero risaliva a un colpo fortunato che Jake aveva messo a segno quando era soltanto un ragazzo entrato da poco nei ranger. Era strano come un solo colpo potesse fare la reputazione di un uomo». E se è tipico di ogni età dell’oro, come di ogni luogo violento e selvaggio, rendere impalpabile il confine tra il sognato e il vissuto, non meno arduo diventa stabilire dove finisca il West e dove cominci il western, cosa separi l’epica dal romanzo, il canone occidentale dalla narrativa popolare, McCarthy da McMurtry. Del resto, non sarà soltanto per caso che questi due libri tanto diversi, ma comunque irrinunciabili per chi voglia capire l’America, siano apparsi quali come tardivi di un medesimo genere nel medesimo anno, l’ormai lontano 1985.

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Apparso in precedenza su «Alias» de «il Manifesto»: ringraziamo l’autore e il giornale.

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Tommaso Pincio è scrittore e traduttore. I suoi ultimi libri sono Scrissi d’arte (L’Orma editore) e Panorama (NN Editore).

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