Narrativa straniera e Frontiere

DeLillo, Italia

R—B
Redazione 2 Novembre 2016 21 min

La pubblicazione italiana di Zero K ha innescato una serie impressionante di reazioni critiche. Non solo recensioni e interviste, ma anche i più vari approfondimenti che, a partire da Zero K, riportano a tutta la produzione di Don DeLillo e alla sua centralità nella riflessione sul contemporaneo.

Le interviste

Iniziamo dalle parole di DeLillo: la sua presenza in Italia è stata l’occasione anche per alcune interviste.

Giuseppe Genna su «Che fare»

È l’autore che più ha interrogato le forme e le sostanze del tragico, dell’epico, del comico e del lirico in prosa, nella narrazione, in una progressiva e alterna intensificazione del testo, perforando qualunque genere, fino a restituire, con Zero K, un testo che mi sento di definire tra i più cruciali nella letteratura occidentale degli ultimi vent’anni, non soltanto quindi nella produzione dell’autore. (…)

Ciò può essere almanaccato nella critica del gusto, cionondimeno ritengo che ci sarebbe oggettivamente la necessità di stendere un saggio a se stante, che renda onore alla stratificazione, alla complessità e al contempo alla nudità e al trascendimento del controllo, di cui Zero K mi sembra un apice nel nostro contemporaneo. (…)

Questo è un esempio del monocromo che accade in Zero K Ci sono continui riferimenti ai monocromi. L’intero labirinto della clinica Convergence sembra essere fatto di monocromi, oltre che di video, fondamentali per l’esperienza del testo. È la prima volta, mi pare, che abbiamo davvero una letteratura narrativa monocroma, astratta. Sembra Gerhard Richter, un artista a Lei caro. Sembra Rothko. Mi pare tutto il senso dell’accelerazione che contraddistingue il periodo successivo a Underworld.

Dopo Underworld mi rendevo conto che mi stavo muovendo in una direzione completamente diversa. Non ho inteso dare alcuna spiegazione a quanto stava accadendo. Mi sono dedicato semplicemente a mantenere intatto questo movimento a un livello profondo. Ciò mi risultava del tutto naturale. Non mi sono mai posto l’obbiettivo di scrivere un romanzo che si sviluppasse a un livello più intuitivo, più intuizionista. È soltanto accaduto così. Non è stato programmato o pianificato. Sapevo che stavo facendo una cosa differente rispetto a prima, ma non ne ho mai cercato una spiegazione. L’approccio è simile a quello di un pittore come Richter, che afferma di sentire quando un monocromo o una tela astratta sono finiti poiché non c’è più nulla da aggiungere o togliere. Io avverto automaticamente quando il libro è finito. E’ pura intuizione. Questo concerne tutto il processo di scrittura. Non prendo appunti su quanto scrivo, non faccio schemi o scalette. Annoto quello che un personaggio potrebbe dire o quale clima potrebbe esserci in una scena. Mi porto dietro un taccuino, giro e prendo piccoli appunti. Non ragiono in termini di grandi schemi, ma, come dicevo, di parole e di organi di senso, di aspetti visuali della pagina. E’ un funzionamento altro: penso visivamente, penso tridimensionalmente. Mi piace scrivere scene che si svolgono in stanze, in auto, nei vagoni, nelle strade e non in un modalità da fiction semisaggistica, che altri autori, davvero bravi, invece prediligono. C’è un aspetto visivo da cui io dipendo completamente.

 

Riccardo Staglianò per il «Venerdì» di «Repubblica»

Un libro sull’elusivo senso della vita, sulla sua fine, sulle promesse messianiche della tecnologia, sulla guerra a bassa intensità in cui rovinano certi rapporti padri-figli e molto altro ancora. (…)

Ci pensa ancora un po’ ed emette una delle sentenze cristalline per cui è diventato famoso, uno dei quattro grandissimi nella spietata classifica del critico Harold Bloom, insieme a Pynchon, Roth e McCarthy: «La regola, sin qui, è stata la seguente: se c’è una cosa che la tecnologia diventa capace di fare, verrà fatta. Forse abrogherà la morte, di certo ha provocato distruzione di massa. Per questo mi fanno più paura le potenze atomiche che non fanno i test rispetto a chi li fa. Vedere all’opera quella forza mostruosa, funziona come disincentivo dall’usarla davvero».

 

Francesco Pacifico per «IL» del «Sole 24 Ore»

Guardando Antonioni mi sono convinto che lei vuole essere un artista e non un intellettuale.

Sono d’accordo. E devo enfatizzare che lavoro molto per intuizione. È molto importante. Non faccio schemi. Prendo appunti su scene, dialoghi e nomi di personaggi. Non so niente dell’intreccio. Vado frase per frase. Spesso comincio un romanzo perché ho una immagine visuale che mi spinge alla macchina da scrivere, e comincio a lavorare.

E dopo queste intuizioni se le ricorda? 

A volte sì. Con Zero K avevo un’immagine che poi ho pensato di non usare. Un’immagine molto vivida di un nugolo di grattacieli, una decina, sulla riva di un fiume, e dietro non c’è niente se non terra arida, senza città, senza gente. Ma poi ho capito che non volevo i grattacieli, volevo andare sottoterra, in una parte remota del mondo, e allora ho scelto l’Asia minore, e ho deciso di nascondere lì Convergence.

 

Francesca Borrelli per «il Manifesto»

I nomi sono sempre stati importanti per lei. Avrà dunque un significato speciale il fatto che Ross Lockhart non si chiamasse davvero così. Jeff svela, a un certo punto, che il cognome del padre è falso: quale strategia narrativa le ha suggerito di rivelare questo particolare solo a uno stadio avanzato del romanzo?

È avvenuto in modo puramente intuitivo: a un certo punto mi sono detto, ecco il momento di fare questa rivelazione. Avevo già messo a fuoco ciò che avrebbe dovuto distinguere Ross dalla figura di Jeff; sapevo qualcosa di lui, e non soltanto circa la sua immane ricchezza, anche se di certo non lo avrei chiamato Lockhart se ne avessi fatto il custode di un condominio del Lower East Side. Si chiamava così, in realtà, un mio vecchissimo amico. Come spesso mi accade, è stato quando ho potuto dare un nome al personaggio che mi è sembrato di sapere già molto sul suo conto. Tocca alla madre dire a Jeff che il padre ha cambiato nome, ma glielo comunica solo a un certo punto della sua vita: perciò, poiché si tratta di una rivelazione tardiva, il personaggio la condividerà con i lettori solo tardivamente. È vero che i nomi sono da sempre molto importanti per me: per esempio, quando ho concepito il personaggio del figlio di Emma, la compagna di Jeff, ho saputo subito che si sarebbe chiamato Stak, che sarebbe stato un figlio adottivo, che in quel momento della vicenda avrebbe avuto quattordici anni, che sarebbe stato molto più alto della media dei suoi coetanei e avrebbe parlato in un modo un po’ curioso. Glielo dico per farle osservare quale contrasto ci sia tra lo sviluppo repentino di un personaggio come Stak e l’evolversi lento del carattere di Jeff, che diventa se stesso frase dopo frase. Essendo lui la voce narrante del romanzo, che è scritto in prima persona, Jeff diventa quel che è via via che accadde ciò che accade: è lui che parla, è lui che pensa, lo sviluppo del romanzo segue la gradualità dei suoi ragionamenti.

 

Il linguaggio

Zero K è anche una meditazione sul linguaggio, la sua sostanza e i suoi limiti: almeno a leggere molti degli articoli che sono usciti.

Ancora Francesca Borrelli, in una recensione per «Alias» de «il Manifesto»

Sempre, nei romanzi di DeLillo, personaggi smarriti cercano di saldarsi alla vita nominando a alta voce gli oggetti che li circondano: così Nick, il protagonista di Underworld, insegue la padronanza del linguaggio per riscattarsi dal delitto commesso; e Mr Tuttle – la misteriosa presenza nella casa della Body Artist – rende incerta la sua appartenenza al reale proprio perché incapace di nominare gli oggetti più banali. Anche i nomi, per DeLillo così importanti da costituire il titolo di un suo romanzo dell’82, sono associazioni di lettere che devono rendere conto della fisionomia del personaggio, suonare come suona il suo carattere, assecondarne la tempra, non stridere con le sue inclinazioni. Un capitolo intitolato alla moglie di Ross, Artis Martineau, interrompe l’andamento narrativo per sommare frammenti di un monologo interiore alternati a una voce fuori campo, fornendo a DeLillo il luogo narrativo dove fare precipitare alcuni tra i suoi temi più ricorrenti: il ripiegarsi sulle proprie parole saggiandone la consistenza sonora prima ancora che semantica, la concezione del tempo mutuata quasi letteralmente da Agostino, filosofo presente fin da Americana, il suo primo romanzo; e, ancora, la distinzione tra avere un corpo e essere un corpo, cara all’antropologia di Plessner, autore tuttavia ragionevolmente estraneo allo scrittore americano.

 

Federico Francucci su «Alfabeta2»

Zero K è un libro profondamente enigmatico, senza risposte, privo di alcuna consolazione, che investe il lettore con una forza strabiliante e destabilizzante. Poche volte come in queste pagine lo scrittore americano è riuscito a portare chi accetta di seguirlo sul filo di una scrittura perfetta, per come concentra in laconismo ieratico una formidabile carica psichica ed emotiva (i romanzi di DeLillo sono anche, tutti, trattati sulle passioni dell’anima), in un luogo mentale dove sperimenta il massimo del disorientamento come rivelazione, come punto finale di un percorso tanto estetico che conoscitivo. (…)

So però che, se ha ancora senso usare la parola «capolavoro», è per libri come questo che bisogna spenderla.

 

Della lingua di Zero K e della riflessione sul linguaggio che dal romanzo emerge ha scritto anche la traduttrice del libro, Federica Aceto, per Biancamano 2

Zero K è sì una riflessione sulla morte e sull’umano desiderio di sconfiggerla, un apologo sulla hybris dell’occidente capitalista che si illude di poter comprare e possedere tutto, finanche la fine del mondo. Ma dopo averlo riletto varie volte a me pare fondamentalmente un libro sulla fine e sul fine del linguaggio, un libro sulle parole, sui loro limiti, sul bisogno irrefrenabile di dire, dare nomi alle cose e alle persone, definire, raccontare, nonostante tutto. Non c’è e non può esserci compiacimento in tutto questo, c’è invece la dolorosa consapevolezza dell’incapacità del linguaggio, qualunque forma di linguaggio, di contenere la realtà e di riuscire a renderla un mezzo per raggiungere realmente un altro essere umano.

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Gianni Montieri su «Poetarum silva»

«Che senso ha vivere se alla fine non si muore?»

« Ho bisogno di una finestra per guardare fuori. È questo il mio limite».

Queste due piccole frasi si trovano nelle prime pagine di Zero K. Le ho scelte tra le moltissime sottolineate perché semplicissime, perfette, lineari, potentissime e molto significative. Se la prima comprende il senso primario (ma non il solo) della storia che DeLillo va a raccontare, la seconda contiene quasi tutto il senso del mondo e del tempo. (…)

DeLillo non scrive una sola parola che non sia riconducibile al ritmo assoluto che suona in tutto il libro.

 

Il sacro

Alcuni critici si sono soffermati sul tema del sacro – sulla possibilità di una trascendenza. Ad esempio Francesco Longo su «pagina 99»

Sarà che tutte le trame portano alla morte, ma i suoi libri sono permeati da riflessioni legate alla fine del mondo, a ciò che ci sarà dopo questa vita, ammantando la sua letteratura di una coltre metafisica, religiosa, splendidamente sacra. (…)

L’America ha ancora bisogno di essere raccontata da DeLillo. Ogni suo romanzo riesce a essere uno specchio in cui la società si riflette e insieme una sfera di cristallo in cui leggere il domani. Spesso con toni apocalittici, DeLillo avverte i cambiamenti nell’aria e ne annuncia l’arrivo. Fin dai primi libri, la sua letteratura è attirata dal punto di contatto tra la Storia e le passioni dei singoli.

«Sono i desideri collettivi a fare la Storia», scriveva nel suo capolavoro di novecento pagine, Underworld, in cui seguiva le vicende di una mitica pallina da baseball per raccontare mezzo secolo di vita americana. I suoi mondi letterari abbracciano eventi epocali – la guerra fredda, la morte di Kennedy, la caduta delle Torri Gemelle – e l’intimità inquieta delle persone. DeLillo ha raccontato ansie e desideri della cultura statunitense come nessuno altro scrittore e di fatto sarebbe inconcepibile disegnare una mappa della recente letteratura americana senza collocarlo al centro.

 

O Alessandro Zaccuri su «Avvenire»

Sospesi nel vuoto, aspettano. Giù, nel profondo di una grotta che sembra un bunker, o forse è vero il contrario: è un bunker, sembra una grotta. Conservati a una temperatura che si avvicina allo zero assoluto della scala Kelvin, svuotati degli organi interni, in alcuni casi addirittura decapitati per eccesso di precauzione (sappiamo così ancora poco del cervello, meglio mettere in salvo contenuto e contenitore). Quei corpi non sono solo corpi, perché aspettano. Che cosa? La risposta si può articolare in modi diversi: la singolarità, il risveglio, la convergenza di ogni simbolo matematico nelle due brevi linee parallele dell’uguale. A voler essere sinceri fino in fondo, quei corpi – come tutti i corpi – aspettano la risurrezione.

 

La fine

La morte e il suo superamento attraverso la scienza è, ovviamente, un altro degli elementi su cui ci si è più soffermati.

Cesare Alemanni per «il Tascabile»

Zero K riluce di una levitas poetica che sottolinea lo spessore politico delle domande al cuore del romanzo. Cosa significa vivere e cosa significa morire. E cosa resterà di entrambi, se davvero la tecnica arrivasse un giorno a sfumarne i confini, quegli stessi confini che per millenni hanno definito il senso più profondo dell’esperienza umana. Arrivato a ottant’anni, DeLillo si è permesso di sondare questi interrogativi con la grazia di chi sa che, per quanto lo riguarda, the joke is on us.

 

Chiara Valerio su «Doppiozero»

Zero K di Don DeLillo è un romanzo sulla fine del tempo. Sulla gloria che, come ha scritto Giuseppe Berto, coincide con la fine del tempo e ne rappresenta il compimento. Jeffrey, Jeff, il protagonista-sé-nonostante, è soprattutto un figlio di. La madre, Madeline, sua compagna di esperienze, traslochi e giochi ha avuto l’eleganza di andarsene mentre il padre – separati sì, ma da quanto? – Ross Lockhart, sorrideva dalla copertina di Newsweek. La madre muore in un letto e il padre vive immobile sulla copertina di una rivista patinata. Probabilmente, la prima avvisaglia di come DeLillo ha immaginato il tempo in questo romanzo. Di come il passato e il futuro non rappresentino né gli opposti né i contrari logici e teleologici del presente. L’opposto logico e teleologico del presente è il perenne. La morte e l’immagine, la morte è l’immagine. Solo che con la tecnologia siamo diventati bravi, bravissimi, le nostre immagini sono ormai tridimensionali, nelle nostre immagini c’è lo spazio per il vuoto lasciato dagli organi. Gli organi, come hanno insegnato gli egizi, possono essere riposti nei canopi. Qualunque nome diamo a quei vasi. Definisci Canopo, direbbe Jeffrey.

 

Nicola H. Cosentino su «minima et moralia» traccia una comparazione tra Zero K e La vegetariana di Han Kang

DeLillo si limita a raccontare, con una levità bergmaniana, le meditazioni di un uomo comune che scopre una curiosa alternativa alla morte, o meglio all’impotenza nei confronti della morte, ma invece di restarne affascinato o nauseato reagisce soppesando il resto, cioè la vita ricevuta, l’immanenza misurabile in cui l’unico lusso strappato al tempo è l’atto di ricordare. Questo non fa di Jeffrey Lockhart un eroe, né di Zero K una denuncia. È piuttosto una partitura di silenzi e osservazioni, in cui i dialoghi sono ridotti a preziosità surreali, sulla distinzione tra la voglia di vivere e quella di non morire, e sull’ostinazione di preservare i corpi spacciandoli per l’anima.

Un tema che Zero K condivide con “l’altro” libro importante del 2016, La vegetariana di Han Kang (Adelphi), vincitore del Man Booker International Prize. La storia di Yeong-hye, giovane casalinga di Seul che dopo un sogno smette drasticamente di mangiare carne nel dissenso generale della sua famiglia, è un romanzo di reazioni, proprio come Zero K, e Kang come DeLillo approfitta di queste reazioni per raccontare la conservazione di sé; solo, a parti invertite.

 

La recensione di «Wuz»

Malgrado ciò sarebbe semplicistico, e invero poco generoso, ridurre il libro all’esplorazione di un tema tanto battuto, poiché la morte è sempre stata una presenza fissa nei suoi libri. In veste di agente proteiforme, si pensi alla nube tossica di Rumore Bianco, il triste mietitore è il referente nascosto di ogni azione dei personaggi di DeLillo. (…)

Alla fine è la solitudine a dominare le desertiche radure di questo romanzo. Anche in tal caso non è una novità, ma è inutile cercare aspetti inediti in quest’ultimo lavoro di DeLillo. È semplicemente l’ennesimo capolavoro di uno degli autori più importanti di sempre. Punto.

 

La tecnica

Altri si sono soffermati sull’interrogazione della tecnologia a cui il romanzo spinge.

Luca Romano su «Ultima pagina»

Zero K, tuttavia da un altro punto di vista abbandona completamente la concezione tecnologica dell’esistenza, relegando la tecnica ad uno strumento attraverso il quale è possibile tornare a parlare di religiosità, di al di là. Cedere all’atto di Crioconservazione è una mera azione di fede, non tanto di fiducia che implicherebbe una reale conoscenza delle circostanze, ma proprio un atto di fede religiosa in un qualcosa che non è più un Dio spirituale, ma al contrario è un Dio creato dall’uomo fisicamente (non solo metafisicamente) costringendo la metafisica alla fisica, alla matematica, agli algoritmi e utilizzandolo come strumento per divaricare all’infinito le potenzialità umane.L’atto attraverso il quale avviene questa religiosità è la morte Esattamente come il paradiso nella bibbia e nella letteratura è un luogo nel quale arrivano le anime dopo la fine fisiologica degli uomini, il futuro è il luogo nel quale arriveranno i corpi dopo questa sospensione fisica dovuta alla temperatura.

Zero K è un romanzo che offre numerose possibilità di apertura nei confronti di molteplici argomenti, come d’altra parte DeLillo ci ha abituati, i suoi romanzo spesso vorticano attorno al tema del tempo e del futuro ma nel vorticare del lettore nelle parole è possibile cogliere principalmente domande, non risposte, il che lascia intuire di star leggendo uno dei più grandi scrittori viventi capace di trascendere il suo lavoro precedente e approdare a nuove forme.

 

Giovanni Bitetto su «404: File Not Found»

Nel 1985 DeLillo scriveva Rumore bianco: Jack Gladney, padre di famiglia e prototipo del maschio bianco americano, è ossessionato dall’idea della morte, l’unico modo per tacere le sue paure e procurarsi un potente psicofarmaco, il Dylar, capace di propiziare l’oblio. Si supera il concetto di morte ma non la sua realtà fisica, e per di più ci si avvale di un’invenzione romanzesca. Nel 2016 la situazione cambia radicalmente: l’ambizione della sospensione criogenica è ingannare la morte del corpo, introdurre a una vera vita eterna, e questa non è una fantasia, ma ciò che si ricerca in vari parti del mondo, con centinaia di persone che hanno deciso di sottoporsi ai trattamenti di tale tecnologia (allo stesso modo sono reali le ambizioni di Elon Musk di colonizzare Marte, “salvare” la razza umana attraverso la fuga interplanetaria). L’eternità è a portata di mano – o almeno la volontà di raggiungerla – siamo sicuri di riuscire a sopportarne l’idea?

 

La ricezione

«Il Post» ha dedicato a Zero K un articolo in cui si fa il punto della rassegna stampa estera.

Mentre Cristiano de Majo, su «Studio», si chiede cosa caratterizzi la produzione «tarda» di uno scrittore, come appunto Zero K.

La fine delle parole

«Tutti vogliono possedere la fine del mondo» ma alcuni vogliono conoscere il fine delle parole, altri ancora vivono alla fine delle parole. Una meditazione sul linguaggio e sul suo potere, sui nomi e la loro capacità di plasmare il mondo in cui viviamo: questo e altro è Zero K di Don DeLillo, secondo la sua traduttrice.

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