Narrativa straniera e Frontiere

Una biancaneve nera

D—F
Daniela Fargione 20 Aprile 2016 8 min

Helen Oyeyemi impasta con il lievito delle fiabe la nuova letteratura africana, quella di chi si è allontanato dall'Africa. Da Cole a Adichie e ora Oyeyemi, è la generazione che sta rifondando il racconto di un continente.

In Nigeria, com’è noto, la frattura tra il mondo degli intellettuali e quello del potere ha una lunga storia: già negli anni sessanta scrittori di grande talento come Chinua Achebe e Wole Soyinka avevano trovato nell’esilio l’unica via per sfuggire alla censura, al carcere, persino alla morte, e nel romanzo il genere letterario più consono a denunciare lo sfacelo di un’Africa finalmente animata dal coraggio di auto-processarsi. Oggi la parola passa a una nuova generazione di scrittori che sono africani per nascita o origine familiare, ma ne scrivono da lontano, per la maggior parte dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti, dove si sono formati nelle migliori università e poi hanno finito spesso per insegnarvi scrittura creativa: Chimamanda Ngozi Adichie, autrice di Americanah (Einaudi 2014), Teju Cole, arrivato al successo con Città aperta, (Einaudi 2013), Uzodinma Iweala, autore di Bestie senza una patria (Einaudi, 2006), Okey Ndibe, che ha scritto Il prezzo di Dio (Clichy 2015), Chigozie Obioma, di cui esce in questi giorni I pescatori (Bompiani 2016), Lola Shoneym, cui si deve Prudenti come serpenti (66th and 2nd, 2012). Sono loro a popolare il firmamento di quella che la scrittrice Taiye Selasi ha chiamato la nuova letteratura “Afropolitan” da cui, tuttavia, Helen Oyeyemi prende le distanze: pur non ignorando la questione delle origini sostiene di non volerla trasformare in “ossessione”.

I romanzi della Oyeyemi sono impastati con lo stesso lievito delle fiabe – vi si trovano doppi, fantasmi e creature mitiche della tradizione europea, yoruba e cubana

 

Nata in Nigeria nel 1984, si trasferì presto a Londra per poi rimbalzare da una città all’altra – New York, Parigi, Toronto, Berlino, Budapest, Praga. La stesura del suo romanzo d’esordio, La bambina Icaro (Fabbri 2005), fu per lei una alternativa avvincente alla noia dei compiti: lo scrisse, infatti, mentre frequentava il liceo e venne subito accolto da critiche entusiastiche. Ora Einaudi pubblica la sua quinta proposta, Boy, Snow, Bird, quando Oyeyemi, non ancora trentenne, ha già raccolto tutta una serie di premi letterari (Granta l’ha inserita nella lista dei Best Young British Novelists) che competono con la sua bizzarra collezione di teiere, un’evocazione di rituali e atmosfere magiche che non a caso rimandano ad Alice nel paese delle meraviglie. Non solo, infatti, i suoi romanzi sono impastati con lo stesso lievito delle fiabe – vi si trovano doppi, fantasmi e creature mitiche della tradizione europea, yoruba e cubana – ma in Boy, Snow, Bird il riferimento allo specchio e ad alcuni personaggi chiave del capolavoro di Carroll è inconfutabile. Un esempio fra tanti è Bianconiglio, simbolo di un evento inaspettato e rivelatore, sempre in affanno, intento a correre da un’avventura all’altra tenendo d’occhio la cipolla nel taschino e lamentandosi che “È tardi! È tardi!”. È tardi anche per Boy, la protagonista bianca del romanzo, e Oyeyemi lo suggerisce con due soli versi di Eleanor Ross Taylor che elegge ad epigrafe: “Sveglia, ragazza! / La tua testa sta diventando un cuscino”, un monito per tutte le donne sonnacchiose che nell’America degli anni cinquanta – periodo in cui si svolge la storia – avrebbero invece urgenza di sfatare il mito per cui bianco è bello, e la bellezza è sinonimo di verità. Ma al lettore curioso non sfuggirà, se andrà a cercare l’intera poesia di Ross Taylor, il richiamo a uno specchio in attesa, a libri che giacciono sognanti e al ticchettio fastidioso di una lancetta che scandisce il tempo, concludendo che è “…troppo tardi, troppo presto”.

Bird è una bambina strana: parla con i ragni, quando si specchia non riesce a vedersi, sa contraffare le voci, ma il talento pare attivarsi soltanto con chi intende mascherare la propria identità

 

Boy Novak, voce narrante della prima parte del libro, ha atteso quindici anni prima di prendere l’ardita decisione di fuggire dalla sporcizia del Lower East Side di Manhattan e dalle grinfie di un padre violento, di mestiere derattizzatore, che ricorre a un inventario orripilante di torture per stuzzicare tanto i topi quanto la figlia, rimasta orfana di madre. Boy corre verso l’ultimo autobus in partenza che solo per caso la condurrà a Flax Hill, una cittadina del Massachusetts abitata da artigiani con la passione per le cose belle. L’incontro con il gioielliere Arturo Whitman, in passato professore di storia, sarà fatale: Boy non sa di possedere “la lucentezza di un metallo prezioso”, ma sa di volere una famiglia e si accontenta di quella che le viene offerta da questo vedovo rimasto solo a crescere l’incantevole Snow, una bambina di sei anni. È di lei che Boy si innamora, più che del padre, osservandola a distanza dal nascondiglio di un bosco dove vaga, un giorno, inseguendo il profumo di biscotti al cioccolato: “C’era una volta una principessa che rimase addormentata lì dentro per centinaia di anni”. Oyeyemi gioca con la fiaba di Biancaneve, che lascia trasparire tra le righe di una reinvenzione linguistica dotata di creatività e di arguzia, le stesse che mette in campo la bravissima Laura Noulian nel tradurre. Da Cenerentola bistrattata, Boy si trasformerà in matrigna cattiva quando darà alla luce una figlia che chiamerà Bird, voce narrante della seconda parte del romanzo, dove il racconto stinge purtroppo il suo smalto sulle metafore che chiamano in causa la razza, e quando la piccola Bird trascina il lettore in territori altrove solo evocati, mostrati come fossero l’oggetto rifratto di una superficie che ne rimanda l’immagine. Bird è una bambina strana: parla con i ragni, quando si specchia non riesce a vedersi, sa contraffare le voci, ma il talento pare attivarsi soltanto con chi intende mascherare la propria identità, con chi cerca di spacciarsi per qualcosa o qualcuno che non è. Un sospetto percorre l’intero romanzo, che la razza sia una questione di percezione, non di genetica: le due sorelle, che crescendo distanti escogitano un modo per scriversi, ne hanno la certezza la prima volta che si riuniscono dopo tanti anni di separazione: davanti allo specchio riescono finalmente a vedersi e a riconoscersi. Incombe grave il peso della maledizione di Pecola Breedlove, la protagonista nera dell’Occhio più azzurro di Toni Morrison, che vittima di soprusi e di violenze paterne, cresce col desiderio di assomigliare a Shirley Temple, perché solo così potrebbe sfuggire agli sguardi di repulsione della comunità bianca. Insofferente al pregiudizio, si allontana dalla realtà e urla al miracolo quando la sua immagine allo specchio ne riflette finalmente l’azzurro degli occhi. La piccola Pecola è ingannata da una follia che, in qualche modo, viene ripresa nell’incipit del romanzo di Oyeyemi: “Nessuno mi mise mai in guardia dagli specchi, così per molti anni li ho amati e ho creduto che meritassero la mia fiducia”. Ma Oyeyemi sfida la tirannia della superficie riflettente fino a insinuarsi negli interstizi, in quello spazio di confine tra ciò che emerge e il torbido che è stato sommerso. Lo si capirà dalle parole di Boy, di nuovo voce narrante nella terza parte del romanzo, quando verrà a conoscere la verità più insospettabile dell’intera vicenda. Al tiepido sole di un’alba rivelatrice, sorseggia una cioccolata calda come faceva da ragazzina, a New York, dopo una scarica di botte. Raggiunta da Snow, gliene offre una tazza: “La mia cioccolata”, osserva Boy, “aveva fatto la pelle: nella sua, la pelle era ancora più spessa e Snow sorbiva la bevanda dallo spazietto tra l’orlo della tazza e quello della pelle”.

Articolo apparso su «Alias» de «il Manifesto»: ringraziamo il giornale e l’autrice.

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Daniela Fargione traduce dall’inglese e insegna Lingua e Letterature anglo-americane all’Università di Torino.

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