Narrativa straniera e Frontiere

Roth e i suoi autori: gli scrittori alter ego

A—C
Norman Gobetti 18 Dicembre 2018 37 min

«In che razza di storie la gente trasforma la vita, in che razza di vite la gente trasforma le storie». Nathan Zuckerman alter ego di Peter Tarnopol, Peter Tarnopol alter ego di Philip Roth, Philip Roth alter ego di Philip Roth: chi oserà entrare nella casa degli specchi delle identità di Philip Roth? Ma Norman Gobetti naturalmente, che in questo terzo e ultimo approfondimento sbroglia l'intricato nodo che lega alter ego, doppelgänger, personaggi e  autore nell'opera di Philip Roth. 

«La collosa evidenza è ovunque», così si concludeva una delle scene più comiche e più triviali di Lamento di Portnoy. Negli anni successivi alla pubblicazione del libro, furono in molti a prendere quella frase alla lettera. Una sera, Jacqueline Susann, celebre e chiacchierata diva della televisione dell’epoca, dichiarò durante un talk show che «le sarebbe piaciuto conoscere Philip Roth ma avrebbe preferito non stringergli la mano» (Perché scrivere?, p. 86). Una reazione emblematica dell’automatismo con cui l’opinione pubblica aveva reagito all’impostazione apparentemente confessionale del romanzo di Roth, identificando senza esitazioni il personaggio letterario con l’autore del libro.

Sul momento, Roth reagì a quello che considerava un grossolano fraintendimento cercando di chiarire le proprie intenzioni e spiegare il proprio punto di vista, come già aveva provato a fare in occasione della polemica suscitata agli esordi della sua carriera dalla pubblicazione sulla «Paris Review» e sul «New Yorker» di alcuni dei racconti poi confluiti in Goodbye, Columbus, quando molti esponenti dell’intellighenzia ebraica l’avevano accusato di aver dipinto un ritratto negativo e poco equilibrato della vita degli ebrei, gettando, a poco più di un decennio dall’Olocausto, «benzina sul fuoco dell’antisemitismo» (Perché scrivere?, p. 62). In una serie di discorsi tenuti all’inizio degli anni Sessanta in università e centri culturali ebraici si era difeso con parole come queste:

Il motivo per cui il personaggio di un’opera letteraria si impone a uno scrittore non è la frequenza con cui le sue caratteristiche si riscontrano nella popolazione. Quanti uomini ebrei, del tipo che conosciamo noi, si sono trovati sul punto di affondare la lama di un coltello nel loro unico figlio solo perché credevano che Dio volesse questo da loro? La pregnanza della storia di Abramo e Isacco non sta nel fatto che ogni giorno ci imbattiamo in qualcosa di simile. Il valore di un’opera letteraria non si misura in base a quant’è ampia la gamma di quel che descrive – sebbene tale ampiezza possa caratterizzare un certo tipo di narrativa – ma dalla veridicità con cui lo scrittore mostra quel che ha scelto di descrivere.

Confondere un «ritratto equilibrato» con un romanzo significa precipitare nell’assurdo. «Caro Fëdor Dostoevskij, gli studenti della nostra scuola hanno l’impressione che lei sia stato ingiusto verso di noi. Le sembra che Raskol’nikov sia un ritratto equilibrato degli studenti così come li conosciamo? Degli studenti russi? Degli studenti poveri? E allora quelli di noi che non hanno mai ucciso nessuno e ogni sera fanno i compiti a casa?» «Caro Mark Twain, nessuno degli schiavi della nostra piantagione è mai fuggito. Ma cosa penserà il nostro padrone quando leggerà del Negro Jim?» «Caro Vladimir Nabokov, le ragazze della nostra classe…» e così via. (Scrivere di ebrei, in Perché scrivere?, pp. 58-9)

Ma Roth comprese ben presto che questo modo di rispondere alle accuse restava all’interno della logica dei suoi accusatori e, così come aveva fatto col trauma del suo matrimonio fallito, riuscì a trasmutare anche quell’ulteriore trauma in qualcosa di più interessante e produttivo. Ecco come in un saggio del 1974, Immaginare gli ebrei, descrive il senso di alienazione ed estraniamento da se stesso e dagli altri che era stata la conseguenza inattesa della pubblicazione di Lamento di Portnoy:

Di tanto in tanto il rubricista Leonard Lyons tirava fuori qualche ghiotto aggiornamento di due righe sulla mia torrida relazione con Barbra Streisand: «Da Barbra Streisand non giungono lamenti riguardo alle sue serate con Philip Roth». Puntini puntini. Poco ma sicuro, dal momento che la ragazza ebrea assurta da tempo alla celebrità e il ragazzo ebreo non si erano, e ancora non si sono, mai conosciuti.

Andavano nascendo molte altre leggende mediatiche su di me, a volte benevole e alquanto sciocche, altre volte, almeno per me, destabilizzanti. Per non trovarmi sulla linea del fuoco, avevo deciso di lasciare il mio appartamento newyorkese subito dopo l’uscita del libro, e così, mentre «Philip Roth» cominciava a mostrarsi spavaldo in pubblico in luoghi dove io non avevo mai osato mettere piede, mi stabilii per quattro mesi a Saratoga Springs, nella residenza di Yaddo per scrittori, compositori e artisti.

Perlopiù, le notizie riguardanti le attività del mio Doppelgänger, di cui quello citato in precedenza era solo un minuscolo esempio, mi giungevano per posta: aneddoti in lettere di amici, ritagli di giornale, aggiornamenti dal mio avvocato in risposta alle mie richieste di consigli su eventuali cause per diffamazione o calunnia. Una sera, il secondo mese della mia permanenza a Yaddo, ricevetti una telefonata da un amico, redattore in una casa editrice newyorkese. Si scusava per avermi disturbato, ma quel pomeriggio in redazione aveva sentito dire che mi era venuto un esaurimento nervoso e mi avevano ricoverato in un ospedale psichiatrico; chiamava per assicurarsi che non fosse vero. Nel giro di qualche settimana, la notizia del mio esaurimento nervoso e conseguente ricovero era migrata verso occidente, oltrepassando le Montagne Rocciose per arrivare in California, dove fanno le cose in grande. Lì, a mo’ di introduzione a un dibattito su Lamento di Portnoy da parte di un gruppo di lettura sinagogale, l’annuncio della disgrazia capitata a Philip Roth venne fatto dal palco; avendo in questo modo posto l’autore in una luce rivelatrice, si passò a una discussione oggettiva del libro. (Perché scrivere?, pp. 86-7)

Esisteva dunque, in giro per il mondo, un altro Philip Roth, un alter ego, un vero e proprio Doppelgänger di colui che Philip Roth riteneva di essereEsisteva dunque, in giro per il mondo, un altro Philip Roth, un alter ego, un vero e proprio doppelgänger di colui che Philip Roth riteneva di essere. Ma se questo alter ego gli era stato imposto dagli altri, ebbene, lui non avrebbe permesso che fossero gli altri a dettare le regole del gioco, e si sarebbe ripreso quel che era suo, ovvero se stesso e tutti i suoi alter ego. È questo il seme da cui si sviluppò negli anni successivi il vertiginoso gioco di specchi intorno all’identità dell’autore letterario e al rapporto fra realtà e immaginazione che sarebbe sfociato negli arditi, aggrovigliati e tortuosi libri degli anni Ottanta e Novanta.

978880623854HIGA dire il vero, le complicazioni erano cominciate già prima. Nel 1974, lo stesso anno di Immaginare gli ebrei, era uscito La mia vita di uomo, il libro in cui compare per la prima volta Nathan Zuckerman. In La mia vita di uomo Zuckerman è un personaggio inventato dal protagonista del libro, Peter Tarnopol, che nella prima parte del libro, Utili finzioni, se ne serve come alter ego per rielaborare narrativamente le stesse dolorose vicende esistenziali narrate sotto forma di autobiografia nella seconda parte, La mia vera vita. Ma lo stesso Roth, stando a quanto racconterà quindici anni dopo nei Fatti, si era servito di Peter Tarnopol come alter ego per rielaborare narrativamente le dolorose vicende esistenziali della propria vita.

Per quanto possa apparire complesso, questo gioco di specchi multistrato (Nathan Zuckerman alter ego di Peter Tarnopol alter ego di Philip Roth) era solo agli inizi. In Professore di desiderio un altro alter ego di Roth, David Kepesh, vive vicende molto simili a quelle di Zuckerman e Tarnopol, ma (come già accadeva nel Seno, quando il personaggio era comparso per la prima volta) in lui la promiscuità fra letteratura e vita è una condizione esistenziale talmente interiorizzata da produrre un costante, e invalidante, sovrapporsi di realtà e finzione, di vita vissuta e vita immaginata.

Nelle settimane conclusive del semestre, mentre affrontiamo i racconti di Čechov, scopro, leggendo ad alta voce agli studenti i passaggi su cui voglio che si concentrino, che ogni singola frase mi sembra alludere alla mia specifica situazione, come se ormai ogni sillaba che penso o pronuncio dovesse prima essere filtrata dai miei problemi. E poi ci sono i sogni a occhi aperti durante le lezioni, a un tratto tanto frequenti quanto irreprensibili, e così esplicitamente ispirati alla smania di una miracolosa salvezza – ritrovare una vita perduta molto tempo fa, reincarnarmi in un essere completamente diverso da me –, che in un certo senso sono grato di essere depresso, privo della forza di volontà di mettere in atto anche la più morigerata delle fantasie.

«Capii che quando si ama, nei propri ragionamenti su questo amore bisogna partire da qualcosa che sta più in alto, che è più importante dei concetti di felicità o infelicità, di peccato o di buona condotta nelle loro accezioni correnti o non bisogna ragionarci affatto». Chiedo ai miei studenti cosa significa questo brano, e mentre me lo spiegano, noto che in fondo all’aula la ragazza posata e dalla voce sommessa che è la mia studentessa più intelligente e carina – nonché più arrogante e annoiata – sta terminando il suo pranzo a base di Coca-Cola e barrette di croccante ricoperto Peanut Chews. «Oh, non mangiare schifezze», le dico in silenzio, e vedo me e lei sulla terrazza del Gritti che strizziamo gli occhi nel luccichio del Canal Grande ammirando la facciata ocra del perfetto piccolo palazzo sull’altro lato in cui abbiamo preso una camera appartata… consumiamo il nostro pranzo a base di pasta al sugo e scaloppine di vitello al limone… […]

Nel frattempo il mio altro studente brillante sta spiegando cosa intende dire il proprietario terriero Alëchin quando, alla fine di Dell’amore, parla di «qualcosa che sta più in alto… dei concetti di felicità o infelicità, di peccato o buona condotta nelle loro accezioni correnti». Il ragazzo dice: – Alëchin rimpiange di non aver dato ascolto ai propri sentimenti e non essere fuggito con la donna di cui si è innamorato. Adesso che lei se ne sta andando, lui è triste per aver permesso che i suoi scrupoli di coscienza, e la sua timidezza, lo trattenessero dal confessare il proprio amore solo perché lei è già moglie e madre –. Annuisco, ma evidentemente senza comprendere, e il ragazzo intelligente sembra costernato. – Mi sbaglio? – chiede, arrossendo. – No, no, – dico io, però nel frattempo sto pensando: «Ma cosa fa, Miss Rodgers, sgranocchia Peanut Chews? Dovremmo invece sorseggiare vino bianco…» […]

Più tardi alzo gli occhi dalla lettura ad alta voce della Signora col cagnolino e mi trovo davanti lo sguardo puro e innocente della florida, buona, zelante ragazza ebrea di Beverly Hills che dall’inizio dell’anno siede al primo banco e scrive tutto ciò che dico. Leggo alla classe l’ultimo paragrafo del racconto, in cui la coppia adultera, turbata dallo scoprire quanto è profondo l’amore che la unisce, cerca invano di capire «perché lui fosse ammogliato e lei maritata». – «E sembrava che, ancora un poco, e la soluzione si sarebbe trovata, e allora sarebbe iniziata una vita nuova, meravigliosa; e a entrambi era chiaro che mancava molto, molto tempo alla fine, e che la parte più complessa e difficile stava solo iniziando» –. Odo me stesso parlare della toccante trasparenza di questa conclusione: niente falsi misteri, solo i fatti nudi e crudi, esposti in modo diretto. Parlo della quantità di storia umana che Čechov riesce a racchiudere in quindici pagine, di come il ridicolo e l’ironia cedono a poco a poco il passo, pur in uno spazio così ridotto, al pathos e alla sofferenza, della sua abilità nel rendere il momento della disillusione e i processi attraverso cui la realtà sembra frustrare anche le nostre più innocue illusioni, per non dire dei grandi sogni di appagamento e avventura. Parlo del suo pessimismo riguardo a quella che lui definisce «la questione della felicità personale», e per tutto il tempo vorrei chiedere alla ragazza paffutella del primo banco, che prende febbrilmente nota delle mie parole sul suo quaderno, di diventare mia figlia. Vorrei occuparmi di lei, assicurarmi che sia tranquilla e felice. Vorrei comprarle i vestiti e pagarle le visite mediche, e vorrei che venisse a gettarmi le braccia al collo quando si sente triste e incompresa. (pp. 65-68)

Negli anni successivi, liquidato Peter Tarnopol e accantonato per il momento David Kepesh (ricomparirà nel 2001 nell’Animale morente), l’alter ego per eccellenza di Philip Roth sarà Nathan Zuckerman, protagonista assoluto di ben cinque libri consecutivi: Lo scrittore fantasma (1979), Zuckerman scatenato (1981), La lezione di anatomia (1983), L’orgia di Praga (1985) e La controvita (1986).
Nathan Zuckerman sembra fatto apposta per spingere i lettori a leggere come «velate autobiografie» i romanzi che lo vedono protagonista
Nathan Zuckerman, ebreo, nato nel 1933 a Newark, autore in giovane età di una raccolta di racconti accolti con scandalo dalla comunità in cui è cresciuto, assurto alla fama e agli onori della cronaca grazie all’incendiario Carnovsky, vittima del proprio successo e dell’incomprensione del suo pubblico, perseguitato in egual misura da detrattori e ammiratori, assillato da un tormentoso mal di schiena, ossessionato dal sesso e affamato di compagnia femminile, sembra fatto apposta per spingere i lettori a leggere come «velate autobiografie» i romanzi che lo vedono protagonista. Ma, come l’autore ripeterà in diverse interviste, i libri della quadrilogia di Zuckerman sono l’esatto contrario di un roman à clef – non autobiografie travestite da romanzi, ma romanzi travestiti da autobiografie – e La controvita, un libro in cui a ogni nuovo capitolo tutto quel che il lettore credeva di sapere viene rimesso in discussione, e ad esempio alcuni personaggi morti tornano vivi e alcuni personaggi vivi risultano morti, è la definitiva messa in crisi (e messa in burla) dell’idea di romanzo autobiografico.

I miei libri dovrebbero essere letti come narrativa, ricercando i piaceri che la narrativa può dare. Non ho niente da confessare e nessuno con cui vorrei confessarmi. Quanto alla mia autobiografia, non puoi neanche immaginare quanto sarebbe noiosa. La mia autobiografia consisterebbe quasi esclusivamente di capitoli in cui me ne sto seduto da solo in una stanza a guardare la macchina per scrivere. La mia vita è così priva di eventi che, in confronto, L’innominabile di Beckett sembrerebbe Dickens.

Il che non significa che non abbia attinto alle mie esperienze per nutrire la mia immaginazione. Questo però non per rivelare me stesso, esibire me stesso o anche solo esprimere me stesso, ma per inventare me stesso. I miei diversi me stesso. I miei mondi. Applicare a libri come i miei l’etichetta di «autobiografici» o «confessionali» significa non solo negare la loro natura congetturale ma anche, se così posso dire, sminuire la perizia con cui sono riuscito a far credere ad alcuni lettori che siano autobiografici. (Perché scrivere?, pp. 135-6)

Eppure, nel 1988, subito dopo La controvita, Roth pubblica un libro, I fatti, che ha come sottotitolo Autobiografia di un romanziere, e reca un’epigrafe tratta (guarda caso) proprio dalla Controvita: «E mentre lui parlava io pensavo: “Guarda in che razza di storie la gente trasforma la vita, in che razza di vite la gente trasforma le storie”» (Nathan Zuckerman ne La controvita). Il libro comincia così:

Caro Zuckerman,

in passato, come sai, i fatti sono sempre stati brevi appunti su un taccuino, il mio modo di scattare dalla realtà alla fantasia. Per me, come per quasi tutti i romanzieri, ogni avventura dell’immaginazione comincia laggiù, con i fatti, con lo specifico, e non col filosofico, l’ideologico o l’astratto. Eppure, con mia sorpresa, sembra che ora mi sia messo a scrivere un libro applicando un metodo assolutamente opposto, prendendo ciò che avevo immaginato e, come dire, asciugandolo, in modo da ricondurre la mia esperienza all’originaria fattualità preromanzesca. Perché? Per dimostrare che c’è uno scarto significativo tra lo scrittore autobiografico che si pensa che io sia e lo scrittore autobiografico che sono? Per dimostrare che le informazioni che ho tratto dalla mia vita erano, nei romanzi, incomplete? […]

No, la cosa sembra essere scaturita da altre necessità, e l’inviarti questo manoscritto – chiedendoti, come faccio, di dirmi se credi che dovrei pubblicarlo ­– mi spinge a spiegare cosa può avermi portato a presentarmi così prosaicamente, senza maschera. […] La persona alla quale intendevo rendermi visibile in queste pagine ero, in primo luogo, io stesso. […] Come te, Zuckerman, che nella Controvita rinasci grazie alla moglie inglese, […] anch’io ero maturo per un’altra occasione. Se mentre scrivevo non potevo vedere esattamente che cosa stavo facendo, ora lo vedo: questo manoscritto rappresenta la mia controvita, l’antidoto e la risposta a tutte quelle invenzioni culminate nell’invenzione di te. […]

Se questo manoscritto parla di qualcosa, parla della mia stanchezza di maschere, travestimenti, distorsioni e bugie. (I fatti, pp. 3-6)

Ma anche queste parole non andrebbero prese alla lettera, come dimostra, tanto per cominciare, il fatto che il libro successivo di Roth (pubblicato appena un anno dopo) si intitola Inganno. Ma torniamo all’Autobiografia di un romanziere. Qual è la risposta di Zuckerman alla domanda con cui l’autore conclude la sua missiva al proprio alter ego, ovvero «Questo libro vale qualcosa?»

La risposta è «Non pubblicarlo; te la cavi molto meglio scrivendo di me che facendo una cronaca “fedele” della tua vita» (p. 168). Come sappiamo, Roth non seguirà il consiglio. Anzi, I fatti inaugura un filone molto prolifico della sua produzione letteraria, quello dei «Roth books», i libri che hanno come protagonista non più un personaggio alter ego di Philip Roth, ma un Philip Roth alter ego di se stesso.

978880622534GRAIl primo di questi libri è appunto Inganno (1990). Il sottotitolo questa volta è Un romanzo, ma Inganno a un romanzo assomiglia poco, essendo composto interamente di dialoghi, e in particolare di conversazioni amorose con donne intrattenute nel proprio studio all’insaputa della moglie durante le ore dedicate alle scrittura della Controvita (ad aggrovigliare ulteriormente le cose, la più assidua fra le varie amanti è, apprendiamo alla fine del libro, proprio la donna che ha ispirato il personaggio di Maria Freshfield, la coprotagonista della Controvita).

Nel penultimo di questi dialoghi, l’interlocutrice è la moglie dell’autore, che ha trovato per caso il taccuino dei dialoghi (cioè il testo che diventerà il libro Inganno), ha avuto la malaugurata idea di leggerlo e, al pari dei primi lettori di Portnoy, l’ha preso alla lettera.

– È meglio che tu mi dica cosa ti sconvolge tanto. Non posso tornare a casa dal mio studio ogni giorno e sedermi a tavola per sorbirmi cene come questa, tutte le sante sere. Non apri bocca. Non rispondi qualsiasi cosa io ti dica. E hai un aspetto orrendo.

– Non dormo.

– E perché no? Dimmelo.

– Non lo so.

– Cosa ti dà fastidio?

– Non ha niente a che fare con te.

– Non è una buona ragione per non dirmelo. Ha a che fare con me, vero?

– Vorrei sapere… no, non è vero, non vorrei sapere un bel niente!

– Oh, avanti, ormai ci siamo. Qual è il punto?

– Tu non vai nel tuo studio a lavorare, tu vai nel tuo studio a scopare! Tu ti vedi con una donna nel tuo studio!

– Oh davvero? Tu dici?

Scoppiando in lacrime. – Sì!

– L’unica donna presente nel mio studio è la donna del mio romanzo, sfortunatamente. Avere un po’ di compagnia sarebbe più piacevole, ma in quel modo le cose non funzionerebbero a dovere.

– Non parlo del tuo romanzo… parlo del tuo taccuino! […]

– Ti stai facendo venire un crisi isterica per niente, sai?

– Sì?

– Ma cosa vai a pensare? Avrai letto qualche appunto…

– Non «appunti», conversazioni con questa donna!

– Che è immaginaria.

– Come può essere immaginaria se sa tutte queste cose che tu non puoi assolutamente sapere? È una donna che viene nel tuo studio, ed è per colpa sua se tu da mesi sei così distratto e completamente indifferente a me. Quanto ti parlo, è un miracolo se riesci a stare sveglio. Quando lei ti parla, è tutto così fantastico che devi assolutamente metterlo per iscritto, non puoi farti sfuggire una parola. Quando apre la bocca lei è un portento e tu sei un «écouteur, un audiofilo». Dio mio, che stronzate pretenziose!

– Certo, potrebbe essere per colpa sua se io da mesi sono indifferente a tutto… però potrebbe anche essere colpa del libro che sto scrivendo se da mesi sono indifferente a qualsiasi altra cosa.

– Tu… tu… – Piangendo amaramente.

– Io cosa?

– Tu l’ami più di quanto hai mai amato me!

Perché non esiste. Se tu non esistessi, amerei anche te così. […] (pp. 129-30)

In realtà però anche la moglie «non esiste», anche la moglie è un personaggio di un «romanzo». Fatti? Inganno? La commistione fra realtà e finzione, fra sincerità e simulazione, fra vita e letteratura, arriva in questa fase centrale della carriera di Roth a essere così inestricabile da apparire come una vera e propria operazione di depistaggio, un continuo togliere il terreno sotto i piedi ai lettori (oltre che ai personaggi e forse anche all’autore stesso), un’operazione che fa pensare a uno di quei romanzi di spionaggio in cui tutti fanno il doppio e il triplo gioco e alla fine nessuno ha più gli elementi per capire chi è chi.
La commistione fra realtà e finzione, fra sincerità e simulazione, fra vita e letteratura, arriva in questa fase centrale della carriera di Roth a essere così inestricabile da apparire come una vera e propria operazione di depistaggioNon c’è quindi da stupirsi se il successivo romanzo di Roth, Operazione Shylock (1993), che costituisce l’apice e insieme la conclusione della fase dei «Roth books» – se si esclude il successivo Il complotto contro l’America (2004), che immagina come sarebbe stata la vita del giovane Roth se nel 1940 a diventare presidente degli Stati Uniti fosse stato un simpatizzante dei nazisti –, gioca proprio con la tradizione della spy story.

In Operazione Shylock il depistaggio è portato alle estreme conseguenze. Il Roth_OperazioneShylock.inddsottotitolo è Una confessione, la dedica è a Claire (cioè, si presume, Claire Bloom, moglie di Roth dal 1990 al 1995), le due epigrafi sono «Dunque Giacobbe rimase solo,
e un uomo lottò con lui fino allo spuntar dell’alba» (Genesi, 32.25) e «Tutta la sostanza del mio essere alza la sua stridula voce in contraddizione con se stessa.
L’esistenza è indubbiamente una discussione…» (S. Kierkegaard), e la Prefazione comincia così:

Ho dovuto, per motivi legali, alterare in questo libro un certo numero di fatti. Sono piccoli cambiamenti che riguardano soprattutto dettagli relativi agli ambienti e all’identità dei personaggi e che hanno scarso rilievo sulla storia complessiva e sulla sua verosimiglianza. Tutti i nomi cambiati sono contraddistinti da un circoletto la prima volta che figurano nel libro.

Ho ricavato Operazione Shylock da diari e taccuini. Il libro è la cronaca più precisa che io possa fornire di fatti veri dei quali sono stato protagonista a cinquantaquattro o cinquantacinque anni, fatti culminati, all’inizio del 1988, nell’assenso che diedi alla proposta di intraprendere un’operazione di controspionaggio per il servizio segreto israeliano, il Mossad. (p. 5)

Come se tutto questo non fosse già abbastanza arzigogolato, nel romanzo compare, oltre al Philip Roth alter ego dell’autore, anche un altro «Philip Roth», questa volta un vero Doppelgänger nella tradizione del Sosia di Dostoevskij o di William Wilson di Edgar Allan Poe, un impostore che si spaccia per il «vero» Philip Roth.

Il tutto si conclude, dopo più di quattrocento pagine, con questa Nota per il lettore:

Questo libro è un’opera di fantasia. […] Nomi, personaggi, luoghi ed episodi o sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Ogni somiglianza con fatti, ambienti o persone reali, vive o morte, è assolutamente casuale. Questa confessione è falsa. (p. 427)

Con questa lapide tombale viene definitivamente sepolto qualunque tentativo di leggere le opere di Roth come «velate autobiografie», e di far pagare all’autore le conseguenze del comportamento dei suoi personaggi. A questo punto la strada è sgombra per i due libri che sono quasi unanimemente consideranti i capolavori di Roth, Il teatro di Sabbath (1995) e Pastorale americana (1997), due libri che Roth scrisse uno di seguito all’altro e che non potrebbero essere più diversi.

Sgombrato il campo da ogni equivoco su «chi è chi», Roth sembra sentirsi nuovamente libero, a quasi trent’anni di distanza da Lamento di Portnoy, di procedere a briglia sciolta, e se Il teatro di Sabbath e Pastorale americana possono a buon diritto essere considerati l’apice della produzione dell’autore è per una ragione ben precisa. Quando Roth aveva reagito in modo così veemente all’accoglienza ricevuta da Lamento di Portnoy non era stato solo perché la sua sensibilità estetica era urtata dalla rozzezza con cui i lettori erano pronti a confondere la fiction con l’autobiografia, e quindi a identificare Alexander Portnoy con Philip Roth, ma anche perché sembrava che i lettori tendessero a cogliere una sola delle due facce del personaggio, ovvero dei due archetipi, le due personae, che, in uno scritto del 1974 sulla nascita di Lamento di Portnoy, Roth aveva definito «il ragazzaccio ebreo» e «il bravo ragazzo ebreo» (Perché scrivere?, pp. 78-84).

Sabbath e Levov incarnano rispettivamente il ragazzaccio e il bravo ragazzo, come due gemelli siamesi separati attraverso una lunga e complessa operazione chirurgica Ora, dopo il lungo itinerario percorso prima attraverso gli «Zuckerman books» e poi attraverso i «Roth books», l’autore concepisce nel Teatro di Sabbath e in Pastorale americana due personaggi in cui queste due identità conflittuali trovano la loro massima compiutezza espressiva. Sabbath e Levov incarnano rispettivamente il ragazzaccio e il bravo ragazzo, come due gemelli siamesi separati attraverso una lunga e complessa operazione chirurgica. Un’operazione chirurgica affine a quella che già aveva tentato di compiere Nathan Zuckerman in La lezione di anatomia.

L’uomo seduto accanto a lui nel posto lungo il corridoio stava rimettendo nella borsa le carte che avevano assorbito la sua attenzione da quando erano saliti a bordo. Mentre l’aereo iniziava la discesa, si girò verso Zuckerman e in tono amichevole chiese: – Lei viaggia per affari?

– Esatto.

– Qual è il suo ramo?

– Pornografia, – disse Zuckerman.

L’uomo parve divertito da quella strana risposta. – La vende o la compra?

– La pubblico. Sto andando a Chicago a parlare con Hefner. Hugh Hefner. «Playboy».

– Oh, Hefner, chi non lo conosce. L’altro giorno ho letto sul «Wall Street Journal» che il suo reddito lordo è di centocinquanta milioni di dollari l’anno.

– Non giri il ferro nella piaga, – disse Zuckerman.

L’uomo rise amabilmente e parve pronto a non parlarne più. Finché non prevalse la curiosità. – Cosa pubblica, lei, esattamente?

– «A gambe levate», – disse Zuckerman.

– È questo il nome della pubblicazione?

– Non ha mai visto «A gambe levate»? All’edicola?

– No, temo di no.

– Ma «Playboy» lo vede, no?

– Lo vedo occasionalmente.

– Lo apre per dargli un’occhiata, dico bene?

– Di tanto in tanto.

– Be’, personalmente lo trovo noioso. Ecco perché io non guadagno centocinquanta milioni di dollari: la mia rivista non è noiosa come la sua. Okay, lo ammetto, sono molto invidioso dei soldi di Hefner. Lui è più rispettabile, ha entrature, ha una distribuzione nazionale, mentre «A gambe levate» è ancora nel ghetto della pornografia. Non mi sorprende che lei non l’abbia vista. «A gambe levate» non è una pubblicazione molto diffusa perché è troppo sconcia. Non ospita articoli di Jean-Paul Sartre per offrire a un tipo come lei una scusa per comprarla all’edicola e andare a casa a farsi una sega davanti alle sue tette. Io non credo in questa scelta. Hefner è sostanzialmente un uomo d’affari. Io non credo che questa definizione vada bene per me. Certo, è un’impresa ad alto rendimento, ma per me i soldi non sono la cosa più importante. (pp. 140-1)

978880619660GRAIn Teatro di Sabbath il «ragazzaccio ebreo» (qui in realtà alquanto attempato) è ritratto in tutta la sua scandalosa inassimilabilità, in tutta la sua radicale inconciliabilità con gli scrittori modello venerati dal giovane Roth. Mickey Sabbath, «burattinaio pagano di un proprio teatro osceno», come lo definirà Roth molti anni dopo (Il primato del ludus, in Perché scrivere?, p. 402), asseconda senza alcuna inibizione qualunque proprio istinto, ricerca senza alcuna vergogna il soddisfacimento di qualunque proprio appetito, e di conseguenza rifiuta qualunque fanatismo della serietà, ispirandosi a modelli molto diversi da quelli della Grande Letteratura.

Ava Gardner. Benedetta Ava. Difficile che un uomo riuscisse a stupirla, Ava: eleganza e sozzura, intrecciati in un abbraccio immacolato. Morta a sessantadue anni, due meno di me. Ava, Yvonne de Carlo, quelli erano dei modelli! In culo le lodevoli ideologie. Robaccia superficiale! Basta leggere e rileggere Una stanza tutta per sé. Procuratevi Le opere complete di Ava Gardner. Una vergine lesbica tutta pizzicotti e ditalini, V. Woolf, con una vita erotica fatta di una parte di libidine e nove di paura… l’ultraeducata parodia inglese di un levriero, spontaneamente superiore, come soltanto gli inglesi sanno esserlo, a tutti i suoi inferiori; una che in vita sua non si era mai spogliata. (pp. 167-8)

Seymour Levov detto «lo Svedese», il protagonista di Pastorale americana, è l’esatto opposto di Mickey Sabbath, essendo appunto l’incarnazione del bravo ragazzo ebreo, talmente bravo da meritare un soprannome che ha ben poco di ebraico.

Ovunque apparisse, la gente era innamorata di lui. I proprietari dei negozi di dolciumi assediati da noi ragazzi lo chiamavano, rispettosamente, «Svedese». I genitori sorridevano e lo chiamavano bonariamente «Seymour». Le ragazze chiacchierine che incontrava per la strada fingevano di svenire, e la più audace gli gridava: – Torna indietro, torna indietro, Levov della mia vita! – E lui lasciava fare, girava per il quartiere che lo inondava di tutto quell’amore, e sembrava non provare nulla. Contrariamente a tutti i nostri sogni a occhi aperti sull’effetto di un’adulazione così assoluta, acritica e idolatra, pareva che l’amore prodigato per lo Svedese in realtà lo svuotasse di ogni sentimento. In questo ragazzo abbracciato da tanta gente come simbolo di speranza […] sembrava non esistere una goccia di spirito o d’ironia che interferisse col dono prezioso della sua responsabilità. (p. 7)

Eppure, come in una rivisitazione atea della vicenda biblica di Giobbe, ad attendere lo Svedese c’è lo stesso destino che attende Sabbath, cioè l’intrattabilità della vita, il tragico cozzare di qualunque aspettativa, licenziosa o meno che sia, virtuosa o meno che sia, contro il nocciolo duro della realtà, il grottesco, inevitabile naufragare di qualsiasi desiderio nello sconfinato oceano della nemesi.

978880617896GRAÈ così che Roth approda all’ultima fase della sua produzione, quella degli anni Duemila, che ha inizio – dopo gli altri due volumi che, insieme a Pastorale americana, compongono la cosiddetta «trilogia americana», ovvero Ho sposato un comunista (1998) e La macchia umana (2000) – con L’animale morente (2001), un titolo struggente e funereo che potrebbe figurare in modo altrettanto pertinente anche sulla copertina di tutti gli altri brevi romanzi che, al ritmo di uno all’anno, coronano e insieme inevitabilmente concludono l’itinerario di Roth: Everyman (2006), Il fantasma esce di scena (2007), Indignazione (2008), L’umiliazione (2009) e Nemesi (2010).

In questi ultimi libri il bravo ragazzo e il ragazzaccio si incontrano e riconciliano proprio attraverso la presa di coscienza del comune destino che li attende. Adesso, dopo i furibondi conflitti che hanno agitato per decenni le pagine di Roth, a prevalere è un tono pacato e spesso elegiaco, sempre brillante e caustico, certo, ma anche, per riprendere l’epigrafe tratta da Thomas Mann posta quarant’anni prima in esergo a Lasciar andare, «mortalmente serio».

Questo tono fa la sua prima comparsa in un libro del 1991, Patrimonio, il cui sottotitolo, Una storia vera, per una volta non viene smentito da nessuno stratagemma paratestuale, sebbene questa storia vera si trovi incastonata fra i due libri più vertiginosamente mendaci di Roth, Inganno e Operazione Shylock. Patrimonio racconta la malattia e la morte del padre dell’autore, ed è qui che troviamo, per la prima volta in forma cruda e spoglia, quel cozzare dell’immaginazione contro il nocciolo duro della realtà da cui sarebbe germinata l’ultima, crepuscolare fase di una carriera straordinaria.

Lo stesso giorno, più tardi, in fondo a un cassetto del comò nella camera da letto di mio padre, mio fratello trovò una scatola bassa con due scialli da preghiera piegati con cura. Da quelli non si era separato. Non li aveva nascosti in un armadietto della Y o regalati a uno dei pronipoti. Il tallis più vecchio me lo portai a casa, e nell’altro seppellimmo lui. Quando l’uomo delle pompe funebri ci chiese di scegliere un vestito, dissi a mio fratello: – Un vestito? Non deve mica andare in ufficio. No, niente vestiti… è assurdo –. Dovevamo seppellirlo con un sudario, dissi, pensando che così erano stati sepolti i suoi genitori e così tradizionalmente venivano seppelliti gli ebrei. Ma mentre lo dicevo mi rendevo conto che il sudario non sarebbe stato meno assurdo – mio padre non era ortodosso e i suoi figli non erano affatto religiosi –, e mi chiedevo se non fosse invece pretenziosamente letterario e anche un po’ istericamente ipocrita. Pensavo a come sarebbe apparso bizzarro e fuori posto in un sudario un uomo coi piedi per terra, un uomo di città come mio padre l’assicuratore, un uomo solido e resistente che per tutta la vita aveva affondato le radici nella quotidianità, e al tempo stesso mi rendevo conto che proprio questa era l’idea. Ma poiché nessuno si oppose e io non ebbi l’audacia di dire: «Seppellitelo nudo», per rivestirne il cadavere usammo il sudario dei nostri avi. (pp. 184-5).

(Fine. Le prime due puntate si possono leggere qua e qua).

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Come per gli appuntamenti precedenti, il video della conferenza è disponibile sulla pagina Facebook della casa editrice.

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Norman Gobetti è il traduttore di Philip Roth oltre che, tra gli altri, di Mohsin Hamid, Daniel Mendelsohn, Aravind Adiga e, con Anna Nadotti, di Amitav Gosh.

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